In Venezuela sta andando male
Negli ospedali mancano acqua corrente e sapone, vengono fatti pochissimi tamponi e ci sono solo 163 posti in terapia intensiva in tutto il paese
Secondo i dati forniti dal governo del Venezuela, al 31 maggio nel paese sono stati accertati 1.500 casi di coronavirus e 14 persone morte risultate positive; i primi due casi erano stati registrati il 13 marzo, entrambi nello stato di Miranda, al centro della costa. In quello stesso giorno il presidente Nicolás Maduro dichiarò lo stato di emergenza e il 17 marzo impose ai 29 milioni di abitanti restrizioni agli spostamenti e la chiusura delle attività non essenziali per contenere il contagio.
I numeri ufficiali sull’epidemia in Venezuela sono molto bassi e poco realistici, come hanno denunciato organizzazioni dei diritti umani e alcuni medici e giornalisti venezuelani. È probabile che il contagio sia molto più diffuso a causa della difficoltà di rispettare la misure di isolamento e del collasso del sistema sanitario del paese, con molti ospedali che mancano di acqua corrente, sapone, misure protettive e personale sanitario. Già nel 2019 il Global Health Security Index aveva posizionato il Venezuela al 180esimo posto su 195 per la capacità di contenere il diffondersi di un’epidemia.
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È possibile che il contagio sia stato contenuto grazie all’isolamento ma, scrive il New Yorker, i numeri potrebbero essere bassi soprattutto perché il Venezuela non sta facendo abbastanza test. In tutto il paese c’è un unico laboratorio che li analizza, l’Istituto nazionale di sanità nella capitale Caracas: è in grado di processarne 600 al giorno (per fare un confronto, a maggio in Italia ne sono stati processati circa 60mila al giorno). Fino al 21 maggio, secondo dati ufficiali, il governo aveva condotto 697.691 test, di cui solo 16.577 tamponi: gli altri erano test sierologici dal risultato poco affidabile e di cui «nessuno sa come o dove vengano condotti», ha detto al New Yorker Julio Castro, specialista di malattie infettive dell’università Central di Caracas e consigliere in materia sanitaria del leader dell’opposizione Juan Guaidó.
A inizio maggio l’Accademia di fisica, matematica e scienze naturali aveva accusato il governo di sottostimare il numero dei casi; secondo le sue stime, a inizio giugno ci sarebbero stati ogni giorno tra i 1.000 e i 4.000 nuovi casi. Giorni dopo Diosdado Cabello, vicepresidente del partito al potere, il partito Socialista unito del Venezuela, aveva annunciato un’inchiesta sul lavoro dell’istituto.
Gli stessi dubbi sui numeri del contagio sono emersi in un rapporto molto dettagliato sulla situazione sanitaria nel paese, pubblicato martedì scorso dall’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (HRW). Il rapporto di HRW sostiene, in generale, che il sistema sanitario venezuelano sia impreparato a gestire l’epidemia e che la cronica carenza d’acqua corrente, sapone e disinfettante favorirà invece il diffondersi del contagio, a partire dagli stessi ospedali. Si basa su interviste fatte a medici, infermieri e personale di 14 ospedali pubblici nella capitale Caracas e in cinque stati venezuelani. Le interviste erano state condotte a ottobre e novembre 2019 e poi nuovamente tra marzo, aprile e maggio 2020, dopo l’inizio della pandemia.
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Secondo il rapporto, non è possibile conoscere i dati reali del contagio perché non ci sono test a sufficienza e non c’è trasparenza da parte del governo, che ha ostacolato i medici e i giornalisti che hanno denunciato i problemi della gestione sanitaria. HRW segnala anche la testimonianza di alcuni medici locali di «casi confermati di Covid-19 che non erano stati riportati nei rapporti epidemiologici».
HRW racconta anche che il governo avrebbe impedito a enti e associazioni di raccogliere e diffondere dati e informazioni sull’epidemia. Per esempio, il 17 marzo l’Assemblea nazionale, guidata dall’opposizione ostile a Maduro, aveva creato un sito di informazioni sul coronavirus che era stato subito bloccato dal fornitore di internet nazionale, CANTV. Il governo aveva vietato i test sul coronavirus in una clinica privata di Caracas e confiscato i risultati, sostenendo che potessero essere condotti e verificati solo da un ente governativo.
Uno dei problemi più gravi è la cronica carenza d’acqua corrente negli ospedali: in quelli di Caracas l’acqua manca da settimane con una certa frequenza, in quelli più remoti manca da mesi. Medici e pazienti devono portarsi l’acqua potabile da casa, a volte anche quella per lavarsi dopo le operazioni, pulire gli strumenti chirurgici e scaricare le latrine. Secondo un sondaggio condotto in 16 ospedali di Caracas e pubblicato il 21 maggio, in 8 mancava l’acqua, in 7 i guanti, in 15 sia il sapone che il disinfettante, in 8 guanti e mascherine. Un’altra ricerca nazionale uscita il 16 maggio mostrava che il 57 per cento delle strutture mediche era a corto di guanti, il 62 per cento non aveva sufficienti mascherine, il 76 per cento non aveva abbastanza sapone e il 90 per cento mancava di gel disinfettante. Mancano, insomma, gli strumenti principali per contenere il contagio da coronavirus.
A causa dell’inflazione e del taglio dei salari, per medici e infermieri è complicato portarsi sapone, mascherine e gel disinfettanti da casa. Una bottiglietta di gel disinfettante costa tra i 3 e i 5 dollari, lo stipendio mensile di un medico va dai 6 ai 15 dollari, quello degli infermieri è di circa 3 dollari. In alcuni ospedali sono gli stessi pazienti a dover portare l’acqua da casa e, se non sono in grado di farlo, l’operazione viene cancellata; secondo il personale di un ospedale intervistato da HRW, solo il 25 per cento dei pazienti riesce a procurarla.
In tutta Caracas non c’è un’unica macchina per la risonanza magnetica funzionante, nei quaranta ospedali principali del paese ci sono 200 ventilatori per aiutare pazienti a respirare e 163 posti per la terapia intensiva; ovunque ci sono blackout frequenti. Moltissimi medici sono scappati dal paese, quelli che sono rimasti sono spesso impreparati ad affrontare la malattia e rischiano di ammalarsi a loro volta. Contemporaneamente devono affrontare altre malattie che si sono diffuse nel paese negli ultimi anni, come il morbillo, la difterite, la malaria e la tubercolosi.
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La scarsità d’acqua è altrettanto drammatica nelle baraccopoli, densamente affollate: l’acqua corrente può mancare per settimane, costringendo gli abitanti a fare scorte nelle taniche non appena ricompare. Jaime Lorenzo, un chirurgo di Caracas, ha raccontato al New Yorker di essere andato nelle baraccopoli della capitale a spiegare come contenere il coronavirus: «quando dici alle persone che si devono lavare le mani per almeno 40 secondi ti guardano come se venissi da un altro pianeta».
Oltre all’acqua, nelle baraccopoli mancano il sapone, la corrente elettrica e le persone vivono in costante sovraffollamento, cosa che rende praticamente impossibile l’isolamento imposto dal governo. Chi ci vive, ha continuato ad andare al mercato ogni giorno per comprare qualcosa da mangiare, non avendo frigoriferi o dispense dove conservare il cibo a lungo e non avendo abbastanza denaro per fare una grossa spesa tutta in una volta. A causa del tasso di inflazione, uno dei più alti al mondo, della crisi economica che si trascina da anni e della pandemia, il Venezuela rischia anche la carestia, ha detto di recente il Programma alimentare mondiale, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare.
Il contagio si può diffondere facilmente anche a causa del grave sovraffollamento nelle carceri e degli spostamenti fuori e dentro il Venezuela: molti emigrati nei paesi vicini stanno rientrando perché sono rimasti senza lavoro a causa delle restrizioni, altri fuggono all’estero sperando di ricevere cure migliori.
A questo si aggiunge la mancanza di carburante in tutto il paese, che rende più difficoltoso per gli operatori sanitari e i pazienti raggiungere gli ospedali. Il Venezuela è uno dei paesi con la più grande riserva di petrolio al mondo, ma ha pochi impianti di raffinamento e si appoggia sulle importazioni. Molte stazioni di servizio hanno chiuso e quelle rimaste aperte sono controllate dall’esercito; le persone aspettano in coda per ore, a volte anche giorni, per comprare un po’ di benzina.
Il governo ha garantito a dottori e infermieri il pieno di benzina gratis ma quelli intervistati dal New Yorker hanno raccontato di essere sottoposti alle decisioni arbitrarie dei soldati. Chi deve andare al lavoro deve farlo spesso a piedi, in metro o sugli autobus affollati. Le aziende di pompe funebri sono rimaste senza benzina e in alcuni casi, scrive sempre il New Yorker, i parenti delle persone defunte hanno dovuto trasportare il cadavere sulle loro auto dirette al cimitero. A causa della mancanza di benzina, il 31 maggio Maduro ha annunciato che verrà ridotto il decennale sussidio per il carburante e che saranno privatizzate alcune stazioni di servizio. I venezuelani potranno comprare 32 galloni (120 litri) di benzina al mese al costo di 10 centesimi di dollari al gallone (circa 3,8 litri); sforata quella quantità, dovranno pagare 1,90 dollari al gallone, venduto in una rete di 200 stazioni affidate a privati.
Il governo, intanto, sta usando la pandemia per rafforzare il suo potere. Il controllo delle misure di isolamento è stato affidato alla polizia, all’esercito, a forze di polizia speciali chiamate FAES e a gruppi armati filo-governativi che, secondo l’accusa di alcune associazioni umanitarie, hanno condotto arresti e aggressioni arbitrarie. Gli ospedali sono presidiati da soldati, a volte in borghese, che in alcuni casi sono anche intervenuti nelle decisioni mediche. Almeno 18 tra medici e giornalisti sono stati arrestati per aver denunciato la carenza di mezzi per gestire la pandemia o espresso dubbi sui numeri ufficiali. Le restrizioni agli spostamenti hanno anche messo fine alle proteste che andavano avanti da anni.
La situazione è peggiorata dalla crisi politica, aggravatasi nella primavera del 2019 dopo il tentato colpo di stato condotto contro Maduro da Guaidó. Guaidó si era dichiarato presidente ad interim e aveva invitato Maduro a dimettersi, ma Maduro era riuscito a restare al potere e Guaidó venne rieletto presidente dell’Assemblea nazionale, il parlamento. Il 17 marzo scorso il governo aveva chiesto un prestito di 5 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale (FMI) per gestire la crisi dovuta al coronavirus ma la richiesta era stata rifiutata in mancanza di un riconoscimento chiaro del governo di Maduro da parte della comunità internazionale. Maduro, allora, si era offerto di riprendere i colloqui con Guaidó, ma al momento non sono ancora riusciti a trovare un accordo.