Milada Horakova fu impiccata settant’anni fa
La storia poco conosciuta dell’unica donna condannata a morte e uccisa dal regime comunista in Cecoslovacchia
di Pietro Cabrio
Nei 42 anni passati dalla Cecoslovacchia sotto l’influenza sovietica, 178 persone vennero condannate a morte e giustiziate dopo essere state ritenute colpevoli di crimini politici in processi sommari. Fra i giustiziati dal regime comunista cecoslovacco ci fu solo una donna, la giurista e parlamentare Milada Horakova, impiccata la mattina del 27 giugno 1950 nel cortile dell’antica prigione praghese di Pankrac insieme ad altri tre dissidenti.
Horakova, attivista per i diritti civili e delle donne cecoslovacche, partigiana durante la Seconda guerra mondiale e all’epoca madre di una ragazza di sedici anni, fu condannata per alto tradimento al termine di un processo farsa usato dal regime per fare presa sulla popolazione a pochi mesi dal colpo di stato.
Ci mise dieci minuti a morire soffocata. La sua esecuzione non fu comunicata a nessuno e il suo corpo, come quello di tanti altri dissidenti cecoslovacchi, non venne mai consegnato alla famiglia.
Horakova fu presa di mira perché rappresentava tutto quello che il partito comunista cercava di sradicare dalla società cecoslovacca. Era cresciuta in una famiglia della borghesia di Praga tra ideali liberali e progressisti. Il padre, dopo aver notato in lei curiosità e interessi non comuni, l’aveva introdotta alla vita culturale e politica del paese, cosa non scontata per una ragazza dell’epoca. Insieme furono sostenitori di Tomas Masaryk, filosofo e primo presidente della Cecoslovacchia, e studiosi delle sue opere.
In adolescenza due suoi fratelli morirono per scarlattina e in seguito a questo la madre affrontò seri problemi psicologici. Horakova dovette in qualche modo sostituirla crescendo in particolare la sorella minore, Vera. Questi eventi contribuirono ad avvicinarla alle tematiche sociali e alla ricerca del benessere comune.
Negli anni Venti si laureò in Giurisprudenza, aderì al partito socialista e sposò Bohuslav Horak, divulgatore scientifico alla radio cecoslovacca e compagno di partito. Nel 1933 nacque la loro unica figlia, Jana. In quegli anni lavorò nel Dipartimento per le attività sociali del comune di Praga e dopo l’annessione della Cecoslovacchia alla Germania nazista entrò a far parte della Resistenza. Nota alla polizia per le sue posizioni e per il suo impegno nel sociale, fu arrestata insieme al marito nel 1940 e condannata sommariamente a morte. La sentenza venne tuttavia tramutata in una condanna a otto anni, che scontò tra il campo di concentramento di Terezin e alcuni campi di prigionia tedeschi.
Finita la guerra si ricongiunse con la famiglia a Praga e tornò a frequentare i suoi ambienti. Divenne una figura importante nella ricostituzione del paese e fu scelta tra i delegati in parlamento nella fase transitoria dopo la fine dell’occupazione nazista. Fu tra i parlamentari contrari all’esilio forzato della minoranza tedesca e promotrice delle prime forme previdenziali per lavoratori e reduci di guerra; alle prime avvisaglie aiutò numerosi suoi concittadini, spaventati dall’idea di vivere sotto un nuovo regime, a lasciare il paese. Assunse inoltre il ruolo di presidente del Consiglio nazionale delle donne, diventando la voce delle donne cecoslovacche all’estero. Con questo ruolo ebbe modo di conoscere e confrontarsi anche con Eleanor Roosevelt.
Tra il 1947 e il 1948 la pressione del partito comunista cecoslovacco sulla classe dirigente si intensificò fino al colpo di stato del febbraio 1948, che segnò l’inizio del controllo sovietico sul paese. Come aveva già fatto dieci anni prima, Horakova si mise a difesa della libertà dei cecoslovacchi rifiutando platealmente gli inviti del partito comunista e le avvertenze di familiari e amici, preoccupati per le conseguenze delle sue posizioni.
Si dimise da parlamentare nel marzo del 1948, un mese dopo le dimissioni presentate in massa dagli altri delegati democratici e pochi giorni dopo la misteriosa morte del ministro degli Esteri Jan Masaryk, trovato morto nel cortile sotto la finestra del suo ufficio al ministero (vicenda passata alla storia come “la quarta defenestrazione di Praga”). Horakova pianificò dunque una fuga all’estero con la famiglia, ma in ritardo: fu arrestata nel suo ufficio poco prima della partenza e quindi interrogata, torturata e incarcerata per quasi due anni.
Nella crescente isteria collettiva alimentata dalla propaganda di regime, venne dipinta come una cospiratrice, una donna arrogante che non sapeva stare al suo posto e che trascurava la famiglia. Aveva inoltre 48 anni, un’età considerata giusta per non suscitare troppa compassione: non era troppo giovane né anziana e indifesa. Nell’arco dei due anni passati in carcere, molte personalità note dell’epoca, tra cui Winston Churchill e Albert Einstein, chiesero la sua grazia al presidente cecoslovacco Klement Gottwald, ma inutilmente.
I processi del regime avevano lo scopo di annichilire i dissidenti convincendoli della loro colpevolezza dopo lunghissimi isolamenti fatti di torture e interrogatori sfiancanti. Horakova, consapevole fin dal suo arresto di quello che le sarebbe capitato, riuscì a rimanere in sé nonostante tutto quello che dovette subire, compresa la falsa notizia della morte del marito e del suocero. Il suo processo fu trasmesso alla radio e addirittura ripreso dalle telecamere, una rarità per l’epoca. Con la condanna a morte già scritta, disse nella sua dichiarazione finale: «Quello che ho fatto, l’ho fatto consapevolmente. Mi prendo tutta la responsabilità delle mie azioni ed è per questo che accetterò la punizione che mi verrà data. Continuo a sostenere le mie convinzioni».
Il verdetto della corte venne annullato diciotto anni dopo la sua morte, durante il periodo della Primavera di Praga, ma questo fu reso noto soltanto dopo la fine del regime comunista, quando la sua figura venne completamente riabilitata. Da allora il 27 giugno di ogni anno la Repubblica Ceca rende omaggio a tutte le vittime del comunismo. La memoria e le ultime volontà di Horakova sono contenute in una lettera che scrisse alla figlia Jana — sopravvissuta insieme al padre — poco prima di morire.
Mia unica piccola Jana,
Dio ha benedetto la mia vita di donna dandomi te. Escludendo il magico, straordinario amore di tuo padre, tu sei stata il più grande dono che ho ricevuto dal destino. Ad ogni modo, la provvidenza ha pianificato la mia vita in un modo che non mi consentirà di darti tutto quello che la mia mente e il mio cuore avevano preparato per te.
Il motivo non è che ti ho amata poco; ti ho amata altrettanto puramente e con lo stesso fervore con cui le altre madri amano i loro figli. Ma ho compreso che il mio compito in questo mondo era fare il tuo bene mostrandoti che la vita migliora. E pertanto abbiamo dovuto essere spesso separate. Questa è già la seconda volta che il fato ci divide. Non essere spaventata e triste per il fatto che non tornerò più. Impara a guardare alla vita come una questione importante.
[…]
Non tapparti le orecchie davanti a nulla e per nessun motivo. Non zittire i pensieri e le opinioni di qualcuno che mi ha pestato i piedi o che mi ha ferito profondamente. Esamina, pensa, critica: sì, principalmente critica te stessa, non aver paura di ammettere una verità che hai compreso, anche se avevi proclamato l’opposto fino a un attimo prima; non diventare ostinata sulle tue opinioni, ma quando arrivi a considerare giusta una cosa, allora sii così determinata da combattere per essa.
Dovrai trovare la tua strada. Cercala da sola, non lasciare che nessuno ti distragga, nemmeno la memoria di tua madre e di tuo padre. Se davvero li ami, non farli soffrire guardandoli con occhio critico, non andare per una strada che è sbagliata, disonesta e che non c’entra con la tua vita. Ho cambiato idea molte volte, riclassificato molti valori, ma quel che resta come valore essenziale, senza il quale non potrei immaginare la mia vita, è la libertà di coscienza. Vorrei che tu, mia piccola bambina, pensassi se ho avuto ragione in vita oppure no.
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