Il governo ha cambiato il codice della strada per favorire le bici
Nel nuovo decreto ci sono due nuovi strumenti che presto potremmo vedere in città: le corsie ciclabili e le "case avanzate"
di Luca Misculin
L’articolo 232 del cosiddetto “decreto rilancio”, che dovrebbe essere pubblicato nelle prossime ore sulla Gazzetta Ufficiale, contiene diverse misure per incoraggiare l’utilizzo di mezzi di trasporto più sostenibili: un’esigenza diventata ancora più urgente dopo l’allentamento delle restrizioni contro il coronavirus, che rischiano di rendere le città più trafficate di prima vista la riduzione della capienza dei mezzi pubblici.
Oltre a un consistente “bonus bici” per l’acquisto di biciclette, monopattini elettrici e segway, il decreto prevede anche alcune modifiche del codice della strada che dovrebbero rendere più facile ai comuni sottrarre spazio alle automobili per darlo alle biciclette: uno dei metodi più citati dagli esperti per ridurre lo smog e ripensare gli spazi pubblici in modo più inclusivo.
Le modifiche prevedono l’introduzione nel codice della strada, cioè nel decreto legislativo 285 del 1992, dei concetti di “corsia ciclabile” e “casa avanzata”: due strumenti utilizzati in combinazione fra loro in alcune città europee per modificare radicalmente la strada con tempi e costi praticamente nulli e risultati molto significativi.
– Leggi anche: Il piano di Milano per favorire l’uso delle bici
La corsia ciclabile
Il comma 3 lettera a dell’articolo 232 del “decreto rilancio” prevede che all’articolo 3 del codice della strada, che elenca gli elementi realizzabili in una strada, venga aggiunta anche la “corsia ciclabile”, «una parte longitudinale della carreggiata, posta a destra, delimitata mediante una striscia bianca discontinua, valicabile e ad uso promiscuo, idonea a permettere la circolazione sulle strade urbane dei velocipedi nello stesso senso di marcia degli altri veicoli e contraddistinta dal simbolo del velocipede».
È una definizione piuttosto contorta per descrivere lo spazio ricavato per le biciclette sul lato destro della corsia di una strada urbana, pitturato con la vernice. Una definizione simile si trova anche in un decreto ministeriale del 2000 che regola la costruzione di piste ciclabili, in cui le corsie ciclabili vengono definite “corsie riservate”.
Le corsie previste nel 2000 erano leggermente diverse: non prevedevano la linea discontinua, che permette di affiancare alla corsia un parcheggio, e dovevano essere ampie almeno 1,5 metri, cosa che impediva la loro realizzazione nelle strade più strette. In assenza di norme aggiornate, inoltre, venivano costruite soltanto delle amministrazioni più creative come quella di Reggio Emilia, in Emilia-Romagna. «Molti tecnici hanno timore di costruire cose del genere finché non esce una norma chiara che lo consente», spiega Matteo Dondé, architetto e urbanista che si occupa di mobilità ciclistica.
In un primo momento il governo aveva ipotizzato di rendere disponibili le corsie ciclabili anche alle moto, cosa che aveva attirato le proteste dei gruppi di pressione dei ciclisti. Nel documento finale le corsie sono destinate ai «velocipedi», un’espressione con cui il codice della strada identifica biciclette e simili.
Il governo non aveva inventato niente, nemmeno nel 2000. Le corsie ciclabili sono da anni uno degli strumenti più rapidi ed economici per realizzare uno spazio sicuro riservato ai ciclisti in modo da proteggerli dal traffico dei veicoli a motore. Come diversi esperimenti dell’urbanismo tattico, che prevede interventi temporanei sullo spazio pubblico con mezzi di fortuna, erano nate in un contesto informale e di protesta per poi essere adottate via via dalle autorità locali, anche in Italia.
– Leggi anche: Cos’è l’urbanismo tattico
Il fatto che vengano realizzate in breve tempo e con pochi tratti di vernice induce alcuni a ritenerle meno sicure rispetto alle piste ciclabili vere e proprie. In realtà, secondo Dondé sono addirittura più sicure di alcuni tipi di pista.
«In tutta Europa vengono costruite in maniera definitiva», spiega Dondé. «Da noi alcuni le percepiscono come pericolose, ma i dati ci dicono che sono molto più sicure delle piste realizzate sul marciapiede». Sono quelle che vanno per la maggiore in Italia, dove poche amministrazioni locali approvano misure potenzialmente impopolari come la sottrazione di corsie di marcia e parcheggi per fare spazio ai ciclisti. Nel 2019 a Berlino, dove la maggior parte dei percorsi ciclabili è fatto di corsie ciclabili, i ciclisti morti negli incidenti stradali sono stati 6. A Milano ogni anno ne muoiono circa una cinquantina, secondo i dati più recenti.
Oltre ai tempi e costi ridotti, un importante aspetto positivo della corsia ciclabile è infatti la maggiore visibilità del ciclista. Secondo alcuni esperti di mobilità sostenibile, gli automobilisti tendono a percepire i percorsi ciclo-pedonali e le piste ciclabili come elementi separati dal resto della carreggiata: di conseguenza prestano loro meno attenzione. Se invece le biciclette corrono al lato della strada, quindi paradossalmente più vicine alle auto, «il ciclista viene posto all’attenzione dell’automobilista», spiega Luca Studer, che insegna Circolazione e sicurezza stradale al Politecnico di Milano.
Lo svantaggio principale, percepito soprattutto da chi le utilizza, è che l’assenza di barriere di separazione espone comunque il ciclista alle manovre spericolate delle auto e delle moto, al parcheggio irregolare dei veicoli sul tracciato, e all’apertura degli sportelli delle auto in sosta regolare. Alcuni di questi rischi si possono ridurre con soluzioni strutturali, per esempio lasciando mezzo metro di spazio ulteriore fra la corsia e le auto parcheggiate; altri vanno eliminati con la consuetudine, la prudenza, e l’applicazione delle regole da parte dell’autorità. «Se le usano anche i motorini siamo punto e a capo», sintetizza Studer.
Negli ultimi mesi la pandemia da coronavirus ha imposto il tema della costruzione di corsie ciclabili in molte città del mondo. Londra ne ha già moltissime e ne sta progettando altre, così come Parigi, mentre Bogotà ne ha realizzate alcune attive soltanto durante le ore di punta.
Anche le città italiane si stanno attrezzando. Milano ne ha costruita una in centro che collega Corso Venezia e Corso Buenos Aires, e ne ha annunciate diverse altre. Nuove corsie ciclabili sono state aperte a Roma, Firenze e Genova, fra le altre. I lavori sono iniziati soltanto di recente, dopo che il ministro Paola De Micheli aveva rassicurato le amministrazioni locali sulla regolarizzazione di strumenti del genere: oltre alla discreta impopolarità di togliere spazio al parcheggio o alla carreggiata e ai rigidi criteri previsti dalla legge del 2000, prima della pandemia i tecnici comunali erano restii a realizzare corsie ciclabili per il timore di uscire dal perimetro della legge.
Rimane l’impressione che molte amministrazioni italiane le stiano vivendo come un esperimento. Se funzioneranno, verranno mantenute. Altrimenti, per cancellarle basterà una mano di vernice nera. Secondo Studer, la cartina al tornasole delle corsie ciclabili saranno i loro frequentatori: «se le utilizzeranno anche i bambini e le persone che oggi non si sentono protette, la corsia ciclabile avrà funzionato».
La casa avanzata
L’altra novità che il “decreto rilancio” ha inserito nel codice della strada è la cosiddetta “casa avanzata”, ancora meno nota in Italia. Il decreto la definisce «una linea di arresto per le biciclette in posizione avanzata rispetto alla linea di arresto per tutti gli altri veicoli». In sostanza, parliamo di uno spazio riservato ai ciclisti negli incroci regolati dai semafori.
Il comma 3 lettera b contiene altre indicazioni: la casa avanzata dev’essere «posta a una distanza pari almeno a 3 metri rispetto alla linea di arresto stabilita per il flusso veicolare», e riservata esclusivamente alle biciclette. Funzionerà più o meno come nel video qui sotto, realizzato nel Regno Unito (quindi con la guida al contrario): in corrispondenza di un semaforo i ciclisti hanno a disposizione un corridoio per superare le auto e disporsi davanti a loro nella casa. In questo modo respirano meno smog e sono decisamente più visibili per gli automobilisti in coda.
Per alcuni, intervenire sugli incroci era necessario: secondo i dati della Commissione Europea aggiornati al 2018, un omicidio stradale su cinque avviene a un incrocio. La casa avanzata è una soluzione per rendere più sicuro il passaggio dei ciclisti, ma secondo Dondé la sua utilità effettiva varia da paese a paese.
Si adatta molto bene in città come Berlino, dove ci sono molte corsie ciclabili – e quindi ha avuto senso, per il governo italiano, promuoverle entrambe – e i ciclisti hanno a disposizione un semaforo apposito che li fa ripartire prima delle auto. Funzionerebbe meno bene a Copenhagen, dove i tracciati per ciclisti sono su pista e hanno attraversamenti separati rispetto alla carreggiata. Per usare una casa avanzata, i ciclisti dovrebbero uscire dalla pista ciclabile, attraversare l’incrocio e tornare sulla pista ciclabile: un rischio inutile.
In Italia le piste ciclabili corrono spesso sul marciapiede o in una parte della strada separata rispetto alla carreggiata. Almeno finché le corsie ciclabili non saranno diffuse un po’ ovunque, le case avanzate «sono utili ma non strategiche», sintetizza Dondé.
– Leggi anche: Cose da sapere per acquistare una bicicletta con pedalata assistita
Cosa resta fuori
Secondo gli esperti di mobilità ciclistica le misure del governo sono un passo nella giusta direzione, ma assai timido. Gli urbanisti e i gruppi di pressioni dei ciclisti avanzano da anni diverse altre proposte più ambiziose, alcune delle quali erano state raccolte dall’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) in un documento proposto al governo in vista del “decreto rilancio”.
Il documento dell’ANCI chiedeva sia le corsie ciclabili (chiamate col nome inglese, bike lane) sia la casa avanzata, ma anche strumenti migliori per la moderazione del traffico automobilistico, corsie preferenziali riservate soltanto a mezzi pubblici e bici, limitazioni per le strade nei pressi delle scuole, e soprattutto il doppio senso ciclabile, una battaglia storica dei ciclisti italiani.
La proposta prevede di permettere alle biciclette di attraversare in controsenso le strade urbane in cui le auto non possono circolare a più di 30 chilometri all’ora, e che il permesso sia segnalato con appositi cartelli. L’idea è che sapendo che i ciclisti possono usare la strada anche controsenso, gli automobilisti prestino maggiore attenzione alla loro presenza, e procedano più lentamente.
Nei Paesi Bassi, in Danimarca e in alcune città tedesche il doppio senso ciclabile è stato introdotto da tempo, senza particolari controindicazioni. «La battaglia per introdurlo in Italia c’era già stata e il Ministero dei Trasporti aveva già detto di no: probabilmente i dubbi e le perplessità permangono», dice Studer.
Sia Studer sia Dondé insistono molto sul fatto che accanto all’aggiornamento del codice della strada per includere nuovi strumenti per i ciclisti, il governo e le autorità locali dovrebbero promuovere misure più comprensive per scoraggiare gli spostamenti in auto e promuovere quelli in bicicletta.
«Moltissime amministrazioni al mondo stanno lavorando per arrivare a una città post-macchine», ha spiegato qualche tempo fa al Post Paola Pucci, che insegna Design degli spazi pubblici al Politecnico di Milano. «Significa una città più sostenibile ma anche più equa e accessibile, che consente a tutti di avere spazi in cui potersi muovere e servizi essenziali di prossimità». Pucci notava che l’amministrazione di Milano ha esplicitamente l’obiettivo di garantire servizi essenziali a tutti i cittadini entro 15 minuti a piedi, in modo che l’automobile sia utilizzata il meno possibile e che le persone siano incoraggiate a muoversi a piedi o in bici, avviando un circolo virtuoso.
Meno auto significa meno inquinamento, più acquisti nei negozi di quartiere, più attività fisica, più attenzione agli spazi comuni (perché più frequentati) e molte altre conseguenze desiderabili.
Una strumento a breve termine e basso costo per incentivare l’uso della bicicletta nella città, a fianco della costruzione delle corsie ciclabili, è la realizzazione di molte zone-30, dove le auto possono circolare soltanto a 30 chilometri all’ora. È una soluzione adottata in molte città del Nord Europa, dove ha funzionato: per vederla qui da noi, spiega Dondé, servirebbe un po’ di coraggio da parte delle amministrazioni locali e qualche strumento legislativo in più, come la possibilità di piazzare gli autovelox anche sulle strade a basso scorrimento.
Studer propone invece di cambiare nome alle zone-30, per promuovere un’idea diversa di città: «le amministrazioni dovrebbero fare intuire i benefici della misura e spiegare che non si limitano a piazzare un vigile che fa le multe. Il nome zone-30 contiene un limite, vuol dire che devi andare piano: se si chiamassero “strade condivise”, si capirebbe che significa “ci stiamo tutti”».