Breve storia del colonialismo italiano
È una storia di violenze brutali, crimini contro l'umanità e razzismo, a lungo dimenticata, rimossa o nascosta dietro il mito degli «italiani brava gente»
Nelle ultime settimane è tornata di attualità una questione che ciclicamente riaffiora nel dibattito pubblico italiano: come giudicare l’eredità culturale di Indro Montanelli, che fu non soltanto un famoso e popolare giornalista, ma anche un difensore dell’Impero coloniale costruito dall’Italia tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, oltre che un entusiasta partecipante all’ultimo conflitto di quell’avventura. Il dibattito si è concentrato su un episodio in particolare, raccontato da Montanelli in più di un’occasione: il suo acquisto e il successivo “matrimonio” con una giovane etiope di 12 anni. Ma la questione coloniale va ben oltre il giudizio sui comportamenti di Montanelli.
Per i 60 anni in cui durò il suo Impero, l’Italia mantenne un dominio assoluto e spesso spietato su 12 milioni di persone, sottoposte all’arbitrio dei governatori italiani senza avere la possibilità di dire la loro sul modo in cui intendevano essere governati. È un episodio della storia italiana che ancora oggi è poco conosciuto e discusso dall’opinione pubblica, una vicenda fatta di guerre di conquista, massacri, oppressione e razzismo. Un capitolo storico di cui si è sempre parlato poco e, quando se ne è parlato, spesso in termini apologetici: gli italiani venivano raccontati come un popolo di “brava gente”, che in Africa aveva portato sviluppo e investimenti.
La vera storia è ben diversa.
Il colonialismo italiano fu “povero” e “straccione”, come lo hanno descritto gli storici, oltre che altrettanto e a volte persino più brutale di quello portato avanti dalle altre potenze europee. Le conquiste coloniali e la repressione dei ribelli locali, inoltre, contribuirono ad abituare alla violenza e alla sopraffazione generazioni di giovani italiani che, come Montanelli, furono impegnati nelle operazioni di conquista o mantenimento dell’Impero. Secondo gli storici fu uno degli elementi più importanti nel fornire al paese quelle ambizioni di conquista che lo avrebbero trascinato nel disastro della Seconda guerra mondiale.
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L’impero
Al momento della sua massima estensione, subito prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale, l’Impero italiano aveva circa 12 milioni di abitanti, occupava le odierne Albania, Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia, per una superficie totale di 4 milioni di chilometri quadrati, più di dieci volte quella della sola Italia. Era un impero costruito nell’arco di pochi decenni, sotto la pressione di politici nazionalisti, imprenditori in cerca di appalti pubblici e militari desiderosi di avventure gloriose.
La prima colonia a essere occupata fu l’Eritrea, seguita dalla Somalia e quindi da un maldestro tentativo di occupare l’Etiopia, uno dei pochissimi stati africani che all’epoca non erano dominati da potenze europee. L’impresa finì disastrosamente con la battaglia di Adua del 1896, la più grave sconfitta mai subita da una potenza coloniale europea per mano di una popolazione africana.
Dopo un intervallo in cui le voci contrarie al colonialismo furono per breve tempo la maggioranza, l’avventura imperiale ricominciò nel 1911 con la guerra alla Turchia, che portò alla conquista della Libia e delle isole greche del Dodecaneso. Durante il fascismo, l’Impero italiano raggiunse la sua massima estensione con l’occupazione dell’Albania e poi con l’annessione dell’Etiopia nel 1936 (fu allora che il re d’Italia aggiunse ai suoi titoli anche quello di “Imperatore”). Fu questa la guerra alla quale partecipò Indro Montanelli, e in cui raccontò di aver acquistato una sposa bambina.
Quella italiana fu un’avventura coloniale iniziata in ritardo rispetto al resto d’Europa. Politici e generali italiani dovettero accontentarsi di occupare le aree che gli altri paesi non avevano ancora conquistato. Il risultato fu un impero piccolo, se comparato a quelli creati da Francia e Regno Unito, povero di risorse naturali e di abitanti. Fu anche un colonialismo “straccione”, portato avanti da una potenza di secondo rango non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello economico e finanziario.
I capitalisti italiani erano all’epoca poveri di capitali: non avevano molto da investire in Italia, figurarsi nelle colonie. Mentre Francia e Regno Unito avevano occupato territori ricchi di materie prime o che potevano funzionare come mercati per i prodotti della loro industria, i colonialisti italiani speravano di trasformare i territori conquistati in colonie agricole, dove destinare le centinaia di migliaia di emigranti che all’epoca lasciavano il paese per andare negli Stati Uniti, in Sudamerica oppure in Australia. Il progetto però non funzionò mai del tutto. Al momento di massima estensione, i civili italiani che vivevano nell’Impero erano appena 200 mila.
I crimini
Il prezzo pagato per ottenere questo mediocre risultato fu alto per gli italiani ma ancora di più per le popolazioni occupate. La conquista delle prime colonie in Eritrea e Somalia fu relativamente pacifica e ottenuta in gran parte con accordi diplomatici con l’Egitto, l’Etiopia e vari potenti locali. La guerra con la Turchia per la conquista della Libia fu un affare di ben altre proporzioni: un conflitto durato un anno, che portò alla morte di almeno 20 mila persone tra italiani, turchi e arabi.
In tutte queste operazioni, i conquistatori italiani avevano spesso usato la mano pesante. La loro formazione era intrisa delle idee razziste sulla superiorità dei popoli bianchi che erano molto diffuse all’epoca. L’idea che gli “indigeni” dovessero essere sottoposti alla tutela degli europei, occupandosi dei lavori di fatica e lasciando il governo e le attività più profittevoli agli occupanti, era considerata normale. Le pene per chi disubbidiva erano rapide ed esemplari.
Con l’avvento del regime fascista, nel 1922, il colonialismo italiano divenne ancora più violento. In Libia venne avviata una campagna militare per riconquistare i territori controllati dai ribelli che sarebbe durata fino al 1931. Ci furono uccisioni sommarie, torture e imprigionamenti senza processo. Nel 1930 il generale Rodolfo Graziani, inviato a risolvere una volta per tutte la situazione, iniziò a rinchiudere la popolazione delle aree più riottose in campi di concentramento dove la mortalità, in alcuni casi, raggiunse il 50 per cento. Più di centomila libici, in gran parte civili, rimasero uccisi in questa campagna di riconquista.
Il regime fascista portò a compimento anche l’ultima impresa coloniale italiana: la conquista dell’Etiopia, che aveva battuto l’Italia ad Adua 40 anni prima. Nel 1935 Mussolini dichiarò guerra all’Etiopia, sostenendo di voler mettere fine alla schiavitù che ancora si praticava nel paese. Era in realtà un’aggressione non provocata a un paese membro della Lega delle Nazioni (l’antenato dell’ONU nato dopo la Prima guerra mondiale) e l’Italia fascista venne colpita da sanzioni internazionali. Ma questo non fu sufficiente a salvare l’Etiopia.
Gli italiani, dotati di moderni aerei da guerra e carri armati, sbaragliarono l’antiquato esercito etiope e occuparono rapidamente il paese. In varie occasioni utilizzarono anche gas letali contro i loro nemici, attirandosi ulteriori critiche internazionali. L’occupazione del paese non fu meno brutale della sua conquista. L’episodio più famoso avvenne subito dopo la conquista, nel febbraio del 1937.
Graziani, appena nominato governatore della colonia, subì un attentato dal quale riuscì miracolosamente a scampare. In risposta, la guarnigione italiana della capitale Addis Abeba ricevette l’ordine di saccheggiare la città per tre giorni. Tra i 3 e i 6 mila etiopi furono uccisi nella rappresaglia. Dopo i primi tre giorni di caos e violenza, che gli etiopi celebrano ogni anno il 19 febbraio (in una ricorrenza che chiamano “Yekatit 12”), la repressione proseguì in maniera più sistematica. I tribunali militari ricevettero l’ordine di dare la caccia ai membri dell’élite etiope. Chi era stato inviato a studiare all’estero dal precedente regime era considerato particolarmente sospetto. Migliaia di persone furono imprigionate, processate sommariamente e fucilate.
Graziani era particolarmente paranoico nei confronti del clero copto, la denominazione cristiana maggioritaria in Etiopia, e diede personalmente l’ordine di distruggere alcuni monasteri e di uccidere tutti i monaci presenti. Secondo alcune stime, alla fine della fase più dura della repressione, nel maggio del 1937, un totale di 19 mila etiopi era stato ucciso nel corso dei saccheggi o delle esecuzioni sommarie compiute dagli italiani.
Fin dall’Ottocento il colonialismo italiano aveva avuto premesse razziste – come tutti gli altri colonialismi, d’altro canto – ma fu solo dopo la conquista dell’Etiopia che queste vennero sistematicamente trasformate in legge. Quasi immediatamente dopo l’occupazione furono approvate le leggi che vietavano le unioni tra italiani ed africani, mentre la propaganda e la pubblicistica fascista iniziarono ad argomentare le profonde differenze che sarebbero esistite tra gli italiani “ariani” e le inferiori popolazioni arabe e africane. Per molti storici, la conquista dell’Etiopia rappresenta uno dei primi passi sul cammino che, presto, avrebbe portato alle “Leggi Razziali” contro gli ebrei.
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L’eredità
Nel 1943, tre anni dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, l’Impero italiano aveva cessato di esistere, occupato dall’esercito britannico. Era durato quasi 60 anni, era stato il teatro di alcuni dei peggiori crimini commessi nella storia d’Italia e non aveva portato benefici visibili al paese. Ma invece di diventare un ammonimento sui pericoli del nazionalismo e del razzismo, la lezione dell’Impero italiano è stata rapidamente dimenticata.
Oggi sono pochissimi gli italiani che saprebbero indicare su una cartina la capitale della Somalia italiana, Mogadiscio, o quelli che ricordano i campi di concentramento di Graziani, mentre tra i pochi che invece ricordano ancora l’Impero è ancora diffusa l’idea degli italiani «brava gente», andati in Africa per costruire «strade e scuole».
Una parte della responsabilità per questa situazione è dei governi antifascisti del primo dopoguerra. Né la Democrazia Cristiana né i suoi alleati assunsero posizioni apertamente anticolonialiste e, anzi, durante le trattative di pace chiesero con insistenza agli Alleati la restituzione di almeno una parte delle colonie italiane (senza successo). Dal loro punto di vista, le colonie – almeno quelle conquistate prima del fascismo – erano territori legittimamente italiani e che il paese aveva diritto di sfruttare, come Francia e Regno Unito facevano con i loro.
Ma anche il colonialismo fascista fu oggetto di scarsa elaborazione storica o politica. I governi italiani, per esempio, si opposero nettamente alla richiesta degli etiopi di processare i responsabili di crimini di guerra. La sinistra, da sempre anticolonialista, preferì non fare una battaglia su questo tema, poiché temeva che attaccare l’Impero avrebbe potuto causare un rigurgito nazionalista, come era avvenuto 30 anni prima dopo la Prima guerra mondiale.
Nei decenni successivi il colonialismo italiano finì in gran parte dimenticato, non solo dalle istituzioni e dall’opinione pubblica ma persino dalla storiografia: e il vuoto lasciato venne riempito dall’idea che il colonialismo italiano fosse stato “migliore” e più umano degli altri. Ci vollero decenni perché una nuova generazione di storici tornasse a occuparsi dell’argomento e quando lo fece incontrò di frequente una certa resistenza, come le polemiche nate quando lo storico Angelo Del Boca pubblicò i suoi lavori sull’utilizzo di gas tossici nella campagna di Etiopia.
In un momento storico come quello attuale, in cui la popolazione italiana si trova a doversi confrontare con un numero sempre più alto di residenti che provengono da paesi un tempo sottoposti a regime coloniale (italiano o di qualche altra potenza europea), la questione dell’Impero è in qualche misura tornata di attualità, e le stesse questioni che ci si poneva un tempo sono tornate ad affiorare nel dibattito: come considerare gli stranieri provenienti da paesi lontani? Come integrarli nella nostra società e come trattare i loro paesi di origine? Sono questioni ancora aperte alle quali bisogna sperare che gli italiani diano risposte diverse rispetto a quelle di un secolo fa.