«L’ora delle decisioni irrevocabili»
Ottant'anni fa Benito Mussolini annunciò la dichiarazione di guerra a Francia e Regno Unito di fronte a una gran folla: non finì bene
Il 10 giugno 1940, ottant’anni fa, una grande folla era radunata a Roma, così grande da riempire piazza Venezia fino alle scalinate dell’Altare della Patria e oltre, lungo via dei Fori Imperiali. Era un pomeriggio mite e soleggiato e mentre la folla attendeva, all’interno di palazzo Venezia erano in corso dei colloqui tra Benito Mussolini, il suo ministro degli Esteri Galeazzo Ciano e gli ambasciatori di Francia e Regno Unito.
Lo scopo di questi colloqui era comunicare ai rispettivi paesi che l’Italia intendeva entrare in guerra con loro a partire dal giorno seguente. Sbrigate le pratiche con cortesia e formalità – entrambi gli ambasciatori si aspettavano da tempo una dichiarazione di guerra – Mussolini uscì sul balcone del palazzo e alle 18 circa pronunciò un discorso di fronte alla folla che sarebbe diventato tra i suoi più famosi. Cominciava così:
«Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili […]. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano».
Mussolini si convinse a rompere la cosiddetta «non belligeranza» e a entrare in guerra al fianco della Germania nazista principalmente per un motivo: da quando era iniziata la Seconda guerra mondiale a settembre dell’anno prima, Adolf Hitler stava infilando una serie straordinaria di vittorie. Nessuno sembrava in grado di ostacolarlo e Mussolini era così sicuro che la guerra sarebbe finita nel giro di poco che non ordinò neanche una totale mobilitazione dal punto di vista industriale e finanziario, per preparare il paese alle spese belliche. Peraltro l’esercito italiano veniva da anni di lunghe e dispendiose campagne militari in Libia, in Etiopia e in Spagna (a sostegno delle truppe franchiste durante la guerra civile spagnola), cosa che lo aveva reso profondamente impreparato e quasi completamente privo di risorse.
Al di là del fatto che Mussolini si sentisse le spalle coperte dall’apparente invincibilità di Hitler, i motivi che spinsero l’Italia a entrare in guerra furono più di uno: l’Italia era innanzitutto vincolata dal Patto d’Acciaio, che aveva sancito l’alleanza tra Italia fascista e Germania nazista nel maggio del 1939. Il patto era particolarmente rigido e prevedeva l’obbligo di aiutare militarmente l’alleato qualora questo fosse trascinato in «complicazioni belliche».
Tra il primo settembre 1939 – giorno in cui Hitler invase la Polonia – e il giugno del 1940, l’Italia se la cavò dichiarando lo stato di «non belligeranza», termine inventato per l’occasione per indicare l’appoggio politico alla Germania ma allo stesso tempo l’astensione dal conflitto armato. L’Italia sperava che le dimensioni del conflitto rimanessero contenute, cosa che avrebbe permesso a Mussolini di mantenere la «non belligeranza», ma quando fu chiaro che la guerra avrebbe coinvolto tutta Europa e che per giunta Hitler stesse vincendo, diventò impossibile e quasi sconveniente restarne fuori, dato che la Francia era già invasa e praticamente sconfitta dai nazisti.
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Più le campagne militari di Hitler sbaragliavano gli avversari, più l’impazienza di Mussolini aumentava. Secondo il maresciallo Pietro Badoglio, a un certo punto Mussolini disse che l’Italia aveva «bisogno di alcune centinaia di morti da portare al tavolo della pace».
Fin dai primi mesi, però, le cose non andarono come previsto. La strategia adottata dall’esercito italiano, che a posteriori può sembrare illogica data la sua scarsa preparazione, fu quella della cosiddetta “guerra parallela”. L’Italia aprì quindi due fronti, uno in Nord Africa e uno nella penisola balcanica, contro il Regno di Grecia. La spedizione nei Balcani fu un altro errore di valutazione da parte di Mussolini, che avrebbe voluto chiudere in breve tempo l’operazione: invece i greci resistettero a lungo e, nella primavera del 1941, fu necessario l’intervento dei tedeschi, spinto anche dalla situazione nella vicina Jugoslavia, dove un colpo di stato in funzione anti-nazista spinse l’esercito tedesco a bombardare Belgrado per una settimana.
La situazione nei Balcani, incluso il pasticcio italiano, ritardò la cosiddetta “Operazione Barbarossa”, cioè l’offensiva in Unione Sovietica da parte dei nazisti. Inizialmente era prevista a maggio, invece iniziò nei primi giorni dell’estate, compromettendo forse l’esito dell’operazione che alla fine fu un fallimento: come di fronte all’attacco di Napoleone Bonaparte 129 anni prima, la strategia difensiva della ritirata verso est dei russi fu decisiva e impedì a Hitler di ottenere la vittoria entro la fine dell’estate.
Per il Patto Tripartito (l’alleanza tra Germania nazista, Italia fascista e Giappone imperiale) gli equilibri cominciarono a spostarsi dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, che provocò l’entrata in guerra definitiva degli Stati Uniti, a dicembre del 1941. A quel punto gli Alleati, cioè principalmente Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica, avevano una superiorità schiacciante: è stato calcolato che avessero a disposizione il 75 per cento delle risorse umane e materiali a livello globale. Alla fine, «l’ora delle decisioni irrevocabili» causò soprattutto una cosa: la morte di oltre 500 mila italiani tra il 1940 e il 1945.
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