Dodici grandi canzoni di Stevie Wonder

Quelle con gli attacchi formidabili e quelle da accendini e balli lenti: da riascoltare oggi che compie 70 anni

(Getty Images)
(Getty Images)

Stevland Hardaway Judkins nacque a Saginaw, in Michigan, il 3 maggio 1950. Ci mise poco a farsi chiamare Stevie Wonder: arrivò in cima alla classifica di Billboard a tredici anni. Oggi ne compie 70. Queste sono le sue dodici grandi canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il libro Playlist, la musica è cambiata.

I was made to love her
(I was made to love her, 1967)
La scrisse assieme alla mamma e la portò al numero due in classifica che ancora non aveva diciassette anni (il suo primo numero uno l’aveva fatto a 13: ormai era navigato). Nello stesso anno la incisero anche i Beach Boys.

I’d cry
(I was made to love her, 1967)
“I’d cry” è una festa allegra – malgrado il titolo e il testo: lui minaccia di piangere se lei lo lascia – che gira intorno a un circo di fiati e meriterebbe maggior fama, da piazzarlo tra le cose più note di Wonder.

Superstition
(Talking book, 1972)
Che la superstizione sia drammaticamente contagiosa lo dimostrano le parole dell’autore, che per spiegare la sua critica ai superstiziosi, sostenne che “la cosa peggiore è che più sei superstizioso più ti capitano cose brutte”. L’aveva scritta per Jeff Beck, ma poi ci lavorò ancora e incise la sua versione, pubblicandola un mese prima di quella di Beck, che non fu contento. Fu eseguita per la prima volta dal vivo durante un leggendario tour di Wonder con i Rolling Stones. L’attacco è un missile, comunque.

I believe (When I fall in love it will be forever)
(Talking book, 1972)
Accendini, e si dondola.

Living for the city
(Innervisions, 1973)
Fatica, violenza, povertà, discriminazione, e coraggio, dignità, tenacia dei neri d’America. Metà cantata, metà recitata, arrangiamento formidabile.

Don’t you worry ‘bout a thing
(Innervisions, 1973)
Ritmetto festaiolo e raccomandazione di non preoccuparsi di niente: ridivenne famoso e ballatissimo anni dopo nella cover degli inglesi Incognito.

Joy inside my tears
(Songs in the key of life, 1976)
Songs in the key of life è considerato uno dei più grandi dischi di tutti i tempi (il settimo, nella classifica del canale televisivo VH1, concorrente americano di MTV). Doppio LP, Wonder ci tirò dentro Herbie Hancock, George Benson, e Michael Sembello (quello di “Maniac”, già). “Joy inside my tears” è una stupenda ballatona che si trascina appassionata per minuti e minuti.

Sir Duke
(Songs in the key of life, 1976)
Ancora una volta un buon incipit è metà dell’opera: questo è immortale. Le trombe sono Steve Madaio e Raymond Maldonado, che dopo potrebbero anche aver venduto gelati per il resto della loro vita (ma fate caso anche alla flemma ironica del batterista Raymond Pounds, mentre quelli impazzano). “The king of all Sir Duke” è Duke Ellington (“Sir Duke” è il nome di un suo disco del 1946).

Isn’t she lovely
(Songs in the key of life, 1976)
Il concorso per la migliore canzone in festeggiamento della nascita di un proprio bambino (a cui partecipano Jovanotti e molti altri) è stravinto da Stevie Wonder. Lei è Aisha, “less than one minute old”: grande ritmo, e ci sta anche il vagito finale che sarebbe stato imbarazzante in qualsiasi altro luogo.

Happy birthday
(Hotter than july, 1980)
Il festeggiato è Martin Luther King, postumamente. Stevie Wonder scrisse la canzone per la campagna per proclamare festa nazionale la data di nascita – 15 gennaio – del leader dei diritti dei neri (fu poi sancita nel 1983). Ciò che venne fuori fu un’allegra canzonetta di auguri.

Part-time lover
(In square circle, 1985)
“I’ve got some things that I must tell”: il guaio con questa canzone è che una volta ne ho ascoltata una versione in una discoteca di Cortina in cui il giro iniziale era ripetuto in loop per un minuto buono, ed era uno spasso. A questo punto delle mie disperate ricerche mi sono rassegnato a che fosse un’invenzione artigianale del deejay, inedita.

Chemical love
( Jungle fever, 1991)
Una delle canzoni di Wonder per la colonna sonora di Jungle fever di Spike Lee, ha un gran ritmo e se la prende con il consumo di certe cose chimiche.