Una notizia incoraggiante contro la COVID-19
Le cose da sapere sulla sperimentazione con desametasone, un comune antinfiammatorio steroideo che ha dato risultati promettenti nel trattamento dei malati gravi
Da ieri si parla molto del desametasone, un farmaco antinfiammatorio steroideo che avrebbe dato risultati promettenti in una sperimentazione clinica per trattare i casi gravi di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus (SARS-CoV-2). I risultati sono stati annunciati nel Regno Unito, con toni piuttosto entusiastici da parte del governo, e sono stati accolti con interesse da medici e ricercatori che da mesi sono al lavoro per migliorare i trattamenti contro la malattia. Altri hanno invece criticato la scelta dei ricercatori di diffondere un comunicato stampa, invece della ricerca vera e propria con dati e altre informazioni sulle loro esperienze con il desametasone: solo un’analisi dello studio e una sua revisione scientifica potranno infatti offrire elementi concreti per capire se il farmaco sia utile, e in che misura.
Antinfiammatori steroidei
Il desametasone fu sintetizzato per la prima volta alla fine degli anni Cinquanta e impiegato in medicina a partire dai primi anni Sessanta. È un farmaco economico e facile da reperire, utilizzato soprattutto per trattare malattie come l’artrite reumatoide, l’asma, alcuni tipi di allergie gravi e patologie croniche che interessano l’apparato respiratorio. Il desametasone fa parte degli antinfiammatori steroidei (cortisonici), che agiscono bloccando l’attività di varie sostanze sfruttate dal sistema immunitario per innescare i processi infiammatori (attraverso i quali offre protezione dagli agenti esterni) o per modificare l’attività dei globuli bianchi, che si occupano di attaccare ed eliminare gli agenti infettivi come virus e batteri.
La ricerca
Considerati gli effetti della COVID-19, un gruppo di ricerca guidato da Peter Horby, esperto di malattie infettive presso l’Università di Oxford, si è chiesto se il desametasone potesse rivelarsi utile nel contrastare gli effetti della malattia. Durante la loro sperimentazione clinica, i ricercatori hanno selezionato a caso 2.104 pazienti ai quali sono stati somministrati 6 milligrammi di desametasone al giorno, per via orale o tramite un’iniezione. I risultati ottenuti sono stati poi confrontati con le condizioni cliniche di altri 4.321 pazienti, sottoposti invece ai più diffusi trattamenti contro la COVID-19.
Tra i pazienti in gravi condizioni e intubati a causa dell’insufficienza respiratoria indotta dal coronavirus, il desametasone ha ridotto il tasso di mortalità del 35 per cento. Altri risultati positivi sono stati segnalati tra i pazienti che avevano bisogno di ossigeno, senza la necessità di essere sottoposti a intubazione: il tasso di mortalità è stato ridotto del 20 per cento.
Stando alle informazioni fornite finora, i ricercatori non hanno invece rilevato particolari benefici nell’impiego del desametasone tra i pazienti che non avevano bisogno di essere sottoposti a terapie con ossigeno. La ricerca è stata interrotta una decina di giorni fa, quando gli autori hanno ritenuto di avere ormai dati a sufficienza per le loro analisi statistiche sull’efficacia del farmaco.
Horby ritiene che il desametasone sia a oggi il primo medicinale ad avere mostrato di poter migliorare le prospettive di sopravvivenza per i malati gravi di COVID-19. Per questo motivo ritiene utile che l’impiego sistematico del farmaco sui pazienti che necessitano ossigeno sia avviato il prima possibile, considerata anche la disponibilità del desametasone e il suo costo molto contenuto.
Antivirali e sistema immunitario
In quasi sei mesi di attività clinica, medici e ricercatori hanno affinato i trattamenti per provare a tenere sotto controllo il coronavirus, utilizzando farmaci già esistenti e in attesa dello sviluppo di nuovi trattamenti più efficaci. Nei casi più gravi si rende spesso necessario un approccio in due fasi. Nella prima, i medici provano a ridurre il più possibile la capacità del coronavirus di replicarsi nelle cellule, in modo da offrire più tempo al sistema immunitario per fermare l’infezione. Questo rallentamento viene ottenuto con farmaci antivirali come il Remdesivir, che in alcune ricerche si è mostrato efficace nel ridurre l’avanzare dell’infezione virale.
Nella seconda fase, che di solito corrisponde a un ulteriore peggioramento delle condizioni dei pazienti, il problema non è solamente il coronavirus, ma lo stesso sistema immunitario che nel contrastare l’infezione finisce fuori controllo e inizia ad attaccare i tessuti polmonari, portando a gravi danni e difficoltà a respirare autonomamente (sindrome da distress respiratorio acuto, ARDS).
Per riportare la situazione sotto controllo, i medici devono spesso intervenire somministrando farmaci che riducano la reazione del sistema immunitario, evitando che l’infiammazione faccia più danni di ciò che l’ha causata in prima istanza, cioè il coronavirus. Occorre bilanciare attentamente l’impiego dei medicinali di questo tipo, perché se si riduce troppo la reattività del sistema immunitario si rischia di aprire nuovamente la strada al virus, che può tornare a replicarsi indisturbato.
Fino a qualche mese fa il desametasone non era stato preso in considerazione da molti come una possibile soluzione, perché si riteneva che fosse un farmaco ormai datato e non adatto per modulare la risposta del sistema immunitario. La nuova ricerca condotta nel Regno Unito sembra dimostrare il contrario, ma restano ancora molti dettagli da chiarire prima che lo studio sia pubblicato nella sua forma definitiva.
Conferme
La ricerca ha comunque ricevuto commenti ottimisti da parte della comunità scientifica ed è stata accolta positivamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha comunque invitato ad attendere la sua pubblicazione prima di procedere a una revisione dei protocolli consigliati per trattare la COVID-19.
Se i risultati fossero confermati, il desametasone potrebbe essere integrato nei trattamenti per i pazienti con sintomi gravi. Come tutti gli antinfiammatori steroidei, il farmaco dovrà essere somministrato sotto la supervisione dei medici e – per quanto è stato rilevato finora – solamente per trattare i casi più gravi che necessitano di terapie con ossigeno.