È il momento peggiore della pandemia?
In Europa la situazione sta migliorando, ma i numeri dei nuovi contagi nel mondo sono i più alti mai registrati finora, e la fine della crisi potrebbe essere ancora lontana
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il 7 giugno in tutto il mondo sono stati accertati 136.405 nuovi casi di contagio da coronavirus, il numero più alto mai registrato dall’inizio della pandemia, e il giorno successivo 131.296, il secondo più alto. Nonostante in Italia, e in tutta Europa, sia diffusa la percezione che il momento peggiore sia passato, in molti paesi del mondo le cose stanno progressivamente peggiorando. La situazione è particolarmente grave in America Latina, per esempio, ma non solo. Alcuni paesi che avevano imposto il lockdown e che hanno iniziato a togliere le restrizioni, come l’India e l’Iran, stanno registrando picchi di nuovi casi positivi, che rischiano di portare al collasso sistemi sanitari già al limite.
I numeri riportati dall’OMS, come noto, vanno presi con le molle: sia perché riguardano solo le persone risultate positive al tampone, ma non includono tutte quelle che hanno contratto il virus ma che non sono state sottoposte al test (e sono la maggioranza); sia perché ogni paese usa criteri propri per decidere chi sottoporre al tampone, anche se solitamente si tratta dei casi più gravi che passano per gli ospedali. I numeri sono comunque utili per capire le tendenze in corso e individuare quali paesi stiano attraversando il loro momento peggiore.
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In Europa da qualche settimana la situazione sta progressivamente migliorando.
Diversi paesi del continente, tra cui l’Italia, hanno iniziato a rimuovere le restrizioni agli spostamenti e riaprire le attività commerciali e produttive, senza osservare, almeno per ora, un aumento di nuovi contagi, come invece avevano previsto in molti. Rispetto al picco dell’epidemia, registrato nelle prime due settimane d’aprile, oggi i nuovi casi giornalieri sono più che dimezzati. C’è anche da considerare che rispetto a due mesi fa molti paesi hanno aumentato il numero di tamponi effettuati ogni giorno e hanno iniziato a sottoporre al test anche persone che non mostrano sintomi gravi, o appartenenti a categorie professionali considerate più a rischio, come il personale sanitario. I sistemi sanitari che più avevano sofferto il picco dell’epidemia – come quello lombardo in Italia, o quelli di Madrid e Barcellona in Spagna – hanno superato la fase più critica e stanno ritornando pian piano alla normalità.
Non in tutto il mondo però la situazione sta migliorando, e non in tutti i paesi in cui si è cominciato a riaprire si stanno vedendo dati incoraggianti come quelli registrati in Europa. Secondo i dati dell’OMS, i nuovi casi di contagio giornalieri sono ancora in crescita in diverse regioni, come l’America Latina, il Mediterraneo orientale, il sudest asiatico e l’Africa. La gravità della crisi non è però uguale ovunque.
Dei 136.405 nuovi casi di contagio registrati il 7 giugno, tre quarti si sono concentrati in solo dieci paesi, tra cui India, Brasile, Messico e Sudafrica.
In India, dopo che il governo guidato dal primo ministro Narendra Modi aveva tolto diverse restrizioni, il numero giornaliero dei nuovi casi è tornato ad aumentare rapidamente. Nelle ultime settimane, per esempio, sono stati individuati nuovi focolai in alcune zone del nord del paese, iniziati probabilmente da persone che per motivi di lavoro si spostano dalle zone rurali alle grandi città. A Mumbai gli ospedali pubblici sono ben oltre la loro capacità massima di offrire cure a tutte le persone che ne hanno bisogno, e molti medici ed epidemiologi pensano che le riaperture siano state troppo affrettate. Il governo indiano, così come quelli di molti altri paesi del mondo, ha deciso però di allentare il lockdown il prima possibile per cercare di far fronte alla profonda crisi economica provocata dalle chiusure forzate.
La situazione è preoccupante anche in America Latina, regione che alla fine di maggio l’OMS aveva individuato come nuovo epicentro dell’epidemia.
In America Latina oggi la tendenza è quasi ovunque a un aumento progressivo giornaliero di nuovi casi, anche in quei paesi che non sono stati tra i più colpiti, come l’Argentina. Situazioni molto critiche si stanno vedendo soprattutto in Brasile, dove il presidente Jair Bolsonaro ha minimizzato per molto tempo l’epidemia trattandola come una semplice influenza, e in Messico, dove il presidente Andrés Manuel López Obrador ha faticato a trovare una strategia per frenare l’aumento rapido del contagio: qui le autorità hanno dovuto trovare un equilibrio tra l’esigenza di imporre restrizioni e la necessità di rispondere ai bisogni economici di un paese in cui metà della popolazione vive alla giornata e si mantiene con lavori informali, senza alcuna rete di sicurezza.
A metà maggio il governo messicano ha deciso di iniziare a togliere alcune restrizioni, provocando un rapido aumento di nuovi casi. Lo stesso è successo in altri paesi della regione, come per esempio la Colombia.
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Un altro paese che sta attraversando una fase critica è il Sudafrica, il più colpito di tutto il continente africano. In Sudafrica, il giorno con il numero più alto di nuovi casi accertati è stato il 5 giugno (3.267), ma in generale questo dato è stato piuttosto alto per tutta l’ultima settimana. Anche qui, comunque, il governo ha deciso di togliere progressivamente le restrizioni imposte in precedenza e permettere a molte persone di tornare al lavoro. Secondo il presidente Cyril Ramaphosa, il lockdown è servito per preparare gli ospedali a ricevere i pazienti più gravi malati di COVID-19.
«I governi, forzati a scegliere tra guardare i propri cittadini morire per il virus, o guardarli morire di fame, hanno scelto di allentare i lockdown», ha scritto Marc Santora, giornalista del New York Times. Dalla situazione attuale, ha aggiunto Santora, sembra chiaro che le soluzioni adottate in Europa occidentale e negli Stati Uniti per rallentare l’epidemia potrebbero non funzionare alla stessa maniera ovunque, e potrebbero produrre risultati peggiori soprattutto nei paesi in cui per ragioni sociali è più difficile imporre alla popolazione il distanziamento fisico, e in cui ci sono sistemi sanitari deboli non in grado di reagire rapidamente a un’emergenza di tale portata.