L’assassinio di Walter Tobagi, 40 anni fa
Era uno dei giornalisti più apprezzati e noti tra quelli che si occupavano di terrorismo politico e fu ucciso perché, come dissero i suoi assassini, «non era un tipo rozzo»
La sera prima di essere ucciso, il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi partecipò a un movimentato incontro al circolo della stampa di Milano. Tobagi all’epoca si occupava soprattutto di terrorismo, e il suo lavoro sul tema era considerato uno dei più attenti, raffinati e profondi in Italia. Quella sera, come succedeva spesso, finì accusato dai suoi colleghi più vicini ai movimenti di protesta di sinistra, e la discussione in breve divenne piuttosto accesa.
Ricordando i colleghi giornalisti feriti dai terroristi in quegli anni, alcuni proprio nelle settimane precedenti, Tobagi rispose ai suoi critici domandandosi: «Chissà a chi toccherà la prossima volta». Fu ucciso circa dieci ore dopo, la mattina del 28 maggio 1980, mentre usciva dalla sua casa in via Salaino, vicino al carcere di San Vittore a Milano. Aveva 33 anni. Gli sparò un commando della Brigata XXVIII Marzo, un gruppo di giovani terroristi di estrema sinistra che speravano con un’azione eclatante di farsi riconoscere dalle Brigate Rosse, il più noto gruppo terroristico italiano. Colpito da cinque colpi di pistola, Tobagi morì immediatamente.
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Il suo omicidio, tra le centinaia avvenute nel periodo oggi noto come “Anni di piombo”, tra gli anni Settanta e Ottanta, fu uno di quelli che destarono l’impressione più forte ed è ricordato con emozione ancora oggi. Questa settimana il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il sindaco di Milano Beppe Sala hanno ricordato la morte di Tobagi, così come ha fatto il Corriere della Sera insieme a tutti gli altri quotidiani principali. A Milano la scuola di giornalismo dell’Università porta ancora oggi il suo nome.
Tobagi era un giornalista apprezzato dai colleghi. Equilibrato e attento, aveva scritto a lungo dei movimenti di protesta di quegli anni e poi della violenza e del terrorismo politico. Anche se era tra i più severi critici della lotta armata, cercava allo stesso tempo di comprenderne le cause e le dinamiche sociali che la alimentavano. Come ha ricordato Mattarella, «era un giornalista libero che indagava la realtà oltre gli stereotipi e pregiudizi, e i terroristi non tolleravano narrazioni diverse da quelle del loro schematismo ideologico».
Furono i suoi stessi assassini a spiegare che proprio lo sguardo critico ma profondo di Tobagi li aveva spinti a sceglierlo come bersaglio. In un articolo sul Corriere della Sera, Giovanni Bianconi ha raccontato la confessione resa prima ai magistrati e poi al processo dal fondatore, leader e poi pentito della Brigata XXVIII Marzo, Marco Barbone. Il gruppo non intendeva colpire un giornalista di «tipo rozzo», uno di quelli così acriticamente dalla parte dello Stato che «praticamente incitava a proseguire sulla strada della pena di morte sul campo».
Questi giornalisti si inserivano perfettamente nella narrazione della società portata avanti dai terroristi: quella di un paese diviso in modo inconciliabile tra uno Stato borghese monoliticamente repressivo e ostile a ogni rivendicazione sociale e un’avanguardia rivoluzionaria intenta a scuotere le coscienze dei lavoratori. Tobagi, che indagava il terrorismo cercando di comprenderne le cause e le conseguenze, era per loro molto più pericoloso degli altri. Era, come disse Barbone: uno dei «più intelligenti, che con i loro articoli non avevano l’intento di insultare o aizzare, ma funzionavano come sonda all’interno della sinistra rivoluzionaria».
Tobagi era nato a Spoleto il 18 marzo del 1947. A otto anni si era trasferito a Milano con la famiglia, suo padre era un ferroviere. Iniziata la sua carriera giornalistica al liceo, nel giornalino della scuola, negli anni successivi lavorò al quotidiano socialista L’Avanti, poi a quello cattolico Avvenire (“socialista” e “cattolica” erano i due aggettivi che lui stesso usava per descrivere la sua cultura politica) per poi arrivare al Corriere della Sera.
In quegli anni si occupò soprattutto dell’eversione e del terrorismo di estrema sinistra, oltre che della contestazione politica e culturale. Raccontò la morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, a causa dell’esplosione della bomba che stava collocando su un traliccio dell’alta tensione, dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi e di quello del giudice Emilio Alessandrini. E si occupò a lungo anche di quello che era all’epoca il più organizzato e temuto gruppo terroristico d’Europa: le Brigate Rosse.
Tobagi notò come le BR e gli altri gruppi prendevano di mira soprattutto i riformisti: non i più duri nei loro confronti ma quelli che cercavano di prendere una posizione moderata e creare un dialogo tra le richieste dei movimenti di protesta e il resto della società. Per quanto questo gli facesse ritenere i gruppi terroristici particolarmente pericolosi – sosteneva che, colpendo i moderati, i terroristi rendevano la vita più facile agli estremisti anche del campo avverso – Tobagi osservò sempre con cura gli aspetti umani di quel conflitto.
Come ha ricordato Bianconi nel suo articolo per il Corriere, quando Tobagi raccontò la strage del covo di via Fracchia, una base delle BR a Genova in cui durante un’irruzione dei carabinieri furono uccisi quattro brigatisti (durante uno scontro a fuoco, secondo i carabinieri; a sangue freddo, secondo i brigatisti), si soffermò sul fatto che i vicini di casa non sembrassero troppo colpiti dalla morte di quattro ragazzi. «È come se perfino un sentimento di pietà non possa più trovar spazio», scrisse Tobagi nel suo articolo, «ed è la conseguenza più avvilente di quella strategia perversa che ha voluto puntare sulla lotta armata».
Il gruppo che lo avrebbe ucciso prese il nome proprio dall’irruzione di via Fracchia. La Brigata XXVIII marzo era stata fondata da Barbone, che aveva già militato in altri gruppi, con altri cinque membri principali. Alcuni, come lo stesso Barbone, provenivano da ambienti borghesi; altri erano studenti e figli di operai. All’epoca nessuno di loro aveva significativi contatti con le Brigate Rosse, un gruppo che si considerava esclusivo, l’élite del movimento rivoluzionario italiano. Ma con la scelta del loro nome e le azioni eclatanti che si preparavano a intraprendere, Barbone e gli altri speravano di entrare in contatto con i brigatisti e diventare parte del loro movimento.
All’inizio del mese di maggio ferirono a una gamba il giornalista di Repubblica Guido Passalaqua. Poco tempo dopo decisero di colpire più in alto. Tobagi all’epoca non era solo uno dei più noti giornalisti tra quelli che si occupavano di terrorismo, ma era anche il presidente dell’Associazione Stampa Lombarda, il sindacato regionale dei giornalisti. Da anni era considerato un possibile bersaglio dai gruppi armati. «Il suo nome», disse Barbone ai magistrati, «è circolato da sempre tra le persone da colpire».
Poco dopo aver ucciso Tobagi, la Brigata XXVIII Marzo cessò di esistere. Barbone raccontò ai magistrati: «Inizialmente ci sembrava di aver raggiunto un obiettivo, tuttavia superato questo primissimo momento si era sostituita la sensazione di totale crollo; di esserci assunti delle responsabilità, prima umane che politiche, assolutamente sproporzionate a qualsiasi tipo di logica e di giustificazione».
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Barbone venne arrestato a ottobre e iniziò subito a collaborare con i magistrati. Tutti i membri della brigata furono rapidamente arrestati. Il processo, come quasi tutti quelli che riguardarono gli “anni di piombo”, lasciò molti scontenti. Barbone fu scarcerato quasi immediatamente, grazie alla sua collaborazione, e da allora ha iniziato una nuova vita (oggi fa parte dell’associazione cattolica Comunione e Liberazione). Ancora oggi rimangono dubbi sul fatto che tutti i complici e i fiancheggiatori del gruppo siano stati arrestati e sul ruolo avuto da alcuni colleghi giornalisti di Tobagi nell’incitare verso di lui l’azione dei terroristi.
Quello su cui non ci sono dubbi è invece l’eredità lasciata da Tobagi, condivisa e oggetto di poche contestazioni, un caso raro per gli episodi e i protagonisti di quegli anni. La sua storia è stata raccontata da sua figlia Benedetta in un libro di grande successo, Come mi batte forte il tuo cuore. Come ha ricordato Mattarella, Tobagi simboleggia ancora oggi il giornalismo civico, impegnato e democratico: «Di questo», ha concluso il presidente nel suo messaggio, «abbiamo bisogno».