Nei paesi poveri non c’è abbastanza ossigeno per i malati gravi di COVID-19
Non ci sono scorte per tutti e farlo arrivare in aree remote e isolate non è semplice, nonostante gli sforzi
Nei casi più gravi la COVID-19 può rendere necessario un ricovero in ospedale, per aiutare i pazienti a respirare nonostante la forte infiammazione ai polmoni. Per poterlo fare non sono solamente necessarie maschere e ventilatori, ma anche un elemento essenziale per la nostra esistenza: l’ossigeno. Mentre nei paesi come il nostro l’approvvigionamento di ossigeno a scopi sanitari non è un problema, nelle zone più povere del mondo le autorità sanitarie faticano a reperire quantità sufficienti di ossigeno per trattare tutti i loro pazienti, che rischiano di non ricevere trattamenti adeguati per superare la malattia e sopravvivere.
Ci sono diversi modi per conservare e somministrare l’ossigeno ai pazienti. Il metodo usato da più tempo implica l’utilizzo di grandi bombole, all’interno delle quali l’ossigeno viene mantenuto ad alta pressione e impiegato a seconda dei casi per trattare i pazienti. I contenitori sono cilindri metallici piuttosto ingombranti e pesanti, e devono essere maneggiati con qualche precauzione perché se si danneggiassero potrebbero causare esplosioni o produrre incendi.
Molti paesi poveri sono attrezzati per produrre ossigeno da inserire nelle bombole, ma la produzione è quasi sempre orientata verso scopi industriali e per le costruzioni. I contenitori sono quindi contaminati da olio, polveri e altri materiali, che non li rendono sicuri per la somministrazione di ossigeno in ambito sanitario. La produzione di bombole per gli ospedali deve seguire protocolli di sicurezza molto più rigidi e per i quali ci sono pochi stabilimenti idonei nelle aree più povere del mondo.
In alternativa alle bombole si possono utilizzare i concentratori di ossigeno, piccoli macchinari che ottengono questo elemento dall’aria dell’ambiente portandolo a una concentrazione del 90 per cento circa, sufficiente per la somministrazione ai pazienti.
Un concentratore di ossigeno costa tra i mille e i duemila euro, molto di più di una bombola, ma consente di produrre ossigeno costantemente e senza la necessità di essere ricaricato, a fronte di un consumo di energia paragonabile a quello di un piccolo frigorifero. Può essere quindi alimentato a batterie o tramite un generatore, nel caso in cui l’ospedale abbia problemi di fornitura elettrica, come accade spesso nei paesi poveri e in via di sviluppo.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avviato un programma per la raccolta di circa 250 milioni di dollari, che saranno utilizzati per offrire soluzioni per la produzione di ossigeno in diverse zone dell’Asia, del Sudamerica e dell’Africa. Un piano simile era già stato avviato nel 2017 con la collaborazione della Bill & Melinda Gates Foundation, in un momento in cui l’urgenza non era data da una pandemia, ma dai numerosi casi di polmonite nei bambini che contribuiscono a un’alta mortalità infantile in diversi paesi, insieme alle nascite premature e che non possono essere gestite al meglio.
Come segnala il New York Times, l’iniziativa aveva portato ai primi ordini di macchinari per la produzione di ossigeno a gennaio, ma l’avvento della pandemia ha cambiato sensibilmente le dinamiche di domanda e offerta, rendendo più difficile il reperimento di strumentazioni da destinare ai paesi più poveri. I prezzi in alcuni casi sono aumentati e le restrizioni ai trasporti hanno contribuito a complicare ulteriormente la situazione.
Lo scorso maggio l’Alliance for International Medical Action (Alima), un’organizzazione che si occupa di fornire assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo, ha trattato 123 pazienti con COVID-19 nella Repubblica Democratica del Congo: circa la metà era in gravi condizioni e necessitava di ossigeno, ma non c’erano macchinari a sufficienza. Uno dei medici di Alima ha spiegato che 26 pazienti sono morti e che l’impossibilità di somministrare ossigeno ha probabilmente inciso sul numero dei decessi.
Secondo le stime più recenti dell’OMS, il 15 per cento circa dei pazienti con COVID-19 sviluppa polmoniti atipiche piuttosto gravi, che rendono necessario l’impiego di maschere a ossigeno e ventilatori per l’intubazione. La scarsa disponibilità di ventilatori, in rapporto all’alto numero di pazienti negli ospedali, è stata un problema nella prima fase dell’emergenza sanitaria in molti paesi sviluppati, e continua a essere un problema nei paesi più poveri, anche dove si rilevano pochi casi, ma comunque in numero tale da non potere essere trattati con le scarse risorse a disposizione degli ospedali.
L’UNICEF, il fondo delle Nazioni Unite che si occupa di infanzia, ha avviato ordini per 16mila concentratori di ossigeno da distribuire in 90 paesi, ma finora è riuscito a reperirne solamente 700. L’OMS ne ha ordinati 14mila, con 2mila già distribuiti e altrettanti in fase di consegna in questi giorni. Le limitazioni ai trasporti hanno influito non solo sulle consegne dei prodotti finiti, ma anche sulle forniture per le aziende che producono i macchinari.
Ci sono poi problemi di distribuzione legati alla scarsa presenza di infrastrutture adeguate nei paesi poveri verso i quali sono destinati i concentratori. Spesso non ci sono aeroporti nelle vicinanze delle zone in cui sono richieste le strumentazioni, e le strade per raggiungerle sono difficili da percorrere, soprattutto con mezzi per il trasporto delle merci.
A complicare ulteriormente la situazione c’è la grande incertezza sull’evoluzione dell’epidemia nei singoli paesi, soprattutto in Africa dove non sempre si eseguono test a sufficienza per rilevare i casi positivi, e dove il tasso di letalità della malattia è condizionato dalla presenza di una popolazione più giovane che altrove, e quindi meno a rischio nel caso in cui sviluppi i sintomi della COVID-19. Per questo motivo le istituzioni internazionali fanno riferimento alle agenzie e alle organizzazioni sanitarie sul territorio, in modo da calibrare sforzi e offerte di mezzi per attenuare gli effetti della pandemia.