In un campo profughi di rohingya del Bangladesh, una persona è risultata positiva al coronavirus
Una persona di etnia rohingya che vive in uno dei più grandi campi profughi del Bangladesh è risultata positiva al coronavirus. Altri 1.900 rifugiati, dice BBC, si trovano ora in isolamento per essere sottoposti ai test. Inizialmente era circolata la notizia di due rohingya risultati positivi, come dichiarato dal coordinatore sanitario locale Abu Toha Bhuiyan. Dopodiché l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto sapere che un caso riguarda un uomo di etnia rohingya all’interno del campo, e l’altro un residente che vive vicino al campo.
Nella provincia di Cox’s Bazar, una città costiera del Bangladesh, vivono circa un milione di rohingya, scappati dal Myanmar dopo decenni di violenze e persecuzioni.
Da settimane, le agenzie umanitarie temono il diffondersi dei contagi all’interno di questi campi sovraffollati dove i rifugiati vivono in pessime condizioni igieniche e con un accesso limitato all’acqua potabile. «Ora che il virus è entrato nel più grande insediamento di rifugiati del mondo a Cox’s Bazar, stiamo assistendo alla possibilità molto reale che migliaia di persone possano morire a causa della COVID-19», ha detto Shamim Jahan, direttore sanitario di Save the Children in Bangladesh: «Questa pandemia potrebbe riportare il Bangladesh indietro di decenni».
I rohingya sono un grande gruppo etnico di religione musulmana, le cui comunità si trovano per lo più in Bangladesh e in Myanmar. La fase più violenta della persecuzione dei rohingya in Myanmar iniziò tre anni fa, quando l’esercito birmano cominciò una serie di operazioni militari che comportò tra le altre cose stupri sistematici contro le donne rohingya e l’uccisione di moltissime persone. Centinaia di migliaia di persone scapparono nel vicino Bangladesh, dove vivono ancora oggi in campi profughi per lo più improvvisati. La situazione di questi campi è peggiorata ulteriormente con l’epidemia da coronavirus, che ha spinto il governo del Bangladesh a vietare alla maggior parte degli operatori umanitari di continuare ad assistere i profughi.