L’Umbria ha abolito la possibilità di praticare l’aborto farmacologico in day hospital
Lo ha deciso la giunta di centrodestra, inserendo la modifica nelle nuove linee guida sanitarie per il coronavirus, e ripristinando quindi l'obbligo di ricovero per tre giorni
La Regione Umbria ha deciso con una delibera della giunta di ripristinare l’obbligo di ricovero per tre giorni per le donne che si sottopongono a un’interruzione farmacologica di gravidanza che fino alla settimana scorsa si poteva effettuare in day hospital. La decisione è stata fortemente criticata dalle opposizioni e dalle associazioni per i diritti delle donne soprattutto perché inserita in una delibera in cui vengono adottate le “Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella Fase 3” per l’emergenza coronavirus. Secondo chi critica la decisione, imporre un ricovero di tre giorni in ospedale aumenterebbe il rischio di contagio e potrebbe essere un sostanziale disincentivo alla pratica, considerata più sicura rispetto all’aborto chirurgico.
Si legge nella delibera che «relativamente al metodo farmacologico RU486 si dispone il superamento delle indicazioni previste dalla DGR 1417 del 4 dicembre 2018 “interruzione volontaria di gravidanza con metodica farmacologica” relativamente all’opportunità di somministrare la RU486 in regime di ricovero in day hospital. Infatti le indicazioni ministeriali del 24 giugno 2010 “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza” e i pareri del Consiglio Superiore di Sanità del 18 marzo 2004, del 20 dicembre 2005 e del 18 marzo 2010 ribadiscono la necessità di regime di “ricovero ordinario”».
La Giunta di centrodestra guidata dalla presidente leghista Donatella Tesei ha annullato la decisione presa dalla precedente amministrazione regionale di centrosinistra. Nella delibera si fa riferimento alle linee guida del Consiglio superiore di sanità del 2010, recepite poi dal ministero della Salute, che prevedono un ricovero ospedaliero di tre giorni per le donne che vogliano effettuare l’aborto farmacologico. Tesei ha commentato la sua scelta dicendo che «in Italia c’è una legge, la 194, la applico. Le donne sono libere di scegliere, ma in sicurezza. Ma credo sia naturale voler difendere la vita. L’aborto farmacologico è una cosa delicata. Seguo le linee guida del ministero. Se dovessero cambiare, mi adeguerò».
A causa delle linee guida del Consiglio superiore di sanità che prevedono tre giorni di ospedalizzazione, solo poche strutture in Italia offrono la possibilità di scegliere tra aborto medico e aborto chirurgico, e per questo motivo in Italia la percentuale di aborti farmacologici rispetto al totale delle interruzioni volontarie è del 17,8 per cento, contro il 97 per cento della Finlandia, il 93 per cento della Svezia o il 75 per cento della Svizzera. Negli altri paesi europei l’aborto farmacologico viene fatto in day hospital oppure a casa e lo possono somministrare anche i medici di famiglia (in Francia) e le ostetriche (in Francia e in Svezia), dopo un’adeguata formazione.
Nonostante ciò, diverse regioni, fra cui l’Umbria, hanno deciso in passato di andare contro le linee guida del Consiglio superiore di sanità e prevedere il day hospital per l’interruzione farmacologica di gravidanza, anche a fronte dei dati del ministero della Salute che dicono che in Italia in oltre il 96,9 per cento dei casi non c’è stata alcuna complicazione a seguito dell’assunzione dei due farmaci previsti (il mifepristone e il misoprostolo, che devono essere assunti a distanza di 48 ore uno dall’altro), e che questi numeri sono simili «a quanto rilevato in altri paesi e a quelli riportati in letteratura».
Analizzando tutte le difficoltà dell’accesso alla IVG (interruzione volontaria di gravidanza) durante la pandemia, si è visto che l’ospedalizzazione per tre giorni di persone sane è un ulteriore ostacolo alle donne che vogliono volontariamente interrompere la gravidanza attraverso l’assunzione dei farmaci, a causa degli ospedali spesso congestionati e degli spazi ridimensionati per garantire le misure di distanziamento necessarie a limitare i contagi.
Fino ad oggi nelle regioni in cui l’obbligo dei tre giorni di ricovero è stato adottato le donne hanno comunque trovato il modo di aggirare il problema, scegliendo volontariamente di dimettersi dopo l’assunzione del primo farmaco, e prenotando un nuovo ricovero dopo due giorni per portare a termine la procedura. Il resoconto del ministero della Salute del 2010-2011 sull’IVG con mifepristone (a due anni dall’introduzione dell’opzione farmacologica in Italia) diceva che tre donne su quattro avevano fatto ricorso alla dimissione “volontaria” dopo la somministrazione della prima pillola, e che in molte regioni questa percentuale superava l’80 per cento dei casi. Gli ultimi dati dicono che le dimissioni volontarie vengono decise da più del 90 per cento delle donne.
Durante l’emergenza sanitaria molte strutture hanno deciso autonomamente di sospendere l’aborto farmacologico, mentre è stato mantenuto quello chirurgico, che richiede generalmente due accessi in day hospital, uno per gli esami e il colloquio con l’anestesista, e l’altro per l’operazione e non un ricovero continuativo di 72 ore. Ma l’aborto chirurgico prevede l’utilizzo della sala operatoria e quindi un maggiore carico per le strutture ospedaliere in una situazione emergenziale, con la conseguenza, anche in questo caso, di una dissuasione alla pratica.
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