Nel 2010 l’Inter la combinò grossa
Prima del 22 maggio di quell'anno nessuna squadra italiana era mai riuscita a vincere tutto in una stagione: l'Inter lo fece quel giorno, a modo suo
di Pietro Cabrio
Si dice che nel calcio la tradizione conti molto e che le squadre vincono quando seguono la loro. Si dicono tante altre cose ed è vero che si vince anche in altri modi, ma è vero anche che nel 2010 l’Inter divenne campione d’Europa per la terza volta nella sua storia in maniera incredibilmente simile a come lo aveva fatto l’ultima volta, in un’altra epoca, quarantacinque anni prima.
Il 22 maggio del 2010 l’Inter vinse la Champions League battendo il Bayern Monaco nell’unico modo in cui lo aveva saputo fare nel passato: con un Moratti presidente, un allenatore speciale, una squadra di amici, un calcio tipicamente “all’italiana” – per quanto elaborato – e dopo aver battuto i migliori. Negli anni Sessanta l’Inter del “mago” Helenio Herrera fu la prima squadra italiana a vincere due Coppe dei Campioni di fila, passando alla storia come uno degli emblemi del catenaccio. Nel 2010, con José Mourinho, lo special one, divenne la prima e ancora unica italiana ad aver vinto i tre maggiori trofei in una sola stagione, impresa riuscita soltanto ad altri sei club europei.
L’Inter del 2010 nacque sei anni prima della finale di Madrid, quando l’allenatore era ancora Roberto Mancini. Venne costruita principalmente intorno a quattro giocatori: il capitano Javier Zanetti, il campione del mondo Marco Materazzi, il colombiano Ivan Cordoba e il serbo Dejan Stankovic. Nel giro di un solo anno ne vennero aggiunti quattro provenienti dal Real Madrid, due dei quali, gli argentini Esteban Cambiasso e Walter Samuel, divennero in breve tempo fondamentali. Nel 2005 arrivò dal Brasile un nuovo portiere, Julio Cesar, dopo essere passato brevemente dal Chievo Verona per questioni burocratiche.
L’attacco si sarebbe dovuto costruire attorno al brasiliano Adriano, considerato sotto molti aspetti l’erede di Ronaldo a Milano. Ma Adriano non riuscì a mantenere le aspettative dell’ambiente a causa di problemi personali sempre più difficili da gestire. Nell’estate del 2006, dopo essere uscita indenne e in un certo senso vincitrice dallo scandalo di “calciopoli”, la società approfittò delle difficoltà delle rivali per fare uno scatto in avanti, partendo proprio dal reparto offensivo. Investì tutto quello che potè e acquistò Zlatan Ibrahimovic dalla retrocessa Juventus, insieme a Patrick Vieira, e riprese Hernan Crespo dal Chelsea. Nella stessa estate un terzino brasiliano fin lì poco conosciuto, Douglas Maicon, si presentò senza tanti clamori per poi rivelarsi uno dei più grandi terzini al mondo, fra i migliori mai visti a San Siro.
Con una grande squadra di fatto senza rivali, nel 2007 l’Inter raggiunse subito il primo obiettivo: la vittoria della Scudetto che aspettava dal lontano 1989. La sua superiorità in Serie A divenne sempre più evidente e durò per anni, ma Mancini non riuscì a beneficiare di questi successi nelle competizioni europee. Le eliminazioni subite nel derby con il Milan, contro il modesto Villarreal, a Valencia con una storica rissa e poi contro un Liverpool che, nell’anno del centenario, si rivelò nettamente superiore, suggerirono alla società un cambiamento.
Quel cambiamento fu José Mourinho, carismatico allenatore portoghese divenuto famoso per essere riuscito a vincere la Champions League con il Porto nel 2004 e per aver vinto le prime due Premier League nella storia del Chelsea, subito dopo. Mourinho aveva da sempre come obiettivo la vittoria dei campionati in Inghilterra, Spagna e Italia. Dopo l’esonero al Chelsea si presentò l’occasione di allenare l’Inter, che accettò concordando personalmente con Massimo Moratti una serie di investimenti che avrebbero dovuto portare la squadra a un livello superiore.
La presidenza Moratti fece di tutto per accontentarne le richieste. Ristrutturò profondamente il centro di allenamento della Pinetina, per esempio, e investì nel mercato per comprare giocatori che però non incisero, come Ricardo Quaresma e Amantino Mancini. Nella sua prima stagione, Mourinho si affidò soprattutto ai giocatori che aveva già trovato a Milano e cercò di capire velocemente l’Inter e il calcio italiano. In seguito disse: «Trovai un campionato italiano che privilegiava gli aspetti difensivi, con modelli super difensivi ma di grande organizzazione. Volevamo vincere il campionato, ma inizialmente trovammo grandi difficoltà».
Nei primi mesi i risultati arrivarono, ma a fatica: si vociferava che Mourinho rientrasse negli spogliatoi prima di tutti gli altri per sfogarsi e prendere a calci qualsiasi cosa, tanto era insoddisfatto. Ma allo stesso tempo proteggeva la squadra attirando a sé le attenzioni dei media, cosa che regalò una serie di memorabili conferenze stampa. Quella stagione si concluse con una netta vittoria del campionato a dieci punti da Juventus e Milan. In Champions, invece, l’eliminazione agli ottavi contro il Manchester United – poi finalista a Roma – fu deludente, ma diversa da quelle subite in passato. Dopo la partita di ritorno, Mourinho disse: «Tutta Italia sarà felice perché l’Inter è stata eliminata. Ma a me non interessa, ho vinto. Se l’Inter aveva un problema con la paura di giocare in Champions, stasera ha dimostrato di non avercela più. Ci manca ancora qualcosa, ma questo lo dirò alla società».
Fu così. L’anno successivo la campagna acquisti fu imponente. Vennero acquistati Diego Milito e Thiago Motta, due giocatori internazionali rigenerati dal Genoa di Gian Piero Gasperini. Arrivarono il trequartista olandese Wesley Sneijder, scartato dal Real Madrid, e il brasiliano Lucio dal Bayern Monaco. L’operazione più grossa venne conclusa con il Barcellona campione d’Europa in carica, a cui fu dato Ibrahimovic in cambio di soldi e del centravanti camerunese Samuel Eto’o, ancora fra i migliori al mondo nel suo ruolo, ma in cattivi rapporti con il suo allenatore, Pep Guardiola.
Con una base formata da giocatori esperti, da tempo in squadra e già legati a Mourinho, l’Inter sostituì un campione dallo stile di gioco piuttosto individualista, Ibrahimovic, con uno più mobile e disponibile a mettersi al servizio della squadra. Si formò così una squadra completa in ogni ruolo, pronta a competere in tre diverse competizioni. Nei primi mesi della stagione 2009/10, tuttavia, l’Inter continuò a complicarsi la vita da sola: in un certo senso a seguire la sua tradizione. In Champions pareggiò in successione contro Rubin Kazan e Dinamo Kiev, e proprio nel ritorno a Kiev rischiò seriamente l’eliminazione ai gironi. Riuscì invece a ribaltare lo svantaggio segnando due gol rocamboleschi negli ultimi cinque minuti. Nella partita successiva perse nettamente a Barcellona, ma all’ultima giornata le bastò battere il Rubin Kazan per passare il turno.
Dopo un inizio 2010 poco brillante, una netta sconfitta subita a marzo contro il Catania fu l’occasione per Mourinho di ricompattare la squadra con una delle sue proverbiali strigliate. Materazzi ha raccontato: «Fuori sembrava un sergente cattivo, ma con noi era veramente un fratello, e un padre. Creò quell’empatia in cui nessuno si azzardava a dire o a pensare in maniera differente dal gruppo. Poi certo, quando ci si metteva era veramente un figlio di puttana allucinante, ti ammazzava. Uno degli “shampi” più incredibili che fece a tutta la squadra fu dopo Catania. Avevamo perso 3-1 e il martedì successivo dovevamo andare a Londra a giocare il ritorno degli ottavi contro il Chelsea. Da lì prendemmo il volo, diventammo imbattibili».
Nella fase a eliminazione diretta di Champions League l’Inter tirò fuori il meglio di sé. I giocatori più anziani dovevano ancora togliersi molte soddisfazioni; i nuovi acquisti, tra giocatori rilanciati e scarti di grandi club, cercavano rivincite personali. Sneijder, per esempio, avrebbe potuto giocare la finale nello stadio della squadra che lo aveva ceduto. Eto’o invece era stato ceduto in cambio di un giocatore della vecchia Inter perché così il Barcellona credeva di migliorare. Fu proprio la semifinale contro il Barcellona di Pep Guardiola e Lionel Messi, una delle squadre più forti di sempre, a dare a tutti l’idea che l’Inter, alla fine, sarebbe riuscita a rivincere la coppa.
La vittoria in rimonta per 3-1 nella partita di andata a Milano — che il Barcellona fu costretto a raggiungere in pullman dalla Spagna per l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll — fu fondamentale in vista del ritorno al Camp Nou, uno degli stadi più difficili in cui giocare, peraltro contro la squadra che stava cambiando il calcio moderno.
L’Inter riuscì a resistere barricata in difesa per oltre un’ora anche dopo l’espulsione di Thiago Motta nel primo tempo. Fu un’impresa alla quale la squadra si trovò preparata, dato che nei suoi allenamenti Mourinho insisteva molto sul gioco in condizioni di inferiorità numerica. In quella partita diede ordine di rifiutare il possesso palla per togliere al Barcellona l’uso del suo famoso pressing, e di lanciarla il più lontano possibile appena ce ne fosse stata occasione. Subì un solo gol e si qualificò alla finale giocando un calcio che a Barcellona non gradirono, tanto che a fine partita gli addetti al campo aprirono i getti d’acqua in campo per evitare i festeggiamenti dei giocatori, che invece ci ballarono attorno.
A confronto, la finale di Madrid fu una formalità. Il Bayern Monaco allenato da Louis van Gaal era sulla carta inferiore: non a caso dovette aspettare altre due finali e un altro allenatore per vincere il torneo. La partita di Madrid, in cui l’Inter non si trovò mai in situazioni di difficoltà, fu decisa da uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Milito, che in quella stagione aveva incredibilmente esordito in Champions a trent’anni compiuti. Segnò un gol per tempo e a fine partita un altro argentino, il capitano Zanetti, alzò la coppa. La giornata di Madrid si concluse con un commovente abbraccio tra Materazzi e Mourinho nel parcheggio dello stadio: l’allenatore portoghese era già in contatto con il Real Madrid e quella fu la sua ultima partita all’Inter. Il resto della squadra tornò subito a Milano, trovando almeno 40.000 tifosi in piedi dal giorno prima ad attenderla sugli spalti del Meazza, alle sei del mattino di una domenica di maggio.
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