Le misure adottate nel mondo per lavoratori e famiglie
La crisi economica causata dal coronavirus rischia di causare milioni di nuovi poveri: il confronto tra quello che si sta facendo per evitarlo
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che in tutto il mondo il 37,5 per cento dei lavoratori sia occupato in settori che corrono il rischio di non riprendersi più dalla crisi dovuta alla pandemia da coronavirus, e stima che nel secondo trimestre del 2020 saranno persi nel mondo almeno 305 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Secondo uno studio dell’ONG Oxfam, nei prossimi mesi in tutto il mondo oltre mezzo miliardo di persone potrebbe finire in povertà assoluta a causa della crisi.
In Europa e negli Stati Uniti, così come in gran parte del resto del mondo, i governi sono intervenuti spendendo cifre senza precedenti per cercare di mitigare questo impatto. Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato un elenco con le principali misure adottate in tutto il mondo; il centro studi Bruegel ne ha realizzato uno ancora più dettagliato con gli aiuti decisi dai paesi europei.
Come per le misure destinate alle imprese, anche quelle destinate a famiglie e lavoratori sono in buona parte simili tra un paese e l’altro. Lo strumento principale, utilizzato soprattutto in Europa, è un equivalente della nostra cassa integrazione: un sussidio statale destinato alle imprese con cui pagare una parte degli stipendi dei lavoratori lasciati a casa o che lavorano a orario ridotto.
Oggi però sempre più lavoratori hanno impieghi atipici o precari, che sfuggono a questo tipo di sussidi. Anche se gli stati hanno introdotto varie forme di aiuti mirati per cercare di raggiungere anche loro, le misure di sussidio universali proposte con sempre più frequenza da attivisti ed economisti rimangono ancora lontane.
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Gli aiuti ai lavoratori dipendenti
La categoria che è più facile aiutare per qualsiasi governo è quella dei lavoratori regolarmente impiegati in un’azienda: è nei loro confronti che, quasi ovunque, si sono concentrati i maggiori sforzi. In Europa i governi hanno cercato di evitare licenziamenti di massa fornendo alle imprese il denaro necessario con cui continuare a pagare gli stipendi, anche quando le aziende erano chiuse o operavano a regime ridotto. I programmi già esistenti – come la cassa integrazione in Italia e il Kurzarbeit in Germania e Austria – sono stati ampliati, mentre molti paesi che non ne erano dotati li hanno introdotti rapidamente.
In Germania il Kurzarbeit, che significa “lavoro ridotto”, è stato richiesto in varie forme (può essere usato sia per una riduzione dell’orario che per una sospensione totale del lavoro) da oltre 10 milioni di lavoratori. Nel 2009, al picco della crisi finanziaria, a richiederlo erano stati solo 1,4 milioni. Con la pandemia il governo ha abbassato i requisiti necessari per richiederlo e allargato l’entità del sussidio, che prima ammontava al 60 per cento dello stipendio originale, mentre oggi può arrivare fino all’80 per cento (e fino all’87 per cento per chi ha figli). Questo programma è stato finanziato fino alla fine dell’anno.
La Danimarca è uno dei paesi europei che non possedevano strumenti simili alla cassa integrazione, ma li ha introdotti all’inizio della crisi. Dalla prima settimana di marzo e fino al mese di luglio i dipendenti danesi lasciati temporaneamente a casa dalle loro imprese ricevono dallo stato un assegno pari al 75 per cento del loro stipendio, fino a un massimo di circa 3 mila euro.
In Francia, il paese economicamente più colpito al momento, il chômage partiel – che garantisce ai lavoratori l’84 per cento della loro remunerazione netta – è stato richiesto da 12 milioni di lavoratori ed è finanziato con 24 miliardi di euro, 16 forniti direttamente dallo stato e il resto da una forma di assicurazione obbligatoria. Ma durerà soltanto fino a giugno: dopo quella data, le imprese che lasceranno a casa i propri dipendenti dovranno contribuire con percentuali crescenti al sussidio (tranne che nei settori più colpiti, come il turismo).
L’Italia, dove la cassa integrazione permette di mantenere l’80 per cento del proprio stipendio, è stata richiesta per 7,2 milioni di lavoratori, un numero più basso rispetto sia a Germania e Francia che al Regno Unito, dove attualmente il sussidio è percepito da 7,5 milioni di lavoratori (un indicatore, probabilmente, di come nel nostro paese molti occupati siano in posizioni precarie e non subordinate, piuttosto che un segno di come la crisi abbia risparmiato il nostro paese). La durata della cassa integrazione italiana è stata recentemente allungata e supera le equivalenti francesi e britanniche: attualmente sono finanziate 18 settimane, di cui 14 tra marzo e agosto e le restanti quattro tra settembre e ottobre.
In molti paesi l’enorme mole di richieste di questi strumenti e la scarsa preparazione delle agenzie incaricate di gestirli ha prodotto ritardi e altri problemi. In Belgio, per esempio, i sindacati hanno ricevuto migliaia di lamentele per i ritardi nella distribuzione del chômage partiel, la cassa integrazione locale, molto simile a quella francese.
In Italia circa un terzo delle richieste di cassa integrazione non è ancora stato pagato e ci sono stati particolari problemi con la cassa integrazione in deroga, le cui procedure, che coinvolgono anche le regioni, si sono dimostrate particolarmente farraginose. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ammesso le difficoltà e ha annunciato una semplificazione nella sua erogazione all’interno del cosiddetto “decreto rilancio“, l’ultimo intervento economico per contrastare l’epidemia.
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Un sistema completamente diverso è stato invece utilizzato negli Stati Uniti, dove non esiste una tradizione di uno strumento simile alla cassa integrazione. Per evitare licenziamenti di massa, il governo ha messo in campo uno strumento un po’ meno “raffinato”: invece di versare alle aziende – o direttamente ai dipendenti – quanto strettamente necessario a continuare a pagare gli stipendi, le piccole e medie imprese americane hanno avuto accesso a una serie di prestiti a breve termine (che durano circa un anno) erogati dal governo federale. Alla scadenza del prestito, le imprese che hanno mantenuto almeno il 90 per cento dei loro dipendenti non dovranno restituire i prestiti. Negli Stati Uniti poi oltre 20 milioni di persone stanno percependo un sussidio di disoccupazione.
Gli aiuti per gli altri lavoratori
La categoria che si trova al momento in maggiore difficoltà è quella dei lavoratori autonomi, composta da professionisti e lavoratori indipendenti, spesso con contratti precari. È un gruppo molto vario e per questa ragione spesso difficile da raggiungere con aiuti mirati: quasi ovunque è questo settore quello in cui i governi hanno avuto più difficoltà a intervenire. Le strade che hanno seguito sono state principalmente due: aiutare gli autonomi versando loro un sussidio calcolato sui loro guadagni perduti, oppure fornire a tutti un sussidio più o meno fisso.
In paesi come Danimarca e Germania è stata scelta la prima strada, con un sussidio parametrato al fatturato perso dal lavoratore autonomo, artigiano o professionista. In Germania i dettagli della modalità di erogazione e dell’entità del sussidio sono stati decisi dai singoli governi regionali. Quello di Berlino è stato uno dei più efficenti: i pagamenti, che possono arrivare fino ad alcune migliaia di euro, sono stati effettuati molto rapidamente. In altre regioni invece la situazione è più complessa, e rimangono comunque alcune categorie non coperte da questo tipo di aiuti.
In Francia e in Italia si è scelta invece la strada di un sussidio fisso, erogato a precise condizioni. In Francia ammonta a 1.500 euro, che per le imprese individuali può essere aumentato di altri 2 mila euro dai governi regionali (ma mentre la prima cifra arriva di solito rapidamente, per l’integrazione regionale c’è bisogno di compilare parecchi moduli).
In Italia da marzo è stato introdotto un sussidio destinato ai lavoratori autonomi, che in buona parte sono detentori di partite IVA (ma che è destinato anche alle altre tipologie di lavoratori autonomi). Il sussidio è piuttosto esiguo per gli standard dei grandi paesi europei: 600 euro nei mesi di marzo ed aprile per quasi tutte le categorie che ne hanno diritto. Il cosiddetto “decreto rilancio” ha prorogato il bonus e ne ha diversificato l’importo a seconda dell’occupazione, includendo anche alcune figure che fino a oggi ne erano escluse. Da maggio il suo importo per alcune categorie potrà arrivare fino a 1.000 euro.
E il reddito di quarantena?
Nonostante i sussidi simili alla cassa integrazione e quelli destinati alle varie tipologie di lavoratori autonomi e atipici coprano gran parte della popolazione che ha perso tutto o parte del proprio reddito a causa della crisi, ci sono comunque ampie fasce della popolazione che rimangono scoperte. Questo è vero soprattutto per i paesi, come l’Italia, che hanno un elevato numero di lavoratori in nero o un mercato del lavoro molto frammentato, fatto di numerose tipologie di contratti diversi, in cui è facile che una categoria in particolare sfugga ai sussidi mirati.
Per queste ragioni numerosi economisti e attivisti hanno suggerito di approfittare della crisi per introdurre un “reddito di quarantena”, un sussidio universale, destinato a tutti o quasi i residenti di un paese, simile all’universal basic income, il reddito di base universale. Questo tipo di sussidio è particolarmente attraente per via della sua semplicità: una volta determinati i requisiti di chi ne ha diritto, viene elargito immediatamente a tutti, senza bisogno di complicate procedure burocratiche o di creare nuovi strumenti che prendano di mira specifiche categorie rischiando di tenerne fuori altre. Secondo alcuni economisti, inoltre, se il reddito di base dovesse sostituire le altre forme di sussidio, il risultato potrebbe persino essere un risparmio per i governi.
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Quasi tutti gli stati europei colpiti dalla crisi hanno ampliato e ridotto i requisiti per accedere alle varie forme di sussidi di disoccupazione di cui già dispongono, anche se nessuno si è avvicinato a introdurre qualcosa che per dimensioni e scopo si avvicina a un reddito di base. Il governo danese, per esempio, ha stabilito che durante la crisi i percettori del sussidio non dovranno più necessariamente accettare proposte di lavoro, partecipare a corsi e colloqui, mentre anche coloro a cui il sussidio è scaduto continueranno a riceverlo.
In Italia il “decreto rilancio” ha affiancato al reddito di cittadinanza (che è abbastanza farraginoso e complicato da ottenere) un nuovo “reddito di emergenza”, che funziona in maniera simile ma serve a coprire le categorie di persone in difficoltà lasciate finora scoperte (in particolare gli stranieri residenti, in gran parte esclusi dal reddito di cittadinanza).
Sul reddito di quarantena, però, qualcosa si è mosso anche al di fuori dei dibattiti accademici, anche se sembra presto per immaginarne un’introduzione su vasta scala e per lungo tempo. Il governo del Giappone, come aveva già fatto durante la crisi del 2009, ha distribuito a tutti i suoi cittadini e praticamente senza condizioni un sussidio di circa 100 dollari al mese per la durata della crisi. Il governo degli Stati Uniti è stato più ambizioso e ha distribuito una tantum un assegno da 1.200 dollari, più 500 per ogni figlio (che scende con il crescere del reddito) a tutti i residenti del paese. Anche se non è un vero e proprio “reddito di quarantena”, è di sicuro la cosa che finora gli si è più avvicinata in tutto il mondo.