Saremo indebitati, sarà un problema?
Quest'anno il debito pubblico italiano raggiungerà il suo record storico, ma secondo esperti ed economisti abbiamo gli strumenti per gestirlo senza che diventi un guaio
Secondo le stime ufficiali del governo, alla fine del 2020 il debito pubblico raggiungerà il suo massimo storico: oltre il 155 per cento del PIL, per un totale di quasi 2.500 miliardi di euro. Rispetto al 2019 è un aumento di quasi 20 punti percentuali. A causare questo balzo senza precedenti è stata la crisi prodotta dal coronavirus e le enormi risorse stanziate per affrontarla: ed è un dato che potrebbe peggiorare ancora, dato che l’emergenza – sia sanitaria che economica – non è finita. Stando alle stime del governo quest’anno il PIL calerà dell’8 per cento mentre il deficit – cioè i soldi che spendiamo in più di quelli che incassiamo – dovrebbe raggiungere il 10,4 per cento del PIL (questo rapporto un anno fa era all’1,6 per cento).
Ovviamente nessuno trova inopportuno che i governi spendano quanto necessario per contenere le conseguenze della pandemia, anche a costo di travolgere parametri e obiettivi economici che fino a pochi mesi fa sembravano inviolabili: ma è un fatto che tutti i soldi che uno stato prende in prestito – da chi ne acquista i titoli – andranno alla fine restituiti con gli interessi. Per questo motivo banchieri, giornalisti ed economisti esprimono da settimane la loro preoccupazione per quello che definiscono “il macigno del debito pubblico”. L’economista Lucrezia Reichlin, per esempio, ha detto a Repubblica che «non c’è da stare tranquilli»; Carlo Messina, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, la più grande banca italiana, ha detto al Sole 24 Ore che il debito pubblico sarà «il nodo cruciale» dei prossimi anni.
Il pericolo che viene paventato è quello con cui siamo diventati familiari negli ultimi anni, che oggi avrebbe conseguenze ancora più gravi: un aumento disordinato degli interessi sul debito pubblico, causato dal panico tra gli investitori che comprano e scambiano tra di loro i nostri titoli. Nel migliore dei casi, questa situazione costringerebbe il governo a tagliare la spesa e alzare le tasse per ripagare un costo del debito sempre più alto. Nel peggiore, il debito italiano diventerebbe incollocabile sui mercati – tradotto: nessuno vorrebbe prestarci soldi – e il paese entrerebbe in bancarotta.
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Nonostante le paure espresse in questi giorni, lo scenario più estremo non è ritenuto realistico. Lo spread italiano – uno dei principali indicatori della salute finanziaria di un paese – rimane considerevolmente più basso del livello toccato soltanto nel dicembre del 2018, all’epoca della legge di bilancio approvata dal governo Lega-Movimento 5 Stelle. Oggi è meno della metà di quello raggiunto alla fine del 2011 e poi toccato di nuovo nel 2012, durante i primi mesi del governo Monti. I credit default swap (CDS) sul debito italiano – titoli derivati che servono ad assicurarsi contro una bancarotta – sono aumentati: ma il premio per il rischio sul debito italiano rimane pari a quello di un anno fa, e inferiore ai picchi registrati durante la precedente crisi. Anche la Commissione Europea, nel suo ultimo report, ha confermato che il debito italiano rimane sostenibile.
Come è possibile che di fronte al record di debito più alto di sempre, la situazione finanziaria appaia così tranquilla? Una risposta non così rassicurante l’ha fornita sull’ultimo numero della rivista Il Mulino il professor Paolo Bosi, decano di Scienza delle finanze all’Università di Bologna. “Un paese può avere debito fin che vuole”, ha scritto Bosi, “se può sopportare la pressione fiscale addizionale necessaria per il pagamento degli interessi o se rinuncia a servizi pubblici”. Da oltre vent’anni l’Italia sopporta questa pressione: con pochissime eccezioni, ha sempre avuto un avanzo primario, cioè è sempre riuscita a risparmiare risorse con cui ripagare gli interessi sul debito. Allo stesso tempo, la quantità di risorse che bisognava mettere da parte non ha fatto che calare.
Nel 1992, la spesa per ripagare gli interessi era pari al 12 per cento del PIL. Nel Duemila si era ridotta alla metà e oggi si aggira intorno al 3 per cento del PIL. Il “debito record” di quest’anno porterà a un aumento di spesa per interessi pari a 1,5 miliardi di euro. Questa cifra crescerà a 7,3 miliardi nel 2021, ma rimarrà comunque un aumento contenuto se paragonato al passato. I circa 66 miliardi di euro che spenderemo in interessi nel 2020 e nel 2021 sono la terza spesa per interessi più bassa degli ultimi 20 anni e poco più della metà del record del 1997, quando spendemmo in interessi l’equivalente di 115 miliardi di euro.
Il debito record, insomma, non sembra per il momento minacciare le fondamenta del bilancio pubblico italiano. La spesa aggiuntiva per lo stato rimarrà contenuta e gli investitori per ora non sembrano così preoccupati. Per tutte queste ragioni il professor Bosi è tra quelli che, più che per un’improbabile bancarotta, si preoccupano per le azioni che i governi potrebbero essere spinti a intraprendere per contenerlo, anche senza che ce ne sia un bisogno immediato. «L’esasperata attenzione portata al debito pubblico», ha scritto, rischia di «creare più problemi di quanti ne possa risolvere».
Un esempio molto citato di questi potenziali pericoli è la risposta in Italia e in Europa alla crisi dei debiti sovrani del 2011, quando al panico tra gli investitori gli stati risposero tagliando le spese e alzando le tasse. Alla fine di quell’anno il governo Monti, subentrato all’ultimo governo Berlusconi, realizzò una manovra economica draconiana, che prevedeva 12 miliardi di tagli e 18 di aumenti di tasse. Simili ristrettezze vennero messe in atto più o meno da tutti i paesi europei.
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Oggi quelle azioni vengono giudicate da molti inutili e addirittura dannose dal punto di vista economico. Tra gli altri il Fondo Monetario Internazionale, all’epoca uno dei principali sostenitori delle politiche di austerità, ha ammesso che tagliare le spese e aumentare le tasse in tempi di crisi produce danni molto superiori a quanto precedentemente stimato. Anche i difensori dell’austerità la giustificano più dal punto di vista politico che da quello economico, sottolineando che fu un sacrificio necessario a ottenere dai governi del Nord Europa il via libera alle azioni che avrebbero portato alla stabilizzazione dei titoli di stato.
Non furono infatti le manovre di austerità a riportare la tranquillità sui mercati. Nei primi mesi del 2012, dopo l’adozione di misure di austerità in tutta Europa, gli spread tornarono a salire raggiungendo in Italia lo stesso livello che avevano toccato negli ultimi giorni del governo Berlusconi. Soltanto il famoso discorso del «whatever it takes» di Mario Draghi e le successive azioni della BCE, che iniziò ad acquistare massicciamente titoli di stato pubblici così da tenerne bassi gli interessi, riportarono la situazione alla calma.
Questo ruolo fondamentale della BCE nel proteggere i paesi economicamente più fragili dell’eurozona, come l’Italia, è stato confermato anche con la crisi causata dal coronavirus. Dopo alcune incertezze iniziali la BCE ha varato un piano straordinario da 750 miliardi di euro, il PEPP, e ha promesso di mettere in campo risorse ancora maggiori se si fosse rivelato necessario. In pochi giorni gli spread sono rapidamente tornati sotto controllo.
Per tutte queste ragioni, la parola “austerità” come soluzione all’accumularsi del debito pubblico è quasi scomparsa dal vocabolario politico. Quelli che sostengono la necessità di tranquillizzare gli investitori tagliando le pensioni e alzando le tasse sono divenuti una minoranza. Nell’ultimo documento ufficiale del governo italiano, pubblicato lo scorso aprile sul futuro dei nostri conti pubblici, il ministro Gualtieri afferma la necessità di «elaborare una strategia di rientro dall’elevato debito pubblico», ma allo stesso tempo ricorda che «l’economia avrà bisogno di un congruo periodo di rilancio durante il quale misure restrittive di politica fiscale sarebbero controproducenti».
Se riportare il debito sotto controllo con misure “lacrime e sangue” in un paese che sta attraversando la terza recessione in meno di 15 anni è politicamente impossibile, cosa altro si può fare per cercare di ridurlo? Forse nulla, almeno per il momento. È quello che ha suggerito l’ex presidente della BCE Mario Draghi in un celebre editoriale pubblicato a fine marzo sul Financial Times. «Un livello di debito pubblico molto più alto dell’attuale», ha scritto Draghi, «diventerà una caratteristica permanente delle nostre economie, e sarà accompagnato dalla cancellazione del debito privato». Anche i più “rigoristi”, scrive Draghi, dovranno accettare questa realtà: «Questo non è uno shock ciclico. La perdita di denaro e potere d’acquisto non si deve a colpe o errori delle persone che ne stanno soffrendo».
In altre parole la domanda che i governi devono porsi oggi, ha scritto lo storico dell’economia Adam Tooze, uno dei più apprezzati osservatori della situazione finanziaria internazionale, non è tanto come ripagare il debito pubblico, ma se ripagarlo sia davvero una priorità politica. Tooze non intende invitare gli stati a dichiarare bancarotta, ma piuttosto sottolinea come il ruolo crescente che hanno assunto le banche centrali abbia in parte eliminato la necessità di preoccuparsi del debito come accadeva un tempo.
La BCE, per esempio, possiede nei suoi bilanci oltre 2 mila miliardi di euro in titoli di stato di paesi dell’eurozona, una cifra vicina al totale del debito italiano. La banca si è impegnata a reinvestire tutti i titoli di questo stock che andranno a scadenza, di fatto “eliminando” una grossa fetta del debito dell’eurozona e dando ai suoi stati membri un po’ di respiro finanziario.
Visto che le banche centrali creano il denaro con cui comprano i titoli di debito pubblico, non c’è teoricamente limite alla quantità di sostegno che possono fornire in questo modo, limitando così la necessità di imporre riforme politicamente e socialmente costose. «In circostanze normali», scrive Tooze, «ci si potrebbe preoccupare dell’inflazione causata da questi acquisti. Ma con la recessione che ci prepariamo ad affrontare questo è un rischio che vale la pena correre. Anzi, una modesta inflazione ci aiuterebbe poiché ridurrebbe almeno in parte il valore reale del debito».
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Anche se le banche centrali si sono rivelate, in Europa come negli Stati Uniti, uno degli strumenti migliori per dare agli stati le risorse necessarie con cui fronteggiare le crisi, ci sarà inevitabilmente una battaglia politica su questi temi. Negli Stati Uniti la richiesta del presidente della FED affinché il governo spenda di più per fronteggiare la recessione è stata accolta dai mormorii di protesta del Partito Repubblicano, che preferirebbe contenere le spese e impedire al debito pubblico di crescere ulteriormente. In Europa i paesi del Nord si oppongono alle politiche espansive e in Germania sono numerose le forze politiche che chiedono alla BCE di limitare drasticamente il suo attivismo.
Secondo Tooze, la paura dell’inflazione è una «cugina stretta» della paura per il troppo debito: le forze conservatrici che temono l’una o l’altra sono spesso alleate nella loro battaglia per ottenere meno spesa da parte di governi e banche centrali. Ma senza il ruolo che hanno recitato fino a oggi le banche centrali, l’unica soluzione al problema del debito sarà una nuova ondata di austerità, politicamente costosa e socialmente dolorosa.