Il coronavirus tra le scimmie
Le principali riserve di scimpanzé e gorilla stanno cercando di proteggerli dalla pandemia, che potrebbe decimare le loro popolazioni già a rischio
I virus che causano infezioni respiratorie negli esseri umani, come l’attuale coronavirus, possono essere responsabili di pericolose epidemie nelle popolazioni di scimmie e causare la morte di molti esemplari. Anche per questo motivo negli ultimi mesi le principali riserve naturali di primati si sono attrezzate per ridurre i contatti tra i loro ospiti e gli esseri umani, con l’obiettivo di ridurre il rischio di contagi che potrebbero finire rapidamente fuori controllo causando la morte di centinaia di scimmie, soprattutto tra le specie più esposte al rischio di estinzione.
Il coronavirus SARS-CoV-2 sfrutta una proteina (ACE2) sulla superficie delle membrane cellulari per eludere le difese delle cellule, iniettando il suo codice genetico (RNA) al loro interno e sfruttandone poi i meccanismi per replicarsi e infettare altre cellule. L’ACE2 in molte specie di primati è identico a quello degli esseri umani, e potrebbe quindi favorire una diffusione del coronavirus anche tra questi animali. La corrispondenza è stata segnalata da uno studio preliminare (quindi in attesa di ulteriori verifiche) pubblicato a inizio aprile su bioRxiv, un archivio online per la diffusione e la condivisione delle ricerche scientifiche prima della loro eventuale pubblicazione sulle riviste di settore, dopo essere state sottoposte a controlli più accurati.
Come segnala il sito di Science, diversi studiosi dei primati (“primatologi”) ritengono che se il coronavirus riuscisse a introdursi tra le comunità di scimmie sarebbe pressoché impossibile fermarlo. I primati non umani non potrebbero praticare in autonomia il distanziamento fisico, né sarebbe praticabile isolare i membri delle loro comunità. Se si ammalassero, sarebbe inoltre molto più difficile trattare i sintomi o fornire soluzioni estreme, come l’intubazione nel caso di gravi sindromi respiratorie. Senza contare che le riserve coprono quasi sempre centinaia di chilometri quadrati e molte comunità di primati vivono in aree difficili da raggiungere.
I precedenti sulle infezioni virali tra le scimmie causate dagli esseri umani non sono inoltre incoraggianti. Circa sette anni fa, un virus che causa infezioni respiratorie si diffuse tra i 56 scimpanzé della comunità Kanyawara nel Parco Nazionale di Kibale in Uganda. Stando ai censimenti condotti all’epoca, almeno 40 scimpanzé si ammalarono dopo il contagio e cinque morirono a causa della malattia. I naturalisti osservarono, senza risorse per potere intervenire, come diversi esemplari fossero diventati apatici, con una tosse costante e difficoltà a respirare.
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I ricercatori prelevarono campioni dal corpo di uno scimpanzé di pochi mesi morto a causa della malattia, rilevando tracce del Rhinovirus C, un virus che negli esseri umani causa i sintomi del comune raffreddore. Non fu possibile ricostruire con certezza la catena del contagio, ma diversi naturalisti ritengono che la trasmissione di questi virus avvenga per lo più a causa dei contatti tra le scimmie e i turisti, i lavoratori delle riserve e i ricercatori.
Uno studio pubblicato un paio di anni fa ha evidenziato come i virus che causano sindromi respiratorie negli esseri umani siano stati di frequente la causa di morte di primati non umani, anche nel Parco nazionale del Gombe Stream, fondato in Tanzania alla fine degli anni Sessanta grazie all’interessamento della famosa primatologa Jane Goodall, per tutelare diverse comunità di scimpanzé che all’epoca comprendevano migliaia di esemplari e oggi poche centinaia.
Tra i gorilla di montagna, una specie in pericolo di estinzione, le cose non vanno meglio. Una ricerca ha stimato che i virus respiratori siano la causa di almeno un quinto delle morti improvvise tra questi animali. Circa metà del migliaio di gorilla ancora viventi si trova nel Parco nazionale impenetrabile di Bwindi, nell’Uganda sud-occidentale, visitato ogni anno da circa 40mila turisti.
Lo studio ha evidenziato come nella quasi totalità dei casi i partecipanti ai tour abbiano violato le regole del parco, stabilite proprio per proteggere una specie altamente a rischio di estinzione. I turisti non hanno rispettato le indicazioni di mantenere una distanza di almeno sette metri dai gorilla e ci sono state segnalazioni di individui malati, che hanno cercato di nascondere la loro condizione per potere accedere ugualmente alla riserva.
Non rispettando le distanze e partecipando ai tour con infezioni respiratorie in corso, i turisti hanno esposto i gorilla di montagna a maggiori rischi di contagio. Non tutti i virus riescono a passare facilmente da una specie all’altra, ma le similitudini tra i primati possono favorire questo passaggio, causando infezioni nei primati non umani che i veterinari non riescono poi a trattare efficacemente.
Al Parco nazionale di Taï, nella Costa d’Avorio, negli anni sono state rilevate diverse epidemie tra i primati, compresa una causata da un coronavirus umano nei primi mesi del 2017. In media, ogni epidemia da virus respiratorio ha causato la morte di circa un quarto delle scimmie infette. Altri fattori, come la caccia di frodo e la riduzione degli spazi in cui possono vivere, hanno causato una riduzione allarmante degli esemplari: nel 1999 erano 3000, ora sono meno di 400 in tutto il parco.
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Il timore dei primatologi è che possa accadere qualcosa di analogo con la COVID-19, malattia che in molti casi non comporta sintomi rilevanti, al punto che chi la sviluppa non si accorge di averla e mantiene una vita sociale attiva. Individui infetti potrebbero entrare in contatto con gli esemplari nelle riserve, favorendo la diffusione del contagio.
La Ape Alliance e l’African Primatological Society, due delle più importanti organizzazioni per la tutela dei primati non umani e per la ricerca scientifica su questi animali, hanno organizzato nelle ultime settimane incontri virtuali con esperti e specialisti per elaborare progetti condivisi a ulteriore protezione delle riserve. Gli incontri in teleconferenza sono stati utili per condividere informazioni sulle decisioni assunte dai paesi in cui si trovano le riserve.
Tutti i principali parchi nazionali che ospitano primati non umani in Africa hanno sospeso l’accesso per i turisti. A Bwindi, dove si trovano i gorilla di montagna – la popolazione di questi animali potenzialmente più a rischio – sono stati organizzati seminari e corsi per gli operatori del parco, sia per restare a maggiore distanza dai gorilla, sia per imparare a riconoscere segni nel loro comportamento che potrebbero indicare la presenza di sintomi.
Al Parco nazionale di Taï si è deciso di applicare un periodo di quarantena di due settimane per i ricercatori, in modo da ridurre il rischio che scoprano di essere malati dopo l’ingresso nella riserva. Devono inoltre indossare una mascherina e praticare il distanziamento fisico, nonché misurarsi la febbre prima di addentrarsi nella foresta alla ricerca dei primati. Sono stati inoltre avviati programmi di controllo degli esemplari, prelevando le loro feci per analizzarle alla ricerca di eventuali tracce del coronavirus.
Quando si ammalano, gli scimpanzé diventano troppo deboli per riuscire ad arrampicarsi sugli alberi, sui quali riposano al riparo da predatori come leopardi o dai cacciatori di frodo. Per questo i ricercatori hanno il permesso di fermarsi la notte nei pressi di eventuali esemplari malati, per offrire loro protezione. Non sono invece previste attività più specifiche per isolare i malati e trattarli, sia per le difficoltà pratiche sia per la mancanza di trattamenti efficaci.
Oltre ai ricercatori, ai turisti e agli addetti delle riserve, il rischio di contagio può derivare dalla presenza delle popolazioni locali, che in alcuni casi cacciano le scimmie per consumarne la carne. Da tempo i principali parchi hanno avviato iniziative per disincentivare queste pratiche (che possono anche portare a contagi tra gli esseri umani), offrendo carne da animali di allevamento e risorse per coltivare cibo senza infastidire i primati. Nonostante queste iniziative, i contatti con gli umani non mancano e sono più difficili da tenere sotto controllo, rispetto a quelli che riguardano personale e ricercatori nelle riserve.
In mancanza di queste precauzioni, molti esemplari potrebbero ammalarsi causando epidemie diffuse tra le loro popolazioni già decimate negli ultimi decenni, spesso a causa delle attività umane.