Cosa può dirci una portaerei sull’immunità dal coronavirus
Alcuni marinai della USS Theodore Roosevelt, sulla quale si sviluppò un'epidemia a marzo, hanno mostrato i segni di una protezione immunitaria a distanza di tre mesi dai sintomi
Alla fine dello scorso marzo sulla portaerei statunitense USS Theodore Roosevelt furono registrati alcuni casi positivi al coronavirus tra i marinai dell’equipaggio, mentre la nave si trovava al largo nell’oceano Pacifico. In pochi giorni i contagiati divennero centinaia, il capitano denunciò la mancanza di assistenza e considerazione con una lettera poi finita sui giornali, fu rimosso e ne nacque un caso politico che portò alle dimissioni del segretario alla Marina degli Stati Uniti, Thomas Modly. Non fu una vicenda molto edificante per la marina militare più grande e potente al mondo, in compenso un’analisi scientifica sta offrendo importanti indizi sulla COVID-19 e sulla nostra eventuale capacità di diventare immuni dal coronavirus.
Un gruppo di ricercatori della Marina e dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) ha condotto test ed esami su alcune centinaia di marinai che si trovavano sulla Roosevelt, poi attraccata al porto di Guam per gestire l’emergenza. In circa un terzo del personale sottoposto agli esami è stata riscontrata la presenza di anticorpi al coronavirus a mesi di distanza dall’infezione, condizione che sembra suggerire la possibilità che si mantenga un certo grado di immunità anche diverso tempo dopo essere entrati in contatto con il virus. In alcuni soggetti è stata in particolare riscontrata la presenza di anticorpi neutralizzanti, specializzati nell’impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, a tre mesi di distanza dalla comparsa dei primi sintomi.
Da inizio anno, molti ricercatori sono al lavoro per capire se il nostro sistema immunitario riesca a serbare un ricordo del coronavirus, in modo da impedirgli di causare nuove infezioni dopo che si è stati infettati una prima volta. Le ricerche e altri studi condotti su virus simili – come quello che causa la SARS – sembrano indicare lo sviluppo di una memoria immunitaria, sulla cui durata non ci sono però ancora certezze. Il nuovo studio condotto sui marinai della Roosevelt sembra offrire nuove conferme sulla possibilità di diventare immuni, per lo meno temporaneamente, dal coronavirus.
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Lo studio è stato condotto su 382 marinai, di entrambi i sessi, tra i circa mille che avevano contratto il virus durante l’epidemia a bordo. Gli esami sono stati effettuati a partire dalla seconda metà di aprile attraverso il prelievo di campioni di sangue, nei quali è stata poi cercata la presenza degli anticorpi (erano quindi test sierologici). I primi test hanno permesso di identificarla in 228 individui: in 135 di questi quantità e caratteristiche degli anticorpi erano tali da poter bloccare una successiva infezione da coronavirus.
Nel caso di numerose malattie infettive, il nostro organismo impiega settimane prima di sviluppare anticorpi neutralizzanti specifici, che vanno poi a costituire la memoria immunitaria. Gli autori dello studio hanno spiegato che i test sono stati eseguiti precocemente, probabilmente prima che tutti i partecipanti sviluppassero gli anticorpi neutralizzanti, e questo potrebbe avere influito sui risultati dei test sottostimando la quantità di immuni potenziali rilevati.
I ricercatori hanno anche rilevato una certa persistenza degli anticorpi nel tempo. Su una decina di marinai, che avevano sviluppato i sintomi 40 giorni prima di essere sottoposti ai test, otto hanno mostrato di avere ancora gli anticorpi neutralizzanti. Due di loro hanno portato a questi risultati anche a tre mesi di distanza dalla comparsa dei sintomi.
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Essendosi sviluppato in un ambiente isolato come quello di una grande imbarcazione, il contagio sulla Roosevelt ha permesso ai ricercatori di effettuare test e raccogliere dati più mirati. Il fatto che a distanza di diversi mesi in alcuni marinai sia stata riscontrata la presenza di anticorpi specifici contro il coronavirus conferma, almeno in parte, le ipotesi circa la capacità del nostro organismo di mantenere un ricordo dell’infezione in modo da ridurre il rischio di ammalarsi nuovamente di COVID-19.
I dati forniti dallo studio devono comunque essere presi con molta cautela, perché riguardano un numero limitato di persone, sottoposte a test in un periodo di tempo ristretto. Saranno necessari ancora diversi mesi per comprendere l’effettiva durata della memoria immunitaria, e per verificare se sia un tratto comune alla maggior parte degli infetti o se solo alcuni riescano a svilupparla.