Il “modello giapponese” contro il coronavirus
Che sembra avere funzionato: ha previsto pochi tamponi, l'isolamento rapido dei focolai e misure restrittive poco rigide
Lunedì della scorsa settimana il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha definito «un successo» le misure adottate dal Giappone per contenere l’epidemia da coronavirus, e ha rimosso lo stato di emergenza nazionale introdotto sette settimane prima. Durante una conferenza stampa tenuta a Tokyo, Abe ha detto che il Giappone era riuscito ad evitare l’esplosione di casi positivi di coronavirus senza le misure restrittive draconiane adottate da molti paesi europei e dagli Stati Uniti. «In un modo tipicamente giapponese, nell’ultimo mese e mezzo siamo riusciti a portare l’epidemia sotto controllo. E questo mostra certamente il potere del modello giapponese», ha detto Abe.
Il «modello giapponese» citato da Abe ha previsto anzitutto pochissimi tamponi, realizzati quasi esclusivamente sui casi più gravi arrivati negli ospedali. L’indicazione iniziale data alla popolazione era non cercare aiuto medico almeno fino al quarto giorno di febbre, o fino al secondo per le persone con più di 65 anni: l’idea era preservare le risorse ospedaliere, evitando il loro collasso. Inoltre, una legge nazionale prevedeva che tutte le persone risultate positive al tampone, anche quelle asintomatiche, fossero poste in isolamento in una delle poche strutture messe a disposizione del governo: anche questo potrebbe essere stato un disincentivo a fare il tampone sui casi sospetti positivi.
Il “modello giapponese” ha inoltre previsto restrizioni non particolarmente severe – per esempio non ha imposto la chiusura obbligatoria di tutte le attività – e ha incluso una estesa campagna del governo per indicare alla popolazione i comportamenti corretti da seguire; si è concentrato sul contenimento rapido di piccoli focolai, soprattutto attraverso il contact tracing, cioè il tracciamento dei casi positivi e sospetti; e si è basato sulla chiusura di tutte le scuole alla fine di febbraio, una decisione inizialmente molto impopolare ma che potrebbe avere contribuito a ridurre la diffusione del virus.
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È stato comunque il basso numero di tamponi a essere discusso da esperti ed epidemiologi, perché in netto contrasto con le indicazioni date dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e con le convinzioni della maggior parte dei governi del mondo. Il timore di molti era che la mancanza di test avrebbe impedito di conoscere la reale diffusione del virus e provocato il collasso del sistema sanitario nazionale, anche perché il Giappone ha una popolazione estremamente anziana e diverse grandi città molto popolose.
Finora, però, sembra che le cose siano andate come sperava il governo di Abe. Dall’inizio dell’epidemia, in Giappone sono stati registrati poco meno di 17mila casi positivi e di 900 morti (in Italia sono stati annunciati finora più di 33mila morti, anche se il numero reale è molto più alto). Il Giappone ha anche uno dei più bassi tassi di mortalità tra i paesi più sviluppati.
I giornalisti Ben Dooley e Makiko Inoue hanno scritto sul New York Times che ci sono diverse teorie che potrebbero spiegare il basso tasso di mortalità registrato in Giappone. Tra le altre, sono state citate l’ampia diffusione delle mascherine, l’abitudine diffusa di lavarsi spesso le mani e la quasi assenza di contatto fisico nel saluto – né abbracci né strette di mano. Si è parlato anche della tendenza della popolazione a seguire le regole imposte dal governo in misura maggiore rispetto a quello che avviene in altri paesi del mondo.
La situazione giapponese, comunque, potrebbe essere più grave di quello che sostengono i numeri ufficiali, e non solo perché il numero delle persone risultate positive al tampone è solo una parte delle persone che negli ultimi mesi hanno contratto il coronavirus in Giappone. Secondo i dati finora disponibili e relativi all’anno in corso, il numero assoluto di morti registrati nella città di Tokyo nei primi mesi dell’anno è parecchio più alto rispetto a quello registrato nello stesso periodo negli anni passati: solo nella capitale, i morti per coronavirus esclusi dalle statistiche ufficiali potrebbero essere decine.
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Con la fine dell’emergenza nazionale annunciata da Abe, in Giappone hanno ricominciato ad aprire praticamente tutte le attività che erano ancora chiuse. I timori per una seconda o una terza ondata del virus sono comunque rimasti, e lo stesso Abe ha sottolineato come la fine dello stato di emergenza non significhi il ritorno alla vita normale: «Quello a cui dobbiamo puntare è stabilire una nuova normalità», ha detto Abe.