I Paesi Bassi sono un problema per l’Europa?
Dopo aver contribuito a fondare le prime istituzioni comuni, oggi si mettono di traverso a qualsiasi proposta di maggiore integrazione e sostegno ai paesi più fragili
Da settimane i paesi europei stanno negoziando insieme alle istituzioni dell’Unione Europea l’entità e le caratteristiche del Fondo per la ripresa, chiamato anche Recovery Fund o Next Generation EU, cioè il principale strumento comunitario per bilanciare gli effetti della crisi economica provocata dall’epidemia da coronavirus.
Uno degli stati che stanno facendo maggiori resistenze, con l’obiettivo di limitare la portata del progetto, sono i Paesi Bassi, che guidano un gruppo informale di nazioni dalle posizioni conservatrici in economia chiamato “Frugal Four”. Anche ieri nell’ultima riunione del Consiglio Europeo, cioè l’organo di cui fanno parte i capi di stato e di governo dell’Unione, il primo ministro olandese Mark Rutte ha detto che non c’è alcuna fretta di approvare il Fondo, e che i paesi che ne beneficeranno di più – come Italia e Spagna – dovrebbero accettare pesanti condizioni per ottenere i fondi.
Non è la prima volta che i Paesi Bassi si oppongono con forza a una maggiore integrazione europea, ma l’intransigenza mostrata nelle ultime settimane – sommata a un approccio piuttosto riconoscibile tenuto negli ultimi anni – sta facendo emergere dubbi sempre più estesi sul modo in cui vivono l’appartenenza all’Unione. In poche parole ci si chiede se ultimamente siano diventati un problema, per le prospettive e i progetti dell’Europa comunitaria.
I Paesi Bassi sono fra i sei fondatori della moderna comunità europea, perché nel 1951 contribuirono a creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), cioè il primo embrione di istituzione sovranazionale europea, e poiché parteciparono a tutte le tappe di integrazione politica ed economica immediatamente successive. La loro posizione nel cuore dell’Europa occidentale, e un efficiente corpo diplomatico e amministrativo ereditato dal vecchio impero coloniale, permise loro di partecipare da protagonisti al dibattito politico europeo e di ospitare le sedi della Corte internazionale di giustizia, dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, della Corte penale internazionale e di varie agenzie dell’Unione Europea.
Eppure nel 2005 i Paesi Bassi furono uno dei due stati che – insieme alla Francia – respinsero l’adozione di una costituzione europea con un referendum popolare, in cui il “no” vinse con un margine superiore ai 20 punti percentuali. I politici e i commentatori olandesi, soprattutto quelli conservatori, parlano con aperto disprezzo della maggior parte dei paesi europei: ancora oggi l’ex capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem viene ricordato per aver accusato gli europei degli stati del Sud di spendere troppi soldi in «donne e alcol».
In realtà l’europeismo dei Paesi Bassi è sempre stato piuttosto peculiare: come molti altri piccoli paesi del Nord Europa a vocazione commerciale, i politici e i funzionari olandesi sono sempre stati interessati a un’Europa che funziona finché gli conviene, e in definitiva «favorevoli a un approccio sovranazionale finché serve i propri interessi (economici) e nulla di più», ha spiegato qualche anno fa il politologo Jan Rood, che insegna integrazione europea all’università di Leiden, nei Paesi Bassi: «Questo interesse è diventato ancora più forte quando i Paesi Bassi si sono trasformati in un’economia dei servizi con un ampio settore finanziario e una posizione cruciale nella logistica e nei trasporti, grazie al porto di Rotterdam e all’aeroporto di Schipol».
Finché l’integrazione europea andava di pari passo con una sempre maggiore integrazione economica, e con misure come il mercato comune e la libera circolazione dei capitali, i Paesi Bassi sono stati favorevoli a rendere ancora più stretti i rapporti fra gli stati europei. Negli ultimi anni però l’Unione ha preso diverse importanti decisioni di natura eminentemente politica – tra tutte: salvare l’eurozona a tutti i costi e garantire sempre più poteri alle istituzioni comunitarie come Commissione e Parlamento – mentre all’interno di un’Unione sempre più larga il peso e l’influenza di un paese dalle dimensioni tutto sommato piccole continuava a diminuire.
Dopo l’uscita di fatto del Regno Unito dal dibattito europeo, i Paesi Bassi hanno perso il loro alleato più prezioso fra i paesi che ritengono che l’Unione Europea funzioni finché conviene, e mettendosi alla testa dei “Frugal Four” hanno preferito combattere le loro battaglie come un’influente minoranza rumorosa, a colpi di veti e intransigenze, piuttosto che partecipare ai faticosi compromessi collettivi.
Negli ultimi tempi i Paesi Bassi si sono messi di traverso, fra le altre cose, a un maggiore contributo dei paesi più ricchi al prossimo bilancio pluriennale dell’Unione Europea, all’apertura dei negoziati per l’adesione dell’Albania, e più di recente all’ambizioso compromesso trovato da Francia e Germania, e appoggiato da Commissione e Parlamento, per dotare di 500 miliardi di euro di sussidi a fondo perduto il Fondo per la ripresa. La resistenza dei Paesi Bassi sarà uno dei principali ostacoli da superare per trovare un compromesso sul Fondo, e sembra probabile che ai “Frugal Four” verrà garantita almeno qualche vittoria simbolica (anche perché per l’approvazione finale del fondo ci sarà bisogno dell’unanimità).
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Esattamente come un’altra minoranza rumorosa, quella dei paesi dell’Est, i Paesi Bassi hanno capito che l’Unione Europea dispone di pochissimi strumenti per punire gli stati membri che violano le regole e le raccomandazioni comunitarie su alcuni temi che non sono di stretta competenza europea, come ad esempio le entrate fiscali.
Il Parlamento Europeo ha avvertito più volte che la tassazione dei Paesi Bassi è talmente favorevole per le multinazionali che è paragonabile a quello dei paradisi fiscali, mentre uno studio di alcune settimane fa del gruppo di attivisti Tax Justice stima che ogni anno i Paesi Bassi sottraggano circa 8,6 miliardi di euro di tasse che le aziende dovrebbero versare agli altri paesi europei.
Eppure l’appartenenza dei Paesi Bassi all’Unione Europea non è mai stata in discussione, e anzi, diversi politici locali hanno spesso invocato riforme e cambiamenti strutturali per gli altri paesi europei, specialmente per quelli del Sud. «La politica estera dei Paesi Bassi ha una profonda vena moralizzatrice», ha spiegato all’Economist il politologo Rem Korteweg del think tank olandese Clingendael Institute. «Dato che siamo ricchi e conosciamo la verità, vi spiegheremo come fare le riforme».
Sul sito dell’Atlantic Council, il politologo Elmar Hellendoorn ha ipotizzato che parte dell’ostilità degli olandesi verso gli stati del Sud sia dovuta al fatto che «contrariamente al resto dei paesi europei, dove le pensioni sono pagate perlopiù dallo stato, ciascun olandese mette personalmente i soldi nel proprio fondo pensione. Di conseguenza temono molto fenomeni come l’inflazione o l’azzeramento dei titoli di stato di alcuni paesi detenuti dai loro fondi, oppure quelli che percepiscono come “ingiusti” versamenti ad altri paesi europei».
Negli ultimi tempi, comunque, durante la discussione per il Fondo per la ripresa l’approccio olandese ha generato qualche reazione spazientita anche fra i funzionari europei, solitamente piuttosto tolleranti e abituati a eccessi del genere. Dopo che il governo olandese aveva proposto un’inchiesta europea sulla scarsa solidità delle finanze pubbliche di qualche paese particolarmente bisognoso, un funzionario europeo che ha parlato al quotidiano olandese Volkskrant ha accusato i Paesi Bassi di avere mostrato «il dito medio» agli stati del Sud.
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Qualche giorno fa nella bolla di Twitter di funzionari e studiosi di cose europee è circolato un grafico eloquente che mostra come negli ultimi 25 anni il saldo primario italiano – cioè la differenza fra entrate e uscite dello stato esclusi gli interessi sul debito – sia stato spesso superiore in percentuale a quello olandese: quindi, che i conti pubblici italiani siano stati decisamente più virtuosi di quelli olandesi, secondo certi parametri.
Netherland's PM Rutte is again lecturing Italy & Co. Can anyone tell him that Italy recorded a primary budget SURPLUS (excl interest payments) in 24 out of 25 years? Italy did more fiscal consolidation than NL, with negative growth effects. Stop lecturing, support recovery fund! pic.twitter.com/kEMrX2jg7d
— Philipp Heimberger (@heimbergecon) May 21, 2020
Il rapporto fra Paesi Bassi, istituzioni europee e paesi del Sud Europa è ulteriormente complicato dal fatto che il panorama politico olandese è da sempre uno dei più frammentati in Europa – nonché uno dei primi in cui nacquero partiti esplicitamente euroscettici – e che i dibattiti europei vengono spesso utilizzati dal primo ministro Mark Rutte o da altri importanti leader politici per ragioni di consenso interno.
Diversi osservatori, per esempio, concordano sul fatto che l’ostilità dell’attuale ministro delle Finanze Wopke Hoekstra a un Fondo per la ripresa più ambizioso possibile sia dovuta alla sua volontà di corteggiare l’ampio elettorato euroscettico e nel medio termine accreditarsi come possibile successore di Rutte.
Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi l’intransigenza del governo olandese potrebbe addirittura aumentare, dato che le prossime elezioni parlamentari sono fissate per il 17 marzo 2021, e i principali leader potrebbero continuare a comportarsi come hanno fatto negli ultimi anni: soprattutto se la Commissione e alcuni stati membri, come sembra, proveranno a fare ulteriori passi in avanti nell’integrazione politica ed economica mettendo sul tavolo altre misure piuttosto ambiziose come la creazione di entrate fiscali riscosse direttamente dall’Unione Europea.