Da dove vengono le rivolte americane
Un estratto dal recente libro di Francesco Costa sugli Stati Uniti, per comprendere il più ampio contesto storico alla base delle proteste di questi giorni
Le proteste e le rivolte che avvengono da giorni negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis, non sono comprensibili in tutte le loro ragioni e implicazioni se non all’interno del più ampio contesto dell’oppressione e discriminazione sistematica degli afroamericani negli Stati Uniti, e nelle loro origini storiche. Pubblichiamo un estratto di Questa è l’America, un libro scritto da Francesco Costa, peraltro vicedirettore del Post, che racconta come gli Stati Uniti d’America sono diventati il paese che sono oggi, attraverso otto storie esemplari dei grandi cambiamenti degli ultimi vent’anni. L’estratto che segue è tratto dal capitolo che racconta la storia della città di Flint, la città che dal 2014 per anni ha distribuito acqua tossica ai suoi cittadini, prevalentemente afroamericani.
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Nonostante la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti dichiari notoriamente che «tutti gli uomini sono stati creati uguali», i Padri fondatori pensavano a uomini con la pelle di un colore ben preciso; e la difesa della schiavitù dalla crescente ostilità degli inglesi fu anzi uno dei motivi – e quello di cui negli Stati Uniti si parla meno volentieri – per i quali gli americani cercarono quella stessa indipendenza. Gli schiavi non erano considerati esseri umani: la loro condizione era ereditaria e perenne, e i singoli schiavi potevano essere scambiati, smembrati, venduti, mutilati, comprati, stuprati, dati in pegno, regalati. Niente poteva appartenere agli schiavi, nemmeno i loro figli; tutto si poteva fare di loro, e tutto gli veniva fatto. I pochi afroamericani che riuscivano a riscattarsi dalle gabbie e dalle catene, in senso letterale, venivano spesso uccisi impunemente; le loro imprese distrutte, se osavano aprirne una; le loro fortune saccheggiate.
Questo andazzo proseguì per molto tempo dopo la formale abolizione della schiavitù – seguita a una guerra nella quale centinaia di migliaia di persone erano morte pur di difenderla – grazie all’imposizione legale di una vera apartheid costruita allo scopo di continuare a trattare i neri come subumani, e isolarli dalla vita pubblica. «Separate but equal», stabilì la Corte suprema, ma di equal non c’era niente. La segregazione informale era onnipresente – tutto esisteva in due versioni, dalle scuole alle cabine telefoniche, dai parcheggi ai cimiteri, e solo una delle due era dignitosa– e così la violenta sottomissione dei neri, che non potevano testimoniare contro un bianco, che dovevano fargli spazio sui marciapiedi o al bancone del bar, che erano soggetti a ogni tipo di prepotenza. Nessuna vera emancipazione poteva essere consentita. Dopo aver impedito per secoli ai neri di imparare a leggere e scrivere, si stabilì che solo chi sapeva farlo poteva votare. Quando con il New Deal il governo federale si impegnò a sostenere il mercato immobiliare attraverso i mutui garantiti dallo Stato, stabilì che queste agevolazioni non sarebbero arrivate ovunque: i quartieri abitati in gran parte da afroamericani vennero evidenziati in rosso nelle mappe – da qui il nome che prese questa pratica, redlining – e non avrebbero percepito niente.
Ancora in pieno Novecento gli imprenditori afroamericani di successo venivano uccisi e derubati senza conseguenze, mentre chi osava ribellarsi veniva linciato. Le cose sono cambiate lentamente e inesorabilmente, per fortuna, ma sono ancora lontanissime dalla normalità. Il funzionamento del sistema giudiziario nel corso degli anni, per esempio, riflette ancora oggi questa asimmetria: non esiste un solo tipo di reato che non veda ancora una gigantesca sproporzione di pene e condanne a svantaggio dei neri; e il progressivo strumentale irrigidimento delle norme ha permesso di condannare all’ergastolo anche ragazzini di tredici anni che avevano commesso reati non violenti. Quasi tutti neri: come peraltro sono in maggioranza i detenuti negli Stati Uniti, il paese che mette in proporzione più persone in carcere in tutto il mondo, nonostante gli afroamericani siano il 13 per cento della popolazione. Nel frattempo le storie di neri uccisi dalla polizia a un posto di blocco o in mezzo alla strada circolano settimanalmente, senza conseguenze, e molti Stati continuano a cercare norme e cavilli per limitare la partecipazione degli afroamericani alle elezioni.
In una nazione che ha solo trecento anni di vita e ne ha passati duecentocinquanta a sottomettere i neri con tutta la forza dello Stato – la legge sui diritti civili è solo del 1964 – una segregazione così sistematica e con radici così profonde si è riprodotta spontaneamente a Flint quando il suo sistema economico è crollato: la maggior parte dei bianchi se l’è cavata o se n’è andata, la maggior parte dei neri è rimasta e nessuno si è più occupato della città, se non per commissariarla e ignorare quasi due anni di proteste mentre le persone bevevano rifiuti tossici. La deindustrializzazione ha fatto male a tutto il Michigan, ma a pochi posti ha fatto male come a Flint: e mentre Flint affondava, e i suoi bambini subivano danni irreparabili, a pochi chilometri si trovava comunque un qualche modo di restare in piedi, in città che avevano almeno l’acqua pulita e l’asfalto senza buche. Come ha scritto Richard Manning, giornalista e scrittore originario di Flint, quello che è capitato è una specie di piccolo esperimento sociale: non è che i posti come Flint fossero i soli ad avere problemi in Michigan o nel Midwest, ma quelli sono i posti in cui è stato tirato il confine. Nei posti come Flint è stata praticata per decenni una specie di esternalizzazione dei problemi, per cui tutto quello che funzionava è stato progressivamente portato via e tutto quello che non funzionava è stato abbandonato lì, per cui a ogni crisi è seguita un’altra crisi, a ogni disastro è seguito un altro disastro, dando la città per irrecuperabile e in questo modo rendendola effettivamente irrecuperabile.