La faida dei fratelli Ambani, miliardari indiani
Mukesh Ambani è l'uomo d'affari più ricco dell'Asia mentre suo fratello Anil è caduto in disgrazia, dopo anni di lotte e rivalità
Mukesh e Anil Ambani sono i protagonisti di una faida fra fratelli a cui non manca niente: la nascita, negli anni Cinquanta, in una delle famiglie più ricche dell’India, che fece fortuna grazie alla tenacia e alla scaltrezza del padre; un padre severo ed esigente che morì all’improvviso, senza indicare un erede chiaro; due caratteri opposti – riservato e impacciato Mukesh, esuberante e amante della bella vita Anil – amplificati dalla rivalità per il predominio nell’azienda; l’intervento conciliatore della madre a cui i figli si sottomettono; il rovesciamento di fortuna, con la tragica caduta in disgrazia di uno mentre l’altro trionfa in potere e ricchezza. Sullo sfondo di questa storia di affari e di famiglia c’è l’ascesa politica di Narendra Modi, che nel 2014 venne eletto presidente dell’India: da allora ha favorito i grandi imprenditori che condividevano la sua visione conservatrice, induista e nazionalista, rendendo la vita più dura per gli altri.
I fratelli Ambani finiscono spesso sui giornali indiani – che si tratti di cronaca mondana, successi economici o guai giudiziari – e sempre più spesso su quelli occidentali; di recente Bloomberg ha raccontato la loro storia.
La storia iniziò nello stato occidentale del Gujarat negli anni Settanta, quando loro padre Dhirubhai Ambani, che lavorava in una stazione di benzina, intuì un vuoto commerciale nel mercato indiano: non c’erano grossi importatori né produttori di nylon, poliestere e altri materiali sintetici, che in India erano delle novità. Per dieci anni gestì con un cugino una società che importava fibra di poliestere ed esportava spezie in Yemen. Nel 1973 fondò Reliance Industries, che da semplice azienda per l’importazione iniziò a fabbricare fibre sintetiche, poi le molecole chimiche necessarie a produrle, poi a raffinare il petrolio per realizzarle e così via. Negli anni Ottanta si impose come la principale – e in alcuni casi l’unica – azienda indiana di prodotti petrolchimici.
Dhirubhai era noto per la sua sconfinata ambizione, per la smania di prendersi rischi e l’accortezza. Bloomberg racconta che aveva riempito un palazzo di periferia a Delhi di burocrati in pensione con il compito di raccogliere informazioni sui loro ex colleghi. Dovevano in particolare tener traccia dell’età dei figli dei funzionari: al momento di andare all’università avrebbero ricevuto l’offerta di una borsa di studio all’estero. Si racconta anche che Dhirubhai inviasse agli assistenti di importanti ministri scatole di caramelle con nascosto un pezzettino d’oro o d’argento: una pratica per ingraziarseli e venire aggiornato sulle mosse dei loro superiori.
Dhirubhai aveva due figli: Mukesh, nato nel 1957, e Anil nel 1959. Si occupava di loro nei weekend, preparandoli con severità alla vita. Anil ha raccontato che una domenica li trascinò in una camminata di 10 chilometri sotto la pioggia, ricompensandoli con una scatola piena di mango. Una volta si erano comportati male con gli ospiti e il padre li lasciò chiusi per due giorni in un garage, con solo acqua e roti, il tipico pane indiano. Mukesh e Anil non avevano altra scelta che seguire le orme del padre e verso i 20 anni Mukesh fu nominato a capo della gestione delle fabbriche, cioè di Reliance Industries, mentre Anil ebbe il compito di tenere i rapporti con i funzionari del governo, gli investitori e la stampa. Erano ruoli che si confacevano alle loro personalità.
Mukesh passava le sere libere a casa a guardare vecchi film, compariva raramente in pubblico e si sposò a 27 anni con una donna scelta dai genitori. Anil indossava completi eleganti, frequentava l’alta società e le star di Bollywood – l’Hollywood indiano – e viaggiava su un aereo privato. Si sposò a 31 anni, piuttosto tardi in India, con una donna malvista dalla famiglia, l’attrice Tina Munim.
Nel 2001 Reliance era diventata la più importante multinazionale indiana, in procinto di espandersi nei servizi finanziari, nella produzione di elettricità, nelle telecomunicazioni e nella raffinazione di petrolio. Un anno dopo, improvvisamente, Dhirubhai morì d’infarto. Aveva 69 anni e non aveva previsto una divisione dei compiti per i suoi due figli. Se li spartirono in base all’età: Mukesh divenne presidente e Anil vicepresidente. L’equilibrio non durò a lungo e i conflitti e le rivalità, probabilmente tenuti a freno mentre il padre era in vita, vennero a galla. I due avevano un’idea diversa della gestione del potere: Mukesh si considerava il capo mentre per Anil erano sullo stesso piano, semplicemente con compiti diversi. Dopo un anno di tensione, nel 2003 il Consiglio d’amministrazione approvò una mozione per cui Anil sarebbe stato «sotto la completa autorità del presidente». Anil la visse come un’umiliazione e, per ripicca, rifiutò di firmare il bilancio della società definendolo inadeguato, mentre i gestori di una filiale che gestiva si dimisero in segno di lealtà.
Il peso di Reliance sull’economia indiana apparve chiaro quando lo stesso ministro delle Finanze chiese ai due fratelli di porre fine alla lite. Fu inutile: trovarono un accordo solo un anno dopo, quando la situazione fu presa in mano dalla madre Kokilaben. Propose a Mukesh di occuparsi del profittevole ma lento settore del petrolchimico mentre destinò ad Anil le nuove operazioni, meno affidabili ma con molto potenziale: i servizi finanziari, l’energia elettrica e le telecomunicazioni. In pochi anni la ricchezza di Anil triplicò e nel 2007 arrivò, secondo Forbes India, a 45 miliardi di dollari: era il terzo uomo più ricco del paese; suo fratello aveva un distacco di 4 miliardi di dollari.
Anil si mise a spendere largamente nel settore dell’intrattenimento: acquistò stazioni radiofoniche, studi di animazione, cinema, e fece una joint venture di 1,2 miliardi di dollari con DreamWorks, lo studio cinematografico co-fondato da Steven Spielberg. Col tempo però, iniziò ad avere delle difficoltà: i progetti energetici fallirono per la competizione delle tariffe statali più basse, e dovette ricostruire la rete di telefonia da zero perché aveva una tecnologia obsoleta. Gli affari di Mukesh invece andavano sempre meglio e le sue aziende facevano più di 40 miliardi di dollari all’anno. Pensò di espandersi nei settori riservati ad Anil, ma aveva le mani legate da un accordo di non competizione, che per 10 anni proibiva a ogni fratello di fare affari nei settori dell’altro. Mukesh riuscì ad annullarlo in cambio della fornitura ad Anil del gas naturale, che gli serviva per tenere in vita le centrali in mancanza di energia elettrica.
Così Mukesh entrò nel settore delle telecomunicazioni. All’epoca solo metà della popolazione indiana aveva un telefono cellulare e c’era quindi molto potenziale. Nel 2016 fondò Jio, un operatore con tariffe particolarmente economiche che ebbe molto successo e riuscì a riproporre la stessa formula con internet. Jio diede il colpo di grazia a Reliance Communications, la società di telecomunicazioni di Anil, che nel 2019 dichiarò bancarotta.
Nel 2019 la situazione di Anil peggiorò e fu chiamato a comparire davanti alla Corte Suprema di New Delhi: non aveva onorato un debito di 80 milioni di dollari su cui aveva garantito personalmente, che Reliance Communications doveva alla multinazionale svedese Ericsson. Il processo si svolse in tre udienze, affollate e raccontate dalla stampa, e finì con la condanna di Anil al pagamento del debito: la decisione della corte fu particolarmente dura. Infatti, da quando Modi era stato eletto presidente, il governo e i tribunali indiani erano più severi verso i miliardari in difficoltà. Le banche statali non garantivano più prestiti a basso costo e non venivano più concessi contratti governativi a tempo indeterminato. Nel 2016 il partito di Modi approvò una legge sulla bancarotta che rendeva difficile proteggere i beni dai creditori, e i tribunali iniziarono a perseguire penalmente tutti i casi in cui si sospettava la bancarotta fraudolenta.
Mukesh invece era all’apice del successo. Si era legato a Modi dagli anni Novanta, quando era solo un oscuro funzionario di partito. Una volta al potere, Modi lo invitava spesso nella sua residenza per avere dei consigli, mentre Mukesh allineava le politiche di Reliance ai piani nazionalistici e innovatori del governo. Nel 2016, con Modi al suo fianco, annunciò l’entrata nel mercato dello shopping online, con una rete di 11 mila negozi, outlet di vestiti, gioielli e supermercati in grado di mettere in difficoltà Amazon e Walmart, che aveva comprato per 16 miliardi di euro Flipkart, la più grande piattaforma di e-commerce indiana.
Ora Mukesh è a capo di un impero fatto di raffinerie di petrolio, impianti chimici, supermercati e della più grande rete di telefonia mobile indiana. Ha una ricchezza personale di almeno 53 miliardi di dollari, secondo il Bloomberg Billionaires Index, ed è l’uomo d’affari più ricco dell’Asia, più ancora di Jack Ma, il fondatore dell’e-commerce cinese Ali Baba. Reliance Industries, di cui è sempre presidente, rappresenta almeno il 10 per cento delle esportazioni totali dell’India e neanche il coronavirus è riuscita a metterla in crisi: il calo del costo del petrolio ha colpito le azioni ma Mukesh ha recuperato quasi tutti i soldi perduti grazie a un accordo con Facebook, che ha acquistato il 9,9 per cento delle quote di Jio per 5,7 miliardi di dollari.
Questo successo si è visto chiaramente a marzo, nel pieno della pandemia da coronavirus, con il matrimonio di suo figlio Akash Ambani. I festeggiamenti iniziarono a St. Moritz, sulle Alpi svizzere, dove gli ospiti vennero portati con un aereo privato; qui era stato appositamente allestito un luna park nella neve e c’era stata anche un’esibizione di Chris Martin dei Coldplay. Proseguirono per tre giorni a Mumbai e terminarono con un maestoso ricevimento in un nuovo centro convegni. Tra gli invitati c’era anche Anil con la sua famiglia. Si mostrava, scrive Bloomberg, amichevole e sereno, ma era nel pieno di una faticosa trattativa per ottenere dal fratello gli 80 milioni con cui coprire il debito. Il termine sarebbe scaduto dieci giorni dopo e Anil rischiava il carcere.
Bloomberg, che ha parlato con persone vicine alla famiglia, racconta che anche in questo caso fu necessario l’intervento della madre: Mukesh non aveva intenzione di aiutare il fratello e Anil non aveva offerto nulla di allettante. Alla fine Mukesh accettò in cambio alcuni contratti di locazione di 99 anni su palazzi di uffici a Mumbai.
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I guai di Anil però non sono finiti: rischia una causa dagli investitori per il crollo di valore delle azioni ed è perseguitato da decine di creditori, tra cui tre banche statali cinesi che prestarono 925 milioni di euro a Reliance Communications e che ora gli hanno fatto causa sostenendo che, anche in questo caso, avesse garantito personalmente. A un’udienza a febbraio, Anil ha detto di avere una ricchezza personale di 9 milioni di dollari e debiti per 300 milioni. Molti gli consigliano di dichiarare bancarotta e ricominciare, ma lui, dice Bloomberg, spera ancora di salvare qualcosa. Non è più quello di un tempo, si vede poco in giro, si dedica molto all’attività fisica, prega regolarmente con la madre nei templi indù e lavora 14 ore al giorno.
Anche suo fratello è cambiato: in senso opposto, secondo la sua fortuna. Sembra a suo agio in pubblico, parla senza timore a convegni importanti, come il Forum economico di Davos, è diventato, con la moglie Nita, protagonista della buona società di Mumbai e vive con lei e con i figli non sposati in una casa di 27 piani – costata, pare, 1 miliardo di euro – nel quartiere più alla moda di Mumbai. Nel dicembre del 2018, il matrimonio di sua figlia Isha fu accompagnato da due giorni di esorbitanti festeggiamenti, tra cui un’esibizione di Beyoncé, con centinaia di invitati dal mondo degli affari, dello sport e di Bollywood, oltre che Hillary Clinton: ne parlarono i giornali di tutto il mondo.
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