Le mappe, splendidi oggetti morti
Il primo capitolo del nuovo libro di Massimo Mantellini, per orientarsi tra le cose che non ci sono più ma ci sono ancora
Herta Müller è la vincitrice del Nobel per la Letteratura del 2009: il suo fazzoletto è un oggetto di uso quotidiano che la mamma la abituò a mettere in tasca ogni mattina. Nel discorso che fece quando vinse il Nobel, raccontò che quando venne licenziata da un lavoro che non voleva assolutamente perdere stese quel fazzoletto sulle scale davanti alla fabbrica e lo usò come scrivania provvisoria. E ne fece un simbolo: del suo ufficio e della sua connessione con il mondo intorno.
Massimo Mantellini usa questa immagine nell’introduzione del suo nuovo libro pubblicato da Einaudi. Si chiama Dieci splendidi oggetti morti e dedica ciascun capitolo a storia e storie dei suddetti oggetti: a cominciare, appunto, dalle mappe.
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Le mappe
Provare a perdersi
Si comprò una pianta di Parigi, e con la punta del dito, sulla carta, faceva passeggiate nella capitale. Risaliva i viali, fermandosi a ogni angolo, tra le linee delle strade, davanti a quei quadrati bianchi che raffigurano le case. Con gli occhi stanchi, alla fine, chiudeva le palpebre.
Gustave Flaubert1
Servono braccia grandi per dispiegare la carta stradale del Nord Italia; a volte nemmeno quelle bastano. Occorrerà attenzione per capire poi, a fine consultazione, come ripiegarla: capiterà di confondere dritto e rovescio di ogni singola ripiegatura e ottenere, come risultato finale, una salsiccia al posto di una piadina. Servono occhi allenati e un po’ di concentrazione per riconoscere i piccoli nomi delle città, e seguire col dito il percorso rosso della strada statale, quello giallo delle provinciali, il verde delle autostrade. O per controllare il numerino dei chilometri che separano Padova da Mestre. E poi quelli fra Mestre e Vittorio Veneto e poi su, fino a Ponte delle Alpi. E alla fine sommare tutto, per ottenere la distanza da qui, dove siamo ora, alla Val di Fassa, dove i nostri genitori ci stanno portando, a me e mia sorella, per le vacanze estive che si ripetono ogni anno uguali.
A noi ragazzini aprire la carta Michelin è proibito: è un oggetto costoso, gli adulti sanno che di tutti quei segni capiremmo poco o nulla, che rischieremmo di strapparla sui bordi già lisi: che non saremmo in grado di ripiegarla come Dio comanda. Del resto neanche a loro riesce sempre alla perfezione, basta una brezza di vento a rendere l’operazione molto piú complicata.
Siamo fermi in un autogrill o in una stazione di rifornimento. Il motore dell’auto si sta raffreddando (dice mio padre che una volta all’ora è meglio fermarsi un po’). Attorno a noi, in grandi espositori verticali, sono in vendita le mappe per andare ovunque in Europa, ordinate per Paese, disposte a seconda della distanza da noi. Austria, Svizzera, Francia, Germania, poi anche carte per luoghi lontanissimi: Danimarca, Svezia, Norvegia. Come se qualcuno davvero partisse da qui, alla fine degli anni Sessanta, per arrivare in Norvegia, con la sua auto, consultando una carta stradale piegata male. Impossibile, pensiamo noi ragazzini in viaggio verso le lontanissime Dolomiti. Impossibile, se già arrivare a Moena senza vomitare ci sembra un’avventura ai limiti dell’immaginabile.
Ho sentito dire da qualche medico mio conoscente che la demenza si annuncia attraverso piccoli segni, sintomi trascurabili che sulle prime tenderemo a ignorare. Cosí io, da qualche decennio a questa parte, mi spavento un po’ ogni volta che dimentico dove ho lasciato l’auto: mi capita, specie negli aeroporti, soprattutto in quelli grandi, per via di quei parcheggi multipiano tutti uguali. Torno dopo un viaggio e penso, ogni volta, che l’auto sia stata rubata. Non è cosí ovviamente: da qualche parte lei sbuca fuori, rispondendo con le luci e il suo rumore familiare al richiamo del telecomando. Eccoti, ecco dove ti avevo lasciato, penso.
Da un po’ di tempo a questa parte succede una cosa strana anche quando scendo dall’auto. Spengo il motore, il telefono cellulare smette di dialogare col computer di bordo e a quel punto lo schermo si illumina per il tempo necessario ad annunciarmi che la posizione in cui ho parcheggiato è stata salvata. Rassicurante. Non ricordo di avere mai chiesto al mio telefono di attivare una funzione del genere, ma è un’invasione della privacy che per una volta ho apprezzato.
Il fascino delle mappe stradali, la qualità della loro stampa, la complessa ripiegatura che consentiva di tenere quei fogli enormi nelle tasche laterali dell’auto o nel cassetto del cruscotto, il loro ruolo rassicurante, che potrebbe essere racchiuso nella frase dei miei genitori: «Fermiamoci un attimo a controllare la carta», dopo tanti anni ai miei occhi è rimasto intatto. Eppure quelle mappe sono scomparse lo stesso. Sono morte. Che io sappia, nessuno ha protestato. Sono sparite dagli espositori delle pompe di benzina e hanno abbandonato le tasche laterali delle nostre auto, sostituite dai loro surrogati elettronici: piccoli oggetti rettangolari, collegati a una rete di satelliti che tutti noi, oggi, con fare da intenditori, chiamiamo gps. Puntini nel cielo notturno che ora dialogano anche con i nostri telefoni e i nostri tablet per dirci esattamente dove siamo e dove stiamo andando. Ecco dove sei. Ecco dove stai andando.
Come non si sottolineavano i libri cosí nemmeno le carte stradali potevano essere segnate. Questo almeno mi è stato insegnato (poi piú tardi sui libri ho iniziato, ma solo un po’). Niente cerchi a matita sul nome della nostra meta; semplice consultazione visuale, al massimo la traiettoria disegnata sulla carta dal polpastrello, come fossimo il comandante della nave che decide la rotta. Cosí, a forza di aprirle e chiuderle senza mai segnarle, la geografia rimaneva intatta ma la mappa, nel punto di ripiegatura della carta, diventava negli anni ugualmente lisa e illeggibile. Quei segni erano reperti importanti: la traccia del nostro passaggio. La carta geografica consumata dei nostri viaggi sempre uguali. La stessa cosa avviene in certe stazioni della metro o all’ingresso di grandi parchi o centri commerciali: la scritta “voi siete qui” sui cartelloni è resa illeggibile dallo struscio delle dita di migliaia di passanti: il tocco che scava il buco nell’inchiostro plastificato, il naso del porcellino di Firenze2 lucidato dalla carezza degli uomini.
Ieri il cruscotto mi ha informato che le mappe stradali, quelle che la mia auto mostra mentre guido, non sono state aggiornate negli ultimi due anni. In questo periodo – mi fa sapere il perentorio annuncio – circa il 40 per cento dei percorsi stradali potrebbe essere mutato. Credo che continuerò a utilizzarle cosí, come sono ora, buone al 60 per cento. Sembra un compromesso onorevole fra la mia pigrizia e una precisione che davvero non mi appartiene. Le mappe cartacee dell’auto di mio padre ci conducevano con relativa sicurezza fino al confine esterno delle città, grandi o piccole che fossero: quel cartello rettangolare blu e bianco che segnava l’inizio del territorio comunale era già un successo, la meta infine raggiunta. Oggi la cartografia digitale mescola iconografia accuratissima e tempo reale, e lo fa con la bulimia tipica dell’universo digitale. Nel celebre, affascinante, e anche lui assai morto, progetto dei Google Glass era previsto che la cartografia si estendesse dalle strade delle città fin dentro gli edifici. Con i nostri preziosi occhiali indossati avremmo potuto trovare a colpo sicuro la sezione «Filosofia antica» della nostra libreria preferita. Un satellite ci avrebbe condotto di fronte ai libri di Aristotele o a quelli di Eraclito: aprendone uno a caso avremmo magari trovato il detto del filosofo efesino che recita: «Anche in cucina ci sono degli dèi». Occorre attrezzarsi per l’inconsueto – ci avrebbe detto Eraclito – dentro le piccole cose sono racchiuse le meraviglie del mondo.
Ho spento spesso il gps dell’auto in questi anni. Una volta, in una zona poco abitata della Francia centrale, la voce sintetica del navigatore cercava di convincermi a guadare un torrentello, un’altra volta nelle alte terre scozzesi si ostinava a ricondurmi di fronte a un grande cancello chiuso da dietro il quale un paio di mucche ci osservavano curiose. Ah siete ancora voi? Di nuovo qua?
Spegnere la tecnologia è ovviamente diverso dal non averla per nulla, ma le assenze che quel gesto genera non sono troppo differenti. Fallimento o assenza portano entrambi dalle parti della cucina di Eraclito: dove saranno questi benedetti dèi della cucina? Quando la tecnologia funziona troppo bene, quando viene sacralizzata, il punto interrogativo scompare. Servono gps che ogni tanto sbaglino percorso per trovarli questi dèi nelle piccole cose.
Eppure il fascino rimane. I nostri figli sono nati ai tempi delle mappe di Google, che è una delle piú straordinarie opzioni che abbiamo oggi a disposizione. E allora, a cosa serve Internet? A osservare il mondo sotto di noi, per esempio. Quando vent’anni fa cominciarono a circolare in rete le prime iconografie zoomabili del pianeta, cominciammo a sbirciare dall’alto luoghi nei quali non saremmo mai stati. E altri luoghi che ci sarebbe piaciuto visitare. Non la loro ricostruzione grafica su una carta, ma la foto di quel luogo, in una giornata qualunque, come se noi stessi fossimo passati lí sopra in quel momento. Dentro quella commistione fra magia e documento abbiamo osservato rapiti il terrazzo di Casa Malaparte a Capri, nella segreta speranza di trovarci immortalato lo scrittore mentre assorto scruta il mare, con la faccia un po’ triste, i mocassini, le calze lunghe sui pantaloni troppo corti e il bassotto in grembo.
In seguito lo zoom si è fatto accuratissimo: osserviamo le persone con le gambe a penzoloni sulla Senna sullo spigolo dell’Île de la Cité, la nostra auto parcheggiata sotto casa, riconosciamo l’ombra obliqua della Torre Velasca fotografata dall’orbita geostazionaria. E quando lo zoom non è piú stato sufficiente ecco Street View che trascina l’omino dondolante che siamo noi a spasso nelle strade di ogni città del mondo. L’unica forma di navigazione 3D, nonostante i molti tentativi, che oggi funzioni davvero in rete. Poi, per sovrappiú, sono arrivate le mappe dei crateri lunari, poi quelle dei sentieri amazzonici, in ogni caso il piú si era ormai compiuto.
Le vecchie carte Michelin di mio padre ora sono anch’esse un sito web e navigarci dentro mi scatena una specie di déjà-vu per quanto i tratti grafici siano tuttora i medesimi delle mappe della mia infanzia. Insieme alla potenza del ricordo procede anche l’evidenza del cambiamento. Che riguarda tutto, dal modello economico, ai meccanismi di fruizione, dalla vastità dell’offerta ormai gratuita, alla sua portabilità assoluta.
Camminando per Oxford Street a Londra capiterà di incrociare, nelle vetrine dei negozi di souvenir, uno degli ultimi residui della cartografia cartacea sopravvissuti al tempo. Quasi tutte le mappe cartacee sono ormai morte e sepolte, questa un poco resiste ancora. Si tratta di uno splendido libretto che si chiama London A-Z, ove «dalla A alla Z» si intende tutte le strade e le piazze della città ordinate in celle, ordini alfabetici e caotiche e bellissime mappe colorate. Su quel libretto scoprii molti anni fa quanto Londra fosse grande e quanto fosse complicata per chi desideri orientarsi a suon di indirizzi. London A-Z divideva la città in 137 celle. La mia copia, che sto sfogliando ora, è ingiallita e vecchia di trent’anni, magari ora sono di piú. In ogni caso da quelle parti – come è noto – le zone sono meglio organizzate in sigle (NW6 è per esempio la zona della città da cui sto scrivendo ora) e codici postali (ogni casa ha il suo) e non utilizzano troppo i nomi propri di santi, poeti, regnanti o navigatori. Invece ci sono nomi che spesso si ripetono simili in zone differenti della città. Per esempio Woburn può essere «road», ma anche «square»: esiste «Woburn place», ma anche «Woburn close». Dove lavora mia moglie in questo momento, in uno dei molti «Woburn qualcosa» della mappa, è invece, piú semplicemente «WC1H0AB». Semplice no? Sí, semplice e un po’ brutale ma gli inglesi si sa sono fatti cosí.
Ognuno di noi è «il puntino scintillante sulla lunga strada nera» dice George Perec nel suo romanzo d’esordio3, dedicato non a caso agli oggetti, e ovviamente non sarà il nuovo formato che abbiamo adottato per i nostri riferimenti geografici a cambiarci la vita. Ma come sempre, vale anche per gli oggetti che ci circondano, nelle mutazioni qualcosa perdiamo e qualcosa portiamo con noi: l’indagine di tutto questo, la contabilità del dare e dell’avere è, alla fine, la nostra storia.
Sto osservando le foto satellitari di Google dell’estuario dell’Orinoco, al confine fra Colombia e Venezuela. Sono immagini di scarsa qualità, e qui, dalla mia scrivania, un po’ me ne dispiaccio. Le centinaia di rami dell’estuario sono tutti invariabilmente marroni, forse la foto satellitare è stata scattata nella stagione delle piogge. Non si intravedono costruzioni di sorta. Solo il marrone del fiume e il verde intenso della vegetazione intorno. Si tratta di bracci d’acqua enormi, lunghi centinaia di chilometri, il disegno che compongono dall’alto è quello di un fitto complicatissimo reticolo che si fa strada verso il mare. Io ora vorrei essere lí.
Quando nel 1498, durante il suo terzo viaggio, Cristoforo Colombo entrò nell’estuario dell’Orinoco, convinto di aver raggiunto la parte piú estrema dell’Asia, nel diario di bordo scrisse:
L’estuario è enorme. L’acqua è mutata da salata a dolce. Non ho mai letto né sentito raccontare di una cosí grande quantità di acqua dolce che raggiunge il mare. Da dove proviene? Da lontanissimo, forse, e si raccoglie qui, in questa sorta di lago. Il clima è mite. Gli indigeni qui attorno sono di bell’aspetto, intelligenti e coraggiosi, ma anche pacifici e amichevoli. Tutti questi segni concordano con l’opinione dei nostri piú santi e saggi teologi, sono convinto di essere vicino al paradiso in terra…4
Dal Medioevo a oggi disegnare mappe è stata anche una faccenda di spiegazioni e conferme. Ma solo da un certo momento in avanti i cartografi sono diventati scienziati e la cartografia si è trasformata in una materia esatta. È stato da allora che il carico emozionale dei nostri viaggi sulla terra si è trasferito dalla mappa a noi. Prima no, prima il cartografo poteva segnalare l’Eden in un punto qualsiasi della mappa. In genere nella parte piú alta, dentro un rettangolo difficile da raggiungere che ne segnalava l’alterità.
Attorno al Quattrocento, il paradiso terrestre scompare dalle carte geografiche del tempo. Lo scrive Alessandro Scafi nel suo libro sulla cartografia del Paradiso. E questo accade non per una improvvisa ondata di agnosticismo ma perché si afferma, tra i cartografi, la Geografia di Tolomeo, metodo inventato dall’astronomo alessandrino nel II secolo dopo Cristo e fino ad allora rimasto sconosciuto in Occidente. Tolomeo, oltre un millennio prima, già spiegava come rappresentare su una superficie il globo terrestre secondo principi matematici e astronomici. Cosí, se vi interessa la sintesi, non solo le carte geografiche ma anche il navigatore della vostra auto funziona oggi grazie a lui.
Prima della cartografia tolemaica sono arrivate a noi quelle che gli storici chiamano mappae mundi, vale a dire
carte del mondo che non sono strutturate secondo un sistema matematico e astronomico di coordinate o su un sistema di geometria in cui il calcolo delle distanze e la misura delle direzioni svolga un ruolo fondamentale […]. Sul tipo di carte del mondo di cui ci occuperemo – le mappae mundi medioevali – […] i luoghi sono raffigurati uno dopo l’altro, senza tener conto dell’esatta distanza fra di loro o della loro reciproca posizione in termini quantitativi, e vengono individuati e messi in risalto dalla dimensione del simbolo cartografico, non perché siano fisicamente piú estesi ma per via della loro importanza culturale e sociale5
In una cartografia del genere ovviamente il paradiso terrestre poteva essere rappresentato con grande rilievo e semplicità.
In qualche modo, piú o meno improvvisamente, il paradiso terrestre scompare dalle carte geografiche: non campeggia piú nella parte alta della mappa nella quale era possibile trovarlo, misterioso e rassicurante, fino a poco prima.
La mappa a quel punto si è separata da noi. Ha abbandonato il carico di umanità che le avevamo affidato e ha iniziato a offrirsi come un oggetto differente. Ha abdicato al suo ruolo sentimentale per diventare la fredda determinazione di un luogo geografico rispetto a un altro. Il fazzoletto di Herta Müller è tornato a essere un semplice pezzo di stoffa.
The Moral Machine6, uno studio scientifico del MIT pubblicato su «Nature» nel novembre del 2018, è un curioso esempio di eterogenesi dei fini. Lo scopo della ricerca era raccogliere dati su quali dovranno essere le scelte etiche da preferirsi in caso di un incidente stradale nel quale sia coinvolta un’auto a guida autonoma; quali siano le decisioni piú opportune da insegnare alla macchina nel momento in cui sarà l’algoritmo e non il nostro istinto a dover decidere, molto rapidamente, il danno minore. Viene in mente, esattamente ribaltato, un celebre videogioco splatter di molti anni fa chiamato Carmageddon nel quale il giocatore, alla guida di un’auto alla Mad Max, guadagnava maggiori punteggi se investiva intenzionalmente sulle strisce pedonali una vecchietta che spingeva una carrozzina, piuttosto che un normale pedone a spasso sul marciapiede. Qui, al contrario, si immaginano nuove abilità, in grado di salvare vite senza il necessario apporto decisionale di un cervello umano.
Come in altre indagini sull’intelligenza artificiale e i suoi futuri utilizzi lo studio The Moral Machine ha interrogato abitanti di tutto il pianeta su quali fossero le loro priorità in termini di conservazione della vita umana in caso di incidente stradale, per scoprire rapidamente che a una complessità, vale a dire decidere il male minore in tempi decimali, se ne aggiungeva una seconda e cioè tener conto della variabilità dei punti di vista etici, che precedono una simile scelta, ai quattro angoli del globo.
Cosí in alcune zone del pianeta – che i ricercatori del MIT hanno suddiviso grossolanamente in tre blocchi geografici, uno americano-europeo, uno asiatico e uno del Sud del mondo – si vorrebbe suggerire all’algoritmo, in caso di incidente, di sacrificare i piú anziani o le donne, in altre i piú giovani, in altre ancora le persone dei ceti sociali piú bassi. Una variabilità di punti di vista interessante in un’ottica etnografica che, complicando un po’ le cose, potrebbe farci ipotizzare sistemi intelligenti che in futuro guideranno le nostre automobili con criteri differenti a seconda della latitudine.
In ogni caso si avvicina il momento in cui le mappe saranno gestite interamente al di fuori di noi, non solo per quanto riguarda la loro consultazione (come nelle “antiche” mappe di carta) o nell’aderenza ai loro suggerimenti (come i consigli vocali o grafici del gps del nostro terminale connesso) ma nella definitiva abdicazione a ogni decisione al riguardo. Saliremo in auto, ci spiegano i futurologi, e l’auto, senza il nostro apporto o quasi, ci condurrà a destinazione, in confort e sicurezza, aderendo a una serie di codici predefiniti.
Michel Serres nel suo libro Contro i tempi andati racconta di quando suo nonno in barca gli insegnò a utilizzare il sestante. «Ci dedicavamo, – scrive, – a calcoli complessi e approssimativi, che, alla fine, fornivano un punto solo probabile. Di errore in errore, fortunatamente, i nostri calcoli ci conducevano in porto»7.
Il sestante di Serres, le carte Michelin di mio padre, oggetti grossolani e fedeli, pensati per indicarci la strada. Oggetti riuniti da un’idea di imperfezione che oggi potremmo provare a immaginare come un valore, cosí come imperfetta era la mappa del Paradiso nelle carte medievali. E decisamente imperfette erano le coordinate di Colombo che, nella sua ricerca di una rotta commerciale verso le Indie, trova ad attenderlo, inatteso, il muro insuperabile di un nuovo continente.
In questo processo di “raffinamento” che dura ormai da due millenni, la prossima frontiera, quella dei mezzi di trasporto a guida autonoma, non solo annulla ogni millimetrica imprecisione, non soltanto di destinazione geografica ma anche di scelta del male minore in caso di incidente, ma rende gli oggetti che indicano la strada impalpabili e retrostanti. Semplici informazioni con le quali non sarà semplice interagire. Nell’ultima fase di questa trasformazione il fazzoletto di Herta Müller non è piú un semplice pezzo di stoffa destituito di qualsiasi funzione ma semplicemente scompare, muore per sopraggiunta inutilità. La scrittrice, nel momento della grande crisi personale, non avrà piú nulla di solido a cui ancorarsi. E con quel fazzoletto si spegne, inevitabilmente, una parte di noi che non potrà essere sostituita.
1G. Flaubert, La signora Bovary [1857], traduzione di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 2015 (1a ed. 1993), p. 67.
2La Fontana del Porcellino (1633), scultura in bronzo di Pietro Tacca, è un popolare monumento fiorentino a pochi metri da Ponte Vecchio. Rappresenta in realtà un cinghiale ed è una copia dell’originale marmoreo che si trova al Museo degli Uffizi. La tradizione popolare vuole che toccare il naso del porcellino porti fortuna.
3G. Perec, Le cose [1965], traduzione di L. Prato Caruso, Torino, Einaudi 2011, p. 86.
4Citato in A. Scafi, Maps of Paradise, British Library, London 2013, p. 78.
5A. Scafi, Il paradiso in terra [2006], Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 70.
6E. Awad, S. Dsouza, R. Kim et al., The Moral Machine experiment, in «Nature», DLXIII (2018), n. 7729, pp. 59-64.
7M. Serres, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 33.