Una canzone dei Grandaddy
La bellezza dei suoni ricchi e delle composizioni non tradizionali, e la nostalgia di luoghi tradizionali
Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
È morta a 103 anni Vera Lynn, ne avevamo parlato qui un paio di mesi fa, da chiusi in casa.
C’è una nuova canzone di Duffy.
Paul Simon vecchietto che fa ancora meravigliosamente Homeward bound: “Tonight I’ll sing my song again”.
The crystal lake
“Progressive”, lo dico per le persone normali tra voi, è una delle tante categorie che determinati tipi di musica o periodi rock si sono inventate nei decenni: in questo caso una categoria antica. Se volete leggervi tutta la storia potete andare su Wikipedia, io mi limiterò a dirvi che quando sentite il termine (o anche “prog”), si parla di questo: quel rock che negli anni Sessanta e Settanta si inventò composizioni più varie e lunghe, a volte opere complete, attingendo a generi classici, con arrangiamenti e strumentazioni più ricche del solito chitarra-basso-batteria-e-tastiere-ogni-tanto e suoni più inventivi. “Barocchi”, si è detto qualche volta. Insomma i Genesis, gli Yes, i King Crimson, ma pure i Pink Floyd, solo per dire i famosissimi.
Per un periodo successivo il progressive (che in Italia ebbe fortune e interpreti speciali) fu sprezzato da certi duri-e-puri, ma poi venne ripreso in forme più moderne a cavallo della fine del millennio, da band che di nuovo stavano strette nei formati di canzoni più convenzionali: e quell’approccio investito in suoni nuovi sta dentro le meraviglie che hanno fatto i Radiohead, i Talk Talk, i Sigur Ros, Sufjan Stevens, tra quelli di cui abbiamo parlato qui, per esempio.
I Grandaddy si formarono in California all’inizio degli anni Novanta e il loro secondo disco fu in particolare molto apprezzato, con paragoni coi Radiohead, appunto. Il capo si chiamava Jason Lytle, ex skateboarder con casini di dipendenze – un tipo della categoria Elliott Smith -, e la band si estinse nel nuovo millennio: lui continua a suonare in occasioni varie. Quel loro secondo disco era bello e parlava in modo pessimista e deprimente della nuova era tecnologica: ricevette ottime critiche e persino buone posizioni in classifica per il singolo The crystal lake. Di cui ci occupiamo oggi che è giovedì, ma fosse stata una sera più tradizionalmente quieta vi avrei indicato, in quello stesso disco, Underneath the weeping willow.
The crystal lake parla di avere rincorso sogni di ambienti e mondi moderni e attraenti che si sono rivelati traditori, ed essersi persi, ed era meglio restare al lago cristallino piuttosto che finire in questa città decadente. E ha un andamento rotatorio e incalzante, una specie di giostra che a canticchiarla ci si sente il vento tra i capelli, anche nel modo in cui lui spiattella i versi senza sosta, con la sua vocetta. Poi si ferma un attimo in sospensione:
And find my way again.
I’ve lost my way again
E via di giostra di nuovo.
(alzate il volume, se potete, stasera)
The crystal lake su Spotify
The crystal lake su Apple Music
The crystal lake su YouTube