Dalle navi da crociera sono sbarcati i passeggeri, ma non gli equipaggi
Circa 100.000 persone sono a bordo delle navi su cui lavoravano, senza poter sbarcare, senza stipendio e senza sapere quando le cose miglioreranno
Nelle ultime settimane diverse inchieste giornalistiche hanno raccontato come a bordo di decine di navi da crociera in tutto il mondo ci siano ancora migliaia di persone, bloccate e senza informazioni su quando potranno tornare a casa. Sono membri degli equipaggi delle navi che, dopo aver fatto sbarcare gli ultimi passeggeri nelle settimane successive all’inizio della crisi mondiale sul coronavirus, sono stati in larga parte dimenticati. Molti di loro hanno smesso di essere pagati, tantissimi sono stati confinati in minuscole cabine senza finestre, tutto mentre si moltiplicavano i casi di coronavirus a bordo.
Il quotidiano della Florida Miami Herald, che ha pubblicato l’indagine più dettagliata sulla situazione degli equipaggi delle navi da crociera rimaste in mare negli ultimi mesi, parla di circa 100.000 persone ancora a bordo. A un numero simile era arrivata anche un’indagine del Guardian pubblicata a inizio maggio, che parlava di 93.000 persone sulle navi intorno agli Stati Uniti e di molte altre migliaia nel resto del mondo.
Le principali compagnie di crociere di tutto il mondo hanno detto di aver fatto il possibile per rimpatriare i loro dipendenti e di essere state limitate dai blocchi ai viaggi imposti da molti paesi del mondo. Molte persone sentite dai giornali hanno tuttavia raccontato di essere state di fatto dimenticate a bordo delle navi su cui lavoravano, senza ricevere informazioni su cosa sarebbe loro successo, senza stipendi e in alcuni casi dovendo anche pagare per acqua e viveri a bordo.
Già nelle prime settimane di pandemia nel mondo si era capito che le navi da crociera erano dei luoghi particolarmente pericolosi per la diffusione del coronavirus. Su ognuna possono viaggiare migliaia di persone, che passano la maggior parte del tempo in spazi chiusi e affollati, con altissimo rischio di contagio. A inizio febbraio si era parlato molto della storia della Diamond Princess, che rimase per settimane in quarantena in Giappone con quasi 4mila persone a bordo. La storia della Westerdam, da cui centinaia di persone erano state lasciate sbarcare nonostante il concreto pericolo che fossero infette, aveva contribuito a rendere i paesi di tutto il mondo molto diffidenti verso altre navi da crociera.
Tantissime di loro avevano dovuto aspettare giorni per far sbarcare i loro passeggeri e spesso le grandi società di crociere avevano dovuto fare pressioni o usare i loro contatti diplomatici per favorire il ritorno a casa dei loro clienti, fatti scendere in qualche porto del mondo a metà dei viaggi che avrebbero dovuto fare. In qualche settimana anche i casi più complicati si sono tuttavia risolti e i passeggeri sono riusciti a tornare a casa; le stesse attenzioni non sono però state dedicate alle migliaia di persone che su quelle navi ci lavoravano, nell’accoglienza dei clienti, nelle pulizie, nell’intrattenimento o impiegate nei tantissimi negozi di bordo.
Inizialmente, le grandi società di crociere pensavano che la crisi sarebbe passata in poche settimane e che già tra aprile e maggio i viaggi sarebbero ripresi con una certa regolarità. Per questo, forse, molte di loro avevano inizialmente scelto di tenere a bordo delle navi moltissimi dei loro dipendenti. Secondo il Miami Herald, solo MSC Crociere ha rimpatriato la maggior parte del suo personale (circa il 73 per cento), mentre le altre grandi società di crociere hanno tenuto a bordo più della metà dei loro equipaggi. Quando è diventato evidente che la crisi sarebbe continuata più a lungo, tantissimi paesi di tutto il mondo avevano già vietato gli ingressi dall’estero e le compagnie aeree di tutto il mondo avevano sospeso gran parte delle loro attività. Rimpatriare era diventato più costoso e più complicato.
Da quel momento, decine di migliaia di persone si sono trovate bloccate sulle navi su cui stavano lavorando, nella gran parte dei casi senza possibilità di attraccare in porto e spesso con molti casi di coronavirus a bordo. In alcuni casi, le società di crociere hanno inizialmente proposto di rinunciare ad alcune settimane di stipendio; in altre hanno chiesto ai dipendenti di accettare dei congedi non pagati in cambio della promessa di riassunzione al termine della crisi. In molti hanno tuttavia raccontato ai giornali che gli stipendi hanno smesso di arrivare o non sono ripresi quando promesso.
Qualcuno ha raccontato che i primi giorni senza passeggeri a bordo erano stati anche divertenti, quasi una vacanza: ad alcuni equipaggi era stato infatti permesso di usare le aree normalmente riservate agli ospiti, come piscine, saune e palestre. Nella maggior parte dei casi le cose sono però rapidamente cambiate. Per limitare la diffusione del coronavirus a bordo, il personale è stato costretto a rimanere in isolamento nelle cabine, solitamente molto piccole e senza finestre, a volte senza il bagno. Solo in qualche caso, dopo giorni o settimane senza poter uscire, è stato permesso il trasferimento nelle cabine vuote normalmente usate dai passeggeri, con finestre e balconi. Ma questo miglioramento non ha riguardato tutti e non è stato concesso su tutte le navi.
A chi chiedeva informazioni su quando sarebbe stato permesso il ritorno a casa, le società di crociere rispondevano con informazioni vaghe e mostrandosi poco interessate. In alcuni casi, i rimpatri venivano annunciati e poi cancellati e ci sono racconti di persone che sono state spostate da una nave all’altra, senza sapere mai esattamente cosa stesse succedendo.
Le società di crociere hanno spiegato che i rimpatri del personale non sono mai stati sospesi, ma che sono diventati molto complicati a causa delle limitazioni ai viaggi. In qualche caso, i rimpatri sono stati fatti con le stesse navi da crociera su cui si trovavano le persone da rimpatriare, che sono state quindi costrette a settimane di navigazione da un paese all’altro.
In molti casi, però, le navi da crociera sono semplicemente rimaste ormeggiate dove si trovavano o hanno continuato a navigare rientrando in porto solo per ricevere provviste e carburante. Il Centers for Disease Control and Prevention, l’agenzia degli Stati Uniti che si occupa tra le altre cose di malattie infettive, ha detto al Guardian che alcune compagnie hanno scelto di non fare sbarcare il personale per via dei costi troppo alti per il rimpatrio e per il timore di cause legali legate a casi di coronavirus.
A metà maggio, un gruppo di lavoratori rumeni della Navigator of the Seas, una nave da crociera della Royal Caribbean, hanno cominciato uno sciopero della fame per ottenere di poter sbarcare. Solo a quel punto, la compagnia ha organizzato un volo charter per il rimpatrio dei suoi dipendenti. Due settimane fa, la polizia tedesca era intervenuta per delle proteste a bordo della Mein Schiff 3, una nave da crociera della compagnia TUI Cruises su cui erano stati trasferiti circa 3.000 membri dell’equipaggio di altre navi in attesa di sbarcare. Le proteste erano cominciate quando l’ordine di sbarco era stato cancellato dopo che erano stati confermati nove casi di coronavirus a bordo.