Alcuni dipendenti di Adidas trovano ipocriti i post dell’azienda sul razzismo
L'immagine pubblica a sostegno di Black Lives Matter contrasta con i racconti degli impiegati che denunciano una cultura aziendale poco eterogenea
Quasi un anno fa a Boston si tenne una riunione nella sede di Reebok con diversi membri del consiglio di amministrazione di Adidas, l’azienda tedesca che ne controlla il marchio. All’ordine del giorno, tra le altre cose, c’era la discussione di alcune richieste dei dipendenti nate a seguito di un’inchiesta del New York Times sugli squilibri etnici all’interno di Adidas, e sull’emarginazione dei (pochi) dipendenti neri e ispanici dell’azienda.
La risposta che diede la dirigenza a queste istanze è emersa solo qualche settimana fa, riportata dal Wall Street Journal: la responsabile delle risorse umane, Karen Parkin, disse che era solo «rumore», cose che facevano discutere soltanto in Nord America mentre erano un problema inesistente nelle sedi in Europa e nel mondo. Perciò non c’era motivo di occuparsene.
Per quasi un anno Adidas non è mai tornata sull’argomento, nonostante la dura reazione dei dipendenti: Aaron Ture, dipendente gay e afroamericano di Reebok, ha detto a Quartz che quella riunione «causò molta indignazione». Le rimostranze hanno cominciato ad avere qualche effetto solo dopo le proteste nate a seguito della morte di George Floyd, durante le quali Adidas, come molte altre aziende, ha pubblicato sui propri social contenuti a sostegno del movimento Black Lives Matter.
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La contraddizione tra l’immagine pubblica di Adidas e la realtà vissuta all’interno dei suoi uffici ha spinto allora alcuni dipendenti a protestare in modo più aperto. All’inizio di giugno la dipendente Julia Bond ha scritto una lettera all’azienda in cui la accusa di accettare il razzismo nell’ambiente di lavoro: «Sbarrare la parola razzismo non nega la realtà». Dopo di lei, altri dipendenti hanno fatto lo stesso: Aric Armon ha scritto una lettera alla dirigenza in cui racconta la sua esperienza con un collega bianco che ha usato un linguaggio razzista nei suoi confronti. Armon ha poi pubblicato la lettera sul suo profilo Instagram.
Successivamente, il 15 giugno, 83 dipendenti di Adidas hanno scritto una lettera aperta in cui, oltre a denunciare la situazione, chiedono all’azienda di aprire un’indagine interna su Karen Parkin, la responsabile che aveva parlato dell’inchiesta sul razzismo definendolo «rumore». Chiedono anche di istituire un ufficio apposito che tuteli qualsiasi dipendente voglia esporsi e parlare di problemi legati al razzismo senza temere possibili ritorsioni.
Un altro problema di Adidas, sentito soprattutto nelle sedi statunitensi ed emerso nelle ultime settimane, è la cultura aziendale poco eterogenea. Le posizioni dirigenziali sono occupate prevalentemente da bianchi e gli afroamericani e gli ispanici sono molto poco rappresentati: è un aspetto che era già emerso nell’inchiesta di un anno fa del New York Times, secondo cui nel 2018 solamente il 4,5 per cento dei circa 1.700 impiegati alla sede di Adidas a Portland (Oregon) si identificavano come neri (i neri sono circa il 13 per cento della popolazione americana).
Alcuni impiegati, parlando con il Wall Street Journal, hanno detto che Adidas trae profitto dalle comunità afroamericane – tra le quali è molto popolare – restituendo poco: per questo motivo hanno chiesto alla dirigenza che la rappresentanza di neri e ispanici nell’organico aziendale aumenti. In risposta, Adidas ha detto che investirà 120 milioni di dollari in progetti legati alle comunità afroamericane e che il 30 per cento dei nuovi assunti nelle sedi statunitensi di Adidas e Reebok saranno persone nere e ispaniche.
Adidas la scorsa settimana ha poi risposto alle proteste e alle lettere ricevute, respingendo «con forza» le affermazioni fatte dai dipendenti: «Adidas e Reebok sono e saranno sempre contro ogni forma di discriminazione», ha fatto sapere un portavoce, aggiungendo che l’azienda ha già adottato una politica molto rigida contro abusi e ritorsioni razziste e che di recente è stato assunto un controllore terzo per vigilare sul suo funzionamento.
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