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  • Sabato 13 giugno 2020

Le scuole di giornalismo servono?

Ce ne sono dodici in tutta Italia: sono costose e richiedono molto impegno, ma sempre più spesso sono l'unico modo per avvicinarsi a una professione in grande difficoltà

(ANSA/FABIO FRUSTACI)
(ANSA/FABIO FRUSTACI)

Anche in tempi molto complicati per le aziende giornalistiche, che offrono sempre meno opportunità, i tantissimi giovani che vorrebbero lavorare nel giornalismo iniziano spesso dal farsi una domanda: è una buona idea frequentare una scuola di giornalismo, per imparare cose utili e per avere un accesso più facile alla professione? È una domanda che si fanno in tutto il mondo, ma che in Italia è più importante che altrove.

In Italia, infatti, le scuole di giornalismo non sono soltanto uno dei modi più semplici per cominciare ad avere rapporti lavorativi con le testate giornalistiche in un settore in cui la crisi ha da anni alzato elevate barriere all’ingresso. Sono anche uno dei pochi percorsi certi per avere accesso all’esame di stato che in Italia, caso unico tra i paesi sviluppati, è ancora necessario superare per diventare formalmente giornalisti, i cosiddetti “professionisti”.
Il dibattito è da molti anni animato e complesso sull’esistenza stessa di un “Ordine dei giornalisti”, sulla sua utilità, sul suo crescente anacronismo: ma nelle condizioni attuali è vero che se non è necessario appartenervi per sapere e poter fare ottimi lavori giornalistici, è anche vero che in Italia molti contesti, molte imprese giornalistiche, molte occasioni di lavoro e di reporting sono più facilmente accessibili per chi possiede il cosiddetto “tesserino”.

Le scuole di giornalismo, spiegate bene
Le scuole di giornalismo “ufficiali” in Italia sono dodici, sparse da Nord a Sud, ma concentrate soprattutto nelle grandi città universitarie. Accanto a queste, ci sono moltissimi altri percorsi di studi universitari dedicati al giornalismo. Ma soltanto dodici sono stati riconosciuti dall’Ordine dei giornalisti, l’ente pubblico che ha il compito di regolare e mantenere aggiornati gli elenchi di chi svolge la professione giornalistica.

Soltanto queste dodici “scuole”, quindi, permettono di svolgere un periodo di “praticantato”, equivalente a quello che si può svolgere all’interno delle redazioni vere e proprie – per diciotto mesi – e che consente l’accesso all’esame di stato per diventare “giornalisti professionisti”. In altre parole, per diventare giornalisti a tutti gli effetti si può lavorare in una redazione per un certo periodo di tempo (una cosa sempre più difficile in questi anni). Oppure ci si può iscrivere a una scuola di giornalismo, completando questo periodo con uno stage a cui si viene indirizzati dalla scuola.

Nella loro forma moderna, queste “scuole” sono nate negli anni Novanta e dopo una storia piuttosto travagliata hanno assunto ovunque la forma di master biennali gestiti dalle università sulla base di linee guida decise dall’Ordine dei giornalisti, ma con una certa autonomia organizzativa e finanziaria nell’applicarle. Ognuno di questi master in giornalismo riconosciuti dall’Ordine accoglie ogni due anni dai 20 ai 30 studenti. Il costo della retta è in genere abbastanza alto: tra i cinque e i diecimila euro l’anno (ma spesso è possibile ottenere borse di studio).

Per iscriversi a uno di questi master è necessario essere laureati (basta una laurea triennale) e bisogna superare un esame che, quasi ovunque, è identico all’esame di stato per avere accesso alla professione giornalistica. Prevede una prova scritta divisa in tre parti (scrittura di un articolo partendo da uno spunto, sintesi di un articolo dato e quiz) e una prova orale di cultura generale.

Fino a non molti anni fa, le domande di accesso erano centinaia per ogni scuola, ma oggi, in particolare per quelle più periferiche, le domande sono diminuite e spesso i master faticano a riempire tutti i posti disponibili (il master di Urbino, ad esempio, oggi ha 20 allievi sui 25 posti previsti inizialmente dal bando): c’entrano anche le molte nuove opportunità di fare lavoro giornalistico e informativo nate con internet, per quanto di rara sostenibilità economica.
Una volta terminato il periodo di studi in una scuola, che dura circa due anni, è possibile accedere all’esame di stato e diventare così giornalisti professionisti iscritti all’Ordine.

Cosa si insegna nelle scuole
Ma è così importante avere accesso all’esame di stato per poter diventare giornalisti professionisti? Per certi versi lo è sempre meno. In Italia ci sono circa 30 mila giornalisti professionisti, mentre altri 70 mila svolgono questo mestiere senza essere giornalisti “veri e propri” (molti sono “pubblicisti”, un’altra categoria riconosciuta dall’Ordine, ma a cui accedere è molto più facile).

Tra i vantaggi dell’essere giornalisti professionisti c’è soprattutto il fatto che questa condizione permette di ottenere i contratti più vantaggiosi, con condizioni economiche e assistenziali privilegiate. Ma i ricchi contratti di questo tipo sempre più spesso sono sostituiti da forme di lavoro più precario: da una parte vi accedono più raramente anche i giornalisti professionisti, e dall’altra trovare un lavoro giornalistico con contratti diversi, probabilmente non ben pagato, è sempre più facile anche per i non professionisti.

Naturalmente, avere accesso all’esame di stato non è l’unica attrattiva dei master in giornalismo. Quella principale rimane la formazione che offrono e i contatti nel mondo del lavoro che permettono di farsi. Come funzionano quindi questi master e cosa insegnano?

Quello dell’Università di Bologna ne è un buon esempio. «Nel curriculum del nostro master – dice Fulvio Cammarano, direttore del master in giornalismo dell’Università di Bologna – c’è una parte teorica e una parte pratica. In due anni facciamo 2 mila ore di didattica, di cui circa 300 di didattica frontale, 1.500 di pratica in redazione e laboratorio».

La “pratica in redazione” significa per gli studenti produrre un quotidiano online, In Cronaca, un quindicinale di carta stampata, Quindici, e un certo numero di telegiornali e giornali radio realizzati e condotti dagli studenti. In queste attività, gli studenti sono accompagnati da professori e tutor, giornalisti professionisti delle testate locali cittadine. Ogni anno, poi, gli studenti hanno la possibilità di fare due mesi di stage in una vera testata giornalistica e questo per molti di loro è spesso il primo momento in cui entrano in contatto con una vera redazione. Le scuole continuano a essere il principale canale di accesso dei giovani aspiranti stagisti verso le testate maggiori, per esempio.

In tutti i master, la struttura dei corsi e dell’insegnamento è grossomodo simile a questo modello, fissato nelle sue linee guida generali dalle decisioni dell’Ordine dei giornalisti. Ogni master poi ha le sue specificità. Il master di Perugia, ad esempio, ha un rapporto privilegiato con la RAI, mentre quello dello IULM di Milano ha una partnership con Mediaset. Entrambi sono specializzati nel giornalismo televisivo. Il master dell’Università di Urbino si svolge in una città piuttosto piccola: una sorta di laboratorio in cui gli studenti possono utilizzare la loro testata principale, Il Ducato, come se fosse un vero giornale locale.

A Milano ha sede la scuola più antica e quella ancora oggi avvolta da un’aura di particolare prestigio: il master dell’Università di Milano Walter Tobagi (all’inizio della sua storia conosciuto come IFG Carlo De Martino). Il vicedirettore, Claudio Lindner, per lungo tempo giornalista del Corriere della Sera e poi vicedirettore dell’Espresso, racconta che il master si avvale delle cospicue risorse che mette a disposizione l’università: docenti con cui portare avanti la parte di lezioni frontali (che si concentrano con particolare attenzione sul diritto e la procedura penale) e il polo tecnologico, che contiene studi radio e televisivi all’avanguardia.

Come i loro colleghi di altre scuole, gli studenti della Walter Tobagi realizzano un sito online, un giornale radio, un telegiornale e un quindicinale cartaceo, prodotto con contenuti originali di cronaca locale. In più, spiega Lindner, hanno il vantaggio di essere a Milano, una città con un ricco panorama mediatico da cui la scuola può attingere docenti o che può usare come destinazione per gli stage. «Abbiamo a disposizione il Corriere con cui abbiamo da tempo forti relazioni, ma anche Repubblica, Mediaset», dice Lindner.

Per gli studenti, il master in giornalismo è spesso un impegno abbastanza intenso. Tra pratica e lezioni frontali, le attività durano di solito otto ore al giorno per cinque giorni a settimana. Spesso, progetti speciali e lavori di fine corso obbligano ad impegnarsi anche nei weekend. Solitamente gli studenti delle scuole sono laureati provenienti da facoltà umanistiche, come lettere, filosofia, storia oppure scienze della comunicazione.

Riccardo Pieroni, 27 anni originario della provincia di Lucca, studente del master di Torino e laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa, corrisponde a questa descrizione. La scelta di Torino, spiega al Post, è avvenuta dopo aver considerato che cosa offrivano le varie scuole. «Nel nostro master c’è una particolare attenzione sui social, ci lavoriamo parecchio e cerchiamo di dare continuità a questa attività», spiega oggi. Per Riccardo la scuola è stata importante nel fornirgli conoscenze e strumenti su quelle che sono considerate oggi le “nuove frontiere” del giornalismo, temi sui quali la formazione universitaria non lo aveva preparato.

Secondo lui, «il master è utile proprio perché fornisce strumenti in un mondo in evoluzione». Durante il corso, ad esempio, Pieroni e i suoi colleghi hanno studiato «data journalism, factchecking e praticamente ognuno di noi ha realizzato un podcast». Ma i master di giornalismo sono anche scuole “particolari”. Anche se alcuni prevedono esami e verifiche, nessun master può bocciare i suoi studenti. L’utilità della scuola, quindi «dipende anche da quanto ognuno di noi ha voglia di mettersi in gioco – dice Pieroni – spetta anche agli studenti fare di più».

E quindi le scuole servono?
I master in giornalismo sono percorsi di studi piuttosto costosi, che richiedono un grosso impegno anche in termini di tempo, ma sono anche utili a trovare lavoro? Molti master cercano di mantenere i contatti con gli allievi e di tenere traccia di quanti tra loro trovano un impiego giornalistico al termine del percorso di studi. La percentuale in genere è abbastanza alta, ma raramente si tratta di impieghi a tempo pieno o ben remunerati.

Non si tratta tanto di un limite delle scuole, quanto piuttosto dell’intero settore giornalistico. Secondo gli ultimi dati, due terzi di chi svolge la professione giornalistica in Italia guadagnano meno di 35 mila euro l’anno. Anna Masera, public editor della Stampa e direttrice del master dell’Università di Torino, sostiene che nonostante questi numeri «il ruolo dei master in giornalismo nell’accesso alla professione giornalistica in Italia è ancora molto importante». Tra i motivi c’è proprio la crisi del settore. In questa fase, sostiene Masera, continua a essere difficile «accedere alle redazioni senza venire dalle scuole», anche perché raramente le testate possono permettersi di assumere persone completamente prive di formazione giornalistica.

Il tema è molto dibattuto tra gli addetti ai lavori. Ciclicamente, esponenti dell’Ordine e del sindacato dei giornalisti accusano le scuole di essere “fabbriche di disoccupati” che fanno concorrenza ai numerosi giornalisti precari. Masera però non è d’accordo. «Spesso e volentieri – sostiene – queste fabbriche producono giornalisti più attrezzati per le esigenze del giornalismo di oggi, e che hanno tanta fame e voglia di fare, e quindi più competitivi rispetto a molti colleghi che – magari anche perché mortificati dai loro datori di lavoro – negli anni si sono seduti e si comportano in maniera impiegatizia».

Anche chi deve assumere giornalisti, spesso, la pensa in maniera simile. Tutti i direttori di master con cui il Post ha parlato ricevono ogni anno numerose richieste da parte di giornali, televisioni e agenzie di stampa affinché gli vengano segnalati profili adatti a una possibile assunzione. Lindner, del master Walter Tobagi di Milano, sottolinea che negli ultimi anni gli sono arrivate molte richieste da parte di testate di informazione economica.

Alberto Infelise, giornalista della Stampa, spiega che ogni anno il suo quotidiano assume o inizia a collaborare con almeno alcuni dei circa 5-10 studenti che ogni anno fanno lo stage nel quotidiano. Tra le qualità che Infelise apprezza di più nei nuovi arrivati provenienti dalle scuole c’è la loro capacità nello sfruttare le nuove tecnologie: «Se chiedi loro di lavorare su una storia per Instagram o di produrre un contenuto video da un minuto, sono capaci: ne ho visti moltissimi così». È anche vero che in parte questa è un’attitudine più generazionale che specificamente formata nelle scuole.

D’altro canto, il praticantato in una scuola, rispetto a quello in una testata vera e propria, ha anche dei limiti. «Molti dei giovani che arrivano – spiega ancora Infelise – non hanno idea di come si cerca e di come si lavora una notizia, di come si parla e di come si coltiva una fonte. Molti non sono mai stati fuori da una redazione o da una classe di giornalismo». Inoltre, la loro formazione dipende molto dalla scuola di provenienza. Secondo Infelise, con dodici master piuttosto eterogenei arrivano studenti con impostazioni molto diverse: «C’è quello appassionato di giornalismo classico e quello che pensa che giornalismo sia fare le storie su Instagram».

Oggi, un master in giornalismo è indubbiamente un percorso che facilità l’ingresso nella professione e che fornisce competenze importanti per svolgere questo mestiere, soprattutto per quanto riguarda le nuove tecnologie. Ma non è un percorso strettamente necessario per avere accesso alla professione. Ogni anno, sono circa un centinaio i giornalisti provenienti dalle scuole che hanno accesso all’esame di stato: la stragrande maggioranza dei partecipanti proviene invece dalle varie forme di praticantato in una redazione che consentono l’accesso all’esame. Che, ripetiamo, sono occasioni limitate in numero ma per cui sono spesso preziose eventuali esperienze e competenze sviluppate nei molti spazi digitali esistenti o anche costruiti personalmente dagli aspiranti giornalisti. Soprattutto molti progetti giornalistici online oggi sono emancipati da questi percorsi tradizionali (nella stessa redazione del Post, che comprende una quindicina di contratti giornalistici, solo uno ha frequentato una scuola), e privilegiano formazioni più contemporanee e a volte autodidatte nate da pratiche o sperimentazioni indipendenti che sono diventate assai più accessibili.

Se sarà definitivamente approvata la riforma dell’Ordine di cui si discute da alcuni anni, che rende ancora più semplice l’acceso all’esame, il vantaggio garantito dalle scuole si ridurrà ancora. Fermo restando un rilevante lavoro di formazione universitaria e professionale con qualche limite in termini di esperienza pratica e di aggiornamento, come molta formazione universitaria, la maggiore attrattiva offerta dalle scuole sono tuttora i contatti e gli avvicinamenti che permettono al mondo del lavoro, soprattutto con le testate e le aziende maggiori, oltre alla possibilità di conoscere e frequentare giornalisti professionisti e affermati e quella di entrare per la prima volta in una vera redazione tramite uno stage. In questi tempi difficili il loro ruolo potrebbe diventare persino più importante e prezioso se decidessero di proporsi più come fabbriche di ripensamento e rinnovamento – di idee e persone – che come replicazione di una cultura giornalistica e dell’innovazione non molto dinamica e aggiornata come quella delle redazioni tradizionali italiane.