La storia di Curon, il paese sommerso
Nel 1950 la costruzione della diga di Resia comportò la distruzione di un piccolo paese sudtirolese: rimase in piedi soltanto il suo antico campanile, che da allora spunta dalle acque
di Pietro Cabrio
Curon è uno degli ultimi centri abitati italiani nel Sud Tirolo prima del confine austriaco. Conta poco più di duemila abitanti, al 97 per cento di madrelingua tedesca secondo un censimento condotto nel 2011 dalla provincia di Bolzano. Il paese è famoso principalmente per trovarsi lungo la via Claudia Augusta e per il suo antico campanile che spunta dalle acque del lago artificiale di Resia. Il campanile è l’unico edificio rimasto in piedi del vecchio centro abitato, sommerso interamente dalle acque del lago negli anni Cinquanta.
La distruzione della vecchia Curon, oltre ad aver creato un luogo caratteristico e unico nel suo genere, rimane un esempio del modo in cui, a cavallo tra il ventennio fascista e il dopoguerra, i grandi gruppi industriali italiani sfruttarono il bacino idroelettrico delle Alpi per sostenere la modernizzazione del paese. I modi, anche arroganti e invadenti, con cui le autorità dell’epoca si imposero nei confronti degli abitanti – spesso ignorati e maltrattati – furono sotto molti aspetti simili a quelli che pochi anni dopo, al confine tra Veneto e Friuli, causarono il disastro del Vajont.
Fino alla metà del Novecento i laghi naturali in Val Venosta erano tre, uno dopo l’altro verso il confine austriaco: il lago di San Valentino a sud, il lago di Curon nel mezzo e quello di Resia più a nord. In epoca fascista, nell’ambito di un vasto piano per l’aumento della produzione nazionale di energia elettrica, fu pianificata l’unione dei due bacini più a nord tramite la costruzione di una diga di terra che avrebbe portato la profondità del lago da 5 a 22 metri, sommergendo in questo modo il piccolo paese di Curon e una parte di Resia. Nel 1939 l’azienda Montecatini (successivamente Montedison) presentò i progetti per la costruzione della diga. In mancanza di rappresentanza politica in zona, il compito di informare la popolazione locale venne affidato a un commissario.
In quegli anni gli abitanti di Curon erano stati coinvolti nella vicenda delle “opzioni”, ovvero il sistema concordato tra Italia e Germania per risolvere la questione delle cosiddette isole linguistiche tedesche in territorio italiano. Ai curonesi fu quindi data la possibilità di scegliere tra le due cittadinanze, e di trasferirsi a seconda del loro voto. Ne seguì un periodo di tensione e forte propaganda da entrambe le parti che portò all’abbandono di circa il dieci per cento del paese. In un momento già di per sé delicato – arrivato peraltro nel pieno processo di italianizzazione del Sud Tirolo promosso dal regime fascista – la popolazione venne informata dei piani per la costruzione della diga, e la conseguente distruzione del paese, con un avviso scritto in italiano ed esposto in paese per soli sei giorni.
Nessuno lo guardò. Passati quei sei giorni il commissario riferì che nessuna obiezione era stata avanzata. La fine di Curon era stata quindi decisa senza che i suoi abitanti ne fossero al corrente. Questi se ne resero conto soltanto quando, nel 1940, arrivarono i primi espropri per pubblica utilità: espropri che in alcuni casi prevedevano rimborsi nemmeno sufficienti al trasferimento delle famiglie.
I lavori iniziarono velocemente e dietro grandi investimenti: la Seconda guerra mondiale era cominciata e il regime aveva fretta di concludere le opere strategiche più importanti. Alcuni abitanti di Curon cercarono di farsi dare spiegazioni e di parlare con gli ingegneri per capirci qualcosa, come raccontò l’ex impiegato comunale Peppi Plangger al regista austriaco Georg Lembergh, autore del documentario Il paese sommerso: «Mio zio provò una volta a parlare con il capo ingegnere Gardumi, ma tornò subito a casa e mi disse: “Ho avuto spesso a che fare con le persone, ma raramente di questa antipatia. Sono un popolo così radicale, non si fermano nemmeno quando gli si dice “scusi, vorrei dire qualcosa”. Andò avanti come se avesse il torcicollo. Se già perdi la casa e il maso e non puoi nemmeno fare una domanda… bastava una risposta”».
Come primi effetti, i cantieri tolsero all’altopiano i grandi prati che servivano per nutrire gli animali. Anche per questo molti uomini di Curon si trovarono a dover scegliere tra un futuro incerto e un posto fra i settemila operai impegnati nei cantieri che presto avrebbero distrutto il loro paese. Nel 1943 la guerra impose la sospensione dei lavori ma tre anni dopo, grazie a dei finanziamenti svizzeri che risolsero le difficoltà economiche avute dalla Montecatini, i cantieri riaprirono.
Per gli abitanti la situazione iniziò a precipitare quando, in vista della prima prova di sbarramento della diga, la Montecatini comunicò loro che avrebbero dovuto rimuovere le lapidi di marmo dal cimitero, perché questo sarebbe stato coperto da una colata di calcestruzzo. La richiesta generò le prime vere proteste, con le quali gli abitanti riuscirono a ottenere la costruzione di un nuovo cimitero come opera di compensazione. Fu l’unica concessione che ottennero: nel 1949 non vennero nemmeno avvisati della prima prova di sbarramento che portò l’acqua del lago a ridosso del paese, allagando le case più a valle.
Mentre l’acqua continuava a salire, gli indennizzi rimanevano insufficienti. Il parroco arrivò anche a chiedere un’udienza al Papa, ma col tempo si ottennero soltanto piccoli aumenti. I circa duemila abitanti di Curon dovettero arrangiarsi a trovare in fretta delle nuove sistemazioni, dato che nei primi mesi del 1950 l’acqua si ritirò e iniziò la demolizione dei circa 180 edifici del paese. Le case vennero svuotate giorno dopo giorno e gli abitanti si sparsero tra i paesi vicini, Merano, Bressanone e l’Austria. Alle famiglie che non riuscirono a trasferirsi, la Montecatini costruì delle baracche provvisorie più a monte vicino alle quali, negli anni successivi, fu costruito il nuovo paese.
Curon venne fatta saltare in aria con gli esplosivi ad eccezione del campanile romanico, sotto tutela dei beni culturali in quanto risalente al Trecento. Rimase quindi in piedi fra le rovine, le stesse che dagli anni Cinquanta si possono intravedere in primavera, quando il livello dell’acqua cala. Ma per il paese i problemi non finirono lì. Nei primi anni dopo la demolizione, le rovine riemergevano nei mesi più caldi, si seccavano sotto il sole e venivano spazzate dai forti venti della zona. Le polveri alzate finivano per riversarsi sul nuovo paese, che per questo perse molti turisti. Il problema venne risolto solo molti anni dopo con la costruzione di un piccolo bacino che mantiene tuttora un livello costante di acqua.
La scarsa importanza data alle opere di mitigazione provocò infine un grave incidente. Quando le nuove rive del lago dovevano ancora assestarsi, le strade che le percorrevano venivano danneggiate continuamente dalle infiltrazioni, come ricordano tuttora gli abitanti. Il 13 agosto 1951 un autobus di linea con a bordo 23 persone, dopo aver cercato di evitare una voragine che si era formata sulla strada, non protetta da barriere, sterzò e finì nel lago. Si salvò una sola persona, le altre morirono annegate nell’autobus sprofondato a quindici metri di profondità.
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