La storia di Boris Pasternak
Scrisse "Il dottor Živago", vinse un Nobel che fu costretto a rifiutare e morì il 30 maggio di sessant'anni fa
Il 10 dicembre del 1958, nella grande sala dei concerti di Stoccolma, si svolse la cerimonia della consegna del premio Nobel: erano presenti tutti i vincitori tranne uno, Boris Leonidovič Pasternak, scrittore russo morto il 30 maggio del 1960, sessant’anni fa.
L’allora segretario dell’Accademia svedese Anders Österling si alzò e disse: «Loro maestà reali, signore e signori, il premio Nobel per la Letteratura quest’anno è stato assegnato allo scrittore sovietico Boris Pasternak, per il suo contributo significativo sia alla poesia contemporanea che alla grande tradizione della narrativa russa. Come sapete, il premiato ha comunicato che non desidera ricevere il premio. Questo rifiuto non comporta naturalmente nessuna modifica per quanto riguarda la validità della sua assegnazione. All’Accademia rimane soltanto da annotare con rammarico che l’assegnazione del premio non potrà avere luogo».
Pasternak ricevette la notizia del premio il 23 ottobre, mentre si trovava a Peredelkino, un complesso di dacie a pochi chilometri da Mosca, festeggiò pranzando con la moglie e un’amica e il giorno dopo telegrafò alla segreteria del premio Nobel sette parole: «Immensamente grato, commosso orgoglioso, meravigliato, confuso. Pasternak». Da subito, però, la stampa sovietica lo attaccò violentemente giudicandolo “un traditore”. Radio Mosca lo definì “una pecora rognosa”, il ministero per la Sicurezza dello Stato lo minacciò e il 27 ottobre l’Unione degli scrittori sovietici lo espulse. Italo Calvino, tra gli altri, disse che il premio gli era stato attribuito, «dobbiamo riconoscerlo, con evidenti intenzioni politiche», ma l’Accademia sostenne sempre il contrario: che il verdetto era stato unanime e che il nome di Pasternak era già stata discusso anni prima, per le poesie che fino a quel momento aveva scritto. Poi arrivò Il dottor Živago, l’unico romanzo di Pasternak tradotto in decine di lingue e venduto in milioni di copie, che fu determinante nell’assegnazione del Nobel. O almeno così dissero.
Il 29 ottobre, quindi, la segreteria del premio Nobel ricevette da Pasternak un secondo messaggio con il quale lo scrittore rifiutava il riconoscimento: «Per il significato che a questo premio è stato dato dalla società alla quale appartengo». Pasternak non volle mai lasciare il suo paese perché, come scrisse all’allora segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Nikita Krusciov, farlo per lui sarebbe stato come morire.
Pasternak era nato a Mosca il 10 febbraio del 1890 da una famiglia di intellettuali di origine ebrea provenienti da Odessa. Il padre Leonid era un pittore impressionista, la madre Rozalija Kaufman una pianista. Erano amici di Lev Tolstòj, Rainer Maria Rilke e del musicista Skrjabin. Pasternak studiò composizione al conservatorio, poi nel 1912 scelse di andare a Marburgo, centro della filosofia neokantiana, per seguire le lezioni di Hermann Cohen. Conseguita la laurea in filosofia, lavorò come precettore privato, frequentando i circoli e i gruppi letterari del tempo. Il suo esordio come poeta avvenne in un gruppo cubofuturista, ma le sue prime raccolte di poesie, lontane dagli estremismi verbali dell’avanguardia ufficiale, Il gemello fra le nuvole e Oltre le barriere, furono quasi completamente ignorate dalla critica.
Quando iniziò la Rivoluzione di Ottobre, Pasternak si trovava a Mosca. Non la rifiutò, ma a differenza di altri poeti del tempo continuò a cantare la natura, le stelle e la pioggia, tema molto frequente nei suoi versi. Quando affrontò i temi della rivoluzione, lo fece sempre attraverso la lontananza.
Tu mi stai accanto, lontananza del socialismo.
Dici d’esser vicina? Frammezzo alle angustie,
in nome della vita, in cui ci siamo legati,
trasportaci, ma solo tu.
(Le onde, 1931)
Nel frattempo, accanto alla poesia, cominciò a comporre anche prose, in parte autobiografiche, e a tradurre i poeti georgiani, Shakespeare e Goethe. Nell’agosto del 1934, durante il Congresso degli scrittori sovietici, il rivoluzionario e intellettuale Bukarin, poi fucilato nel 1938, indicò Pasternak come il più grande poeta sovietico vivente. Poco dopo iniziarono le purghe: centinaia di artisti e intellettuali scomparirono, ma Pasternak si salvò. Sui suoi rapporti con Stalin si dissero molte cose, così come su una celebre telefonata durante la quale Pasternak ottenne che Stalin graziasse Osip Mandel’stam, arrestato nel 1934. Le raccolte di poesie Sui treni mattutini (1943) e Lo spazio terrestre (1945) dimostrarono un maggiore impegno politico di Pasternak, inteso come solidarietà col suo popolo in guerra contro i nazisti. In generale, però, Pasternak mostrò sempre un atteggiamento che è stato definito “amletico” nei confronti della storia e della storia del suo paese, non esplicitando mai né un esplicito assenso né un manifesto dissenso.
Tra il 1946 e il 1956 lavorò a Il dottor Živago, oggi noto come il suo capolavoro. Era convinto, come disse nella sua autobiografia, che la poesia fosse stata una preparazione al romanzo, la cui pubblicazione inizialmente non fu autorizzata perché giudicata ostile all’Unione Sovietica. Il libro apparve in Italia nel 1957: fu pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli, nonostante le pressioni arrivate dall’URSS e dal Partito Comunista Italiano per bloccarlo.
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Il romanzo, da cui poi venne tratto un celebre film con Omar Sharif, Julie Christie e Geraldine Chaplin, affronta il problema della solitudine dell’intellettuale di fronte alla violenza della storia, racconta la Russia della Prima guerra mondiale, la Rivoluzione del 1917, le trasformazioni sociali e, soprattutto, un amore impossibile. Non si può definire un libro antisovietico, ma fu certamente lontano dalla visione eroica offerta dalla letteratura ufficiale del tempo. Dopo il Nobel e tutto quel che ne seguì, cominciò il decadimento anche fisico di Pasternak che visse i suoi ultimi anni sotto lo stretto controllo del regime. Morì il 30 maggio del 1960.