Il piano di Israele per annettere le colonie
Cosa significa l'annuncio del nuovo governo israeliano, quali conseguenze avrebbe e perché finora non era mai stato applicato
Il nuovo governo di Israele si è insediato da meno di un mese dopo un periodo estremamente convulso, in cui il paese ha avuto tre elezioni e altrettanti stalli politici, superati da un accordo di governo fra una maggioranza trasversale che va dall’estrema destra al centrosinistra. Eppure si è già impegnato a fare una cosa che nessun altro governo aveva mai promesso: a partire dal primo luglio intende annettere le colonie israeliane in Cisgiordania cancellando di fatto la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che da almeno trent’anni la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi.
Il piano di annessione è contenuto nel contratto di governo concordato fra i due principali partiti che sostengono la coalizione: il Likud di Benjamin Netanyahu, che in base all’accordo rimarrà primo ministro fino alla fine del 2021, e il partito centrista Blu e Bianco, guidato dall’ex capo dell’esercito Benny Gantz. Assieme alle colonie verrebbe annessa al territorio israeliano anche la Valle del Giordano, un’ampia zona fertile già controllata militarmente dall’esercito israeliano che Netanyahu aveva promesso di annettere già un anno fa.
Il piano è stato duramente criticato dalla classe dirigente palestinese nonché dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale, che storicamente ritiene che le colonie israeliane siano state costruite illegalmente in un territorio che appartiene ai palestinesi. L’Unione Europea, in particolare, sta portando avanti uno sforzo diplomatico per cercare di far cambiare idea al governo israeliano, così come diversi pezzi dell’establishment politico e dell’intelligence israeliana. Entrambi sono convinti che il piano avrà conseguenze disastrose sia per i palestinesi sia per gli israeliani.
Di cosa parliamo
Le colonie israeliane sono state fondate a partire dalla fine della Guerra dei Sei giorni, combattuta nel 1967 fra Israele e una coalizione di stati arabi che stavano per attaccare per primi allo scopo di difendere gli interessi dei palestinesi: alla fine dei combattimenti Israele aveva occupato tutta la Cisgiordania, cioè la fascia di territorio che si estende da Gerusalemme fino alla sponda occidentale del fiume Giordano. All’epoca la Cisgiordania era abitata perlopiù da persone di etnia araba, ma gli ebrei la considerano la terra natale dei propri antenati: molti fatti raccontati nella Bibbia sono ambientati in Giudea e Samaria, il nome con cui ancora adesso gli israeliani chiamano la Cisgiordania.
La comunità internazionale non ha mai riconosciuto l’occupazione israeliana come legittima, e ha sempre mantenuto la convinzione che in base ad accordi stipulati dopo la Seconda guerra mondiale la Cisgiordania spettasse ai palestinesi. Dopo infiniti negoziati e altre guerre estemporanee, gli accordi di pace di Oslo del 1993 erano riusciti a dividere la Cisgiordania in tre aree (A, B e C) a gestione condivisa fra israeliani e palestinesi.
Nel frattempo però gli israeliani avevano iniziato a colonizzare la Cisgiordania costruendo colonie – fatte di case, aziende, scuole, ospedali – appoggiate informalmente dal governo, che ancora oggi fornisce i servizi essenziali come l’allacciamento alla rete elettrica e la manutenzione delle strade. Dopo un rallentamento durante i colloqui di pace, fra gli anni Novanta e Duemila le colonie si sono espanse notevolmente, sia per la proattività dei governi di destra sia per le ambiguità permesse dagli accordi di Oslo, che dovevano durare soltanto qualche anno. Oggi nelle colonie israeliane in Cisgiordania abitano circa 600mila persone.
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Il piano del nuovo governo non è ancora stato diffuso ma dalle informazioni raccolte dai giornalisti sembra che assomiglierà moltissimo al piano di pace proposto qualche mese fa dall’amministrazione statunitense di Donald Trump, totalmente sbilanciato a favore degli israeliani.
La proposta di Trump accoglie alcune richieste che la destra israeliana aveva avanzato da tempo. Nel modello immaginato dall’amministrazione statunitense Israele annetterebbe al proprio territorio tutte le colonie esistenti e buona parte della cosiddetta Area C, cioè le zone della Cisgiordania che gli accordi di Oslo assegnavano a un futuro stato palestinese, ma la cui gestione civile e militare è rimasta nelle mani di Israele.
Le colonie non sono distribuite in maniera omogenea lungo il confine fra Israele e la Cisgiordania. Un eventuale stato palestinese – auspicato dal piano di Trump – sarebbe sostanzialmente punteggiato da territori a sovranità israeliana. Alle colonie non verrebbe garantito soltanto il territorio su cui sono state costruite ma anche alcune fasce di sicurezza e di collegamento col resto di Israele.
È una soluzione molto diversa dai due stati immaginati dai mediatori internazionali del conflitto israelo-palestinese, il cosiddetto Quartetto (che comprende l’Unione Europea, l’ONU, gli Stati Uniti e la Russia).
Perché proprio adesso
Parlando del piano con alcuni alleati, Netanyahu ha ammesso che annettere la Cisgiordania è «un’occasione che non può essere persa». Diversi analisti sono d’accordo: difficilmente nel futuro immediato le condizioni saranno così favorevoli per attuare un piano del genere.
Gli Stati Uniti, il principale alleato di Israele, hanno oggi un presidente esplicitamente filo-israeliano. L’Autorità Palestinese, l’organo di governo che rappresenta la comunità palestinese e governa alcuni pezzi della Cisgiordania, diventa ogni giorno più fragile e vicina al collasso. Il mondo è impegnato a superare una pandemia che ha messo tutto il resto in secondo piano.
Questa condizione non durerà in eterno: Trump potrebbe perdere le elezioni presidenziali che si terranno a novembre, l’Autorità Palestinese potrebbe trovare un nuovo leader e avviare una riforma interna, mentre la distrazione fornita dalla pandemia potrebbe gradualmente scomparire man mano che il mondo si abituerà a convivere con il coronavirus.
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Lo scenario ideale di Netanyahu invece prevede un’annessione rapida e indolore, una serie di proteste che non portano a conseguenze concrete, e infine una vittoria da esibire ai suoi alleati della destra religiosa e nazionalista – che da sempre ambiscono ad allargare quanto più possibile il territorio israeliano – per convincerli a sostenerlo anche nei prossimi mesi, in cui dovrà affrontare un delicato processo.
Cosa cambierebbe concretamente
Nel diritto internazionale l’annessione è un atto unilaterale da parte di uno stato, che estende la propria giurisdizione su un territorio non occupato o che apparteneva a un altro stato: concretamente significa che il “nuovo” territorio sarà considerato parte integrante di quelli che controllava in precedenza. Per approvare l’annessione sarebbe sufficiente l’approvazione di un’apposita legge da parte del Parlamento israeliano, la Knesset.
Nel caso delle colonie in Cisgiordania non dovrebbe cambiare moltissimo, dato che già oggi sono trattate dal governo israeliano come parte del territorio di Israele. In passato il governo aveva già approvato una misura del genere nei confronti della parte est di Gerusalemme e delle Alture del Golan, annesse rispettivamente nel 1980 e nel 1981 dal governo di destra di Menachem Begin. Nessuna delle due annessioni è mai stata riconosciuta dalla maggioranza della comunità internazionale.
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In certi casi il processo di annessione comporta anche l’assegnazione della cittadinanza alle persone che vivono in quel territorio. Ma la stragrande maggioranza delle colonie è stata costruita nell’Area C della Cisgiordania, dove di fatto negli anni ai palestinesi è stato impedito di abitare. Anche la quasi totalità della Valle del Giordano fa parte dell’Area C, tranne la città araba di Gerico: Netanyahu ha fatto capire che quella zona diventerebbe una exclave dei territori che rimarranno in gestione ai palestinesi.
L’annessione da parte di Israele significherebbe quasi sicuramente che i palestinesi proprietari di terreni nelle zone adiacenti o interni alle colonie – che in questi anni non hanno potuto sfruttarli per via delle restrizioni nell’Area C – subiranno un esproprio. Secondo una stima citata dal quotidiano israeliano Haaretz circa un quinto del territorio che sarebbe annesso appartiene ai palestinesi.
Perché gli israeliani non l’hanno mai fatto
La maggior parte degli analisti ritiene che l’annessione unilaterale delle colonie in Cisgiordania avrebbe conseguenze enormi soprattutto sul piano della sicurezza, sia quella interna sia quella esterna.
L’annessione sarebbe seguita quasi certamente da grandi rivolte popolari nelle città arabe della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gershon Baskin, un noto attivista pacifista israelo-statunitense, ha scritto sul Jerusalem Post che le dimensioni delle proteste saranno paragonabili alla Seconda Intifada, la seconda rivolta popolare palestinese che fra il 2000 e il 2005 causò la morte di migliaia di persone fra attacchi terroristici da parte dei palestinesi e violentissime ritorsioni dell’esercito israeliano.
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A sua volta una nuova Intifada potrebbe portare al collasso dell’Autorità Palestinese – con cui Israele ha estesi rapporti di collaborazione – e a un temporaneo vuoto di potere. A quel punto potrebbero approfittarne i gruppi politico-terroristi più radicali come Hamas o il Jihad Islamico, che ancora oggi incoraggiano la lotta armata contro Israele e sono state coinvolte nelle più recenti escalation di violenze nella Striscia di Gaza.
Qualche settimana fa tre ex militari israeliani hanno scritto un articolo sulla rivista Foreign Policy per argomentare che l’annessione sarebbe un disastro per le relazioni faticosamente costruite da Israele con i paesi limitrofi a maggioranza araba, Egitto e Giordania. Entrambi sarebbero costrette a prendere posizione contro l’annessione e a sospendere la collaborazione con le agenzie di intelligence israeliane, che in questi anni ha permesso a Israele di creare una specie di cintura di sicurezza attorno al proprio territorio.
Un discorso simile si può fare per le monarchie del Golfo Persico, fra cui soprattutto l’Arabia Saudita, l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti, con cui Israele da qualche anno sta cercando di creare dei rapporti diplomatici e commerciali (prima inesistenti per via della compattezza con cui il mondo arabo si era sempre rifiutato di riconoscere l’esistenza di Israele, per solidarietà col popolo palestinese).
«Proprio quando la pandemia da coronavirus e il crollo dei prezzi del petrolio hanno generato timori sulla stabilità interna delle monarchie del Golfo», scrivono gli ex militari israeliani su Foreign Policy, «i regimi che le controllano saranno obbligati a mostrarsi pubblicamente furiosi e a prendere provvedimenti, nel timore che i loro avversari – soprattutto l’Iran e la Turchia – possano usare il loro silenzio per criticare la legittimazione popolare delle case regnanti».
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L’eventuale annessione peggiorerebbe inoltre i rapporti di Israele con i propri alleati europei. Nonostante sia molto improbabile che l’Unione Europea decida di punire Israele con sanzioni finanziarie – che vanno approvate all’unanimità dal Consiglio dell’Unione Europea, l’organo che raduna i rappresentanti dei governi nazionali – diversi altri paesi potrebbero prendere provvedimenti simbolici come cancellare programmi di collaborazione scientifica o culturale, o addirittura riconoscere l’esistenza di uno stato palestinese in Cisgiordania.
Il sito di Yedioth Ahronoth, uno dei principali quotidiani israeliani, sostiene che in caso di annessione valuteranno di riconoscere la Palestina sette paesi europei fra cui Francia, Spagna e Belgio.
Cosa aspettarci nei prossimi giorni
Negli ultimi giorni Netanyahu ha ribadito che intende rispettare la promessa di avviare l’annessione il primo luglio, ma non è ancora chiaro se riuscirà a mantenerla.
Per prima cosa dovrà superare qualche resistenza interna: è vero che l’annessione della Cisgiordania è stata stabilita nel contratto di governo, e che tutti i partiti sono più o meno d’accordo che prima o poi vada realizzata. Ma i centristi di Blu e Bianco e del Partito Laburista hanno posizioni più sfumate di Netanyahu – del resto anche l’elettorato israeliano è assai frammentato sull’argomento – e potrebbero cedere più facilmente alle pressioni internazionali per sospendere il piano.
Non sembra un buon momento neppure per ottenere l’appoggio degli Stati Uniti: Trump è alle prese con la gestione della pandemia da coronavirus e delle estesissime manifestazioni contro il razzismo, e potrebbe decidere di non aprire un altro fronte potenzialmente problematico. La scorsa settimana una fonte del Times of Israel aveva detto di ritenere «improbabile» che l’amministrazione Trump approverà l’annessione della Cisgiordania entro il primo luglio. È anche vero che Trump è noto per la sua imprevedibilità e da un giorno all’altro potrebbe cambiare idea e approvare il piano, magari per rafforzare ulteriormente il legame con la sua base elettorale.
Netanyahu, inoltre, sta ricevendo alcune inaspettate resistenze dai leader politici delle colonie, preoccupati che un’annessione eseguita in fretta e furia possa spingere gli Stati Uniti e altri alleati a riconoscere l’esistenza di uno stato palestinese, oppure che un compromesso al ribasso impedisca di annettere anche i territori circostanti alle colonie, di fatto condannandole a rimanere delle exclavi.
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Anshel Pfeffer, corrispondente dell’Economist in Israele e autore di una corposa biografia su Netanyahu, dubita inoltre che l’attuale primo ministro israeliano sia davvero così convinto di procedere: «Netanyahu è assolutamente consapevole delle conseguenze geopolitiche, regionali ed economiche di un’annessione, e procederà soltanto se sarà sicuro che a parte un coro internazionale di condanna non ci sarà alcun prezzo da pagare a lungo termine», ha scritto di recente su Haaretz. Almeno per il momento, fra l’altro, nonostante l’Autorità Palestinese abbia annunciato la sospensione della collaborazione con Israele sulle questioni di sicurezza, «le cose non sono cambiate molto», ha fatto notare il giornalista israeliano Amos Harel, esperto di sicurezza.
Nel frattempo l’esercito ha iniziato i preparativi militari per invadere la Cisgiordania, se sarà necessario. La settimana scorsa i vertici dell’esercito e delle principali agenzie di intelligence hanno tenuto una riunione per decidere come gestire eventuali escalation, mentre l’esercito si sta preparando per un’eventuale operazione che coinvolga anche i riservisti, che nelle principali operazioni di guerra dell’esercito vengono richiamati a decine di migliaia.