Non è un buon momento per la birra Corona
I problemi non riguardano tanto le vendite, bensì la produzione e soprattutto la comunicazione
A fine febbraio molti giornali avevano scritto che le vendite della birra messicana Corona erano crollate in Cina, perché in molti associavano il suo nome a quello del coronavirus. Era una notizia imprecisa: la crisi c’era, ma riguardava la vendita di birra in generale ed era causata, come per altri beni di consumo, dalle restrizioni imposte per contenere il contagio. Il gruppo belga AB InBev – il più grande produttore e rivenditore di birra al mondo, che controlla le aziende Budweiser, Corona e Stella Artois – aveva ridotto di circa 285 milioni di dollari (265 milioni di euro) le vendite in Cina a febbraio a causa del coronavirus. Corona, però, sta effettivamente attraversando un momento complicato.
Corona è la birra più venduta in Messico e una delle più popolari negli Stati Uniti, dov’è prodotta e distribuita dal gruppo Constellation Brands. I suoi specifici problemi non riguardano tanto le vendite – a marzo le vendite di Constellation Brands erano state «superbe», aveva detto a CNBC il direttore esecutivo del gruppo – quanto la pubblicità e la comunicazione. L’Economist ha raccontato che le difficoltà sono iniziate sui social network, tra febbraio e marzo. Su Instagram i post con foto di palme, spiagge e cascate, usate dall’azienda per rafforzare un’idea di vacanze e divertimento, erano accompagnate da commenti come “smettete di uccidere gente innocente” o inviti sarcastici a cambiare nome, per esempio in Ebola. Corona non pubblica più niente su Instagram dal 13 marzo.
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Nello stesso periodo, Corona non è riuscita a gestire il lancio pubblicitario negli Stati Uniti di una nuova bevanda, un seltzer in 4 gusti diversi. La pubblicità mostrava 4 lattine in spiaggia con lo slogan “Coming Ashore Soon” (“presto in spiaggia”). In quel momento molti americani temevano di trovarsi senza lavoro a causa della crisi legata al coronavirus, e un messaggio del genere venne ritenuto scollegato dal mondo e indelicato; dopo parecchie polemiche, Corona ritirò la campagna e cancellò il tweet.
Sempre a fine febbraio, secondo la società di analisi e dati SEMrush, era aumentato il numero di ricerche online di espressioni come “corona beer virus”, “beer coronavirus”. In una ricerca condotta nell’ultima settimana di febbraio il 38 per cento degli intervistati, scelti tra abituali bevitori di birra americani, aveva detto che non avrebbe comprato una Corona «in nessuna circostanza»; tra quelli che bevevano abitualmente birra Corona, solo il 4 per cento aveva detto però che avrebbe smesso di comprarla. Una ricerca condotta dall’istituto YouGov mostra che il cosiddetto “Buzz score” – un punteggio basato sulla percezione positiva o negativa di un marchio – era calato da 75 a inizio gennaio a 51 a fine febbraio.
Corona sta affrontando delle difficoltà anche in Messico, legate soprattutto alla produzione. Il 21 e il 22 febbraio gli abitanti di Mexicali, una città messicana al confine con la California, votarono in un referendum per decidere se bloccare o meno la costruzione di un birrificio di Constellation, che avrebbe dato lavoro a tremila persone. I contrari sostenevano che il birrificio avrebbe consumato le già scarse risorse idriche della zona, mentre Constellation prometteva che avrebbe riparato le perdite delle tubature, migliorando il sistema idrico per tutti. Parteciparono 36.781 persone su un milione di abitanti e il 76 per cento votò contro la costruzione della fabbrica. Constellation aveva già investito 900 milioni di dollari sugli 1,4 miliardi previsti dal progetto, che ora non verrà completato. L’azienda possiede altri due birrifici in Messico, ma è possibile che dovrà spostare la produzione altrove per soddisfare le richieste del mercato americano che, per la prima volta, potrebbe bere birra Corona non realizzata in Messico.
Inoltre il Messico non ha inserito i birrifici nella categoria dei produttori di beni essenziali, contrariamente a quanto hanno fatto la Francia con le aziende vinicole o gli Stati Uniti per i birrifici; così i birrifici messicani hanno chiuso e, scrive l’Economist, negli scaffali dei supermercati del paese non si trovano più Corona ma solo birre di importazione.
Secondo gli esperti, spiega l’Economist, è ancora troppo presto per affidarsi alle ricerche di marketing per capire cosa potrebbe succedere. Alcuni sostengono che la parola “coronavirus” perderà forza nel tempo; ricordano anche che “corona” è una parola comune in italiano e in spagnolo, e che negli Stati Uniti indica anche un quartiere di New York: non è quindi legata esclusivamente al coronavirus. Aiuta anche che la birra Corona sia bevuta soprattutto dai giovani, meno preoccupati e toccati dal virus.
Altri ricordano che la potenza di un marchio sta nella capacità di parlare all’inconscio e generare automaticamente immagini piacevoli. Bisogna attendere e vedere cosa finirà per suggerire, tra uno o due anni, la parola “corona”, scrive l’Economist: «nel migliore dei casi il messaggio di fuga in spiaggia ne uscirà diluito. Nel peggiore, sarà affondato e i clienti la collegheranno alla sofferenza anziché al piacere».
Negli anni Ottanta qualcosa del genere accadde per esempio al marchio Ayds, una caramella dietetica le cui vendite crollarono in seguito alla diffusione dell’AIDS: i proprietari decisero di cambiarle il nome (in Diet Ayds: non andò bene e venne ritirata dal mercato). Corona potrebbe fare lo stesso, magari chiamandosi Coronita, il nome che usò in Spagna fino al 2016: lì, infatti, il marchio Corona era di proprietà di un’azienda vinicola dal 1907, e soltanto 4 anni fa la birra ottenne la possibilità di chiamarsi Corona.
È anche possibile che Corona riesca a superare le difficoltà e a uscirne indenne, come ha fatto più volte nel corso della sua storia. Fondata nel 1925 a Città del Messico, dagli anni Ottanta è esportata in tutto il mondo nonostante provenga da un paese che non produce birra per tradizione. Nonostante questo, legando la sua immagine a quella delle spiagge messicane e alle vacanze, ha conquistato il mercato statunitense, diventando il primo prodotto messicano per cui gli americani erano disposti a pagare di più che per uno interno; ha aperto, così, la strada ad altri prodotti messicani, come la tequila e i tacos.
Il suo successo andò di pari passo con l’apertura dell’economia messicana e negli anni Novanta il ministro del commercio messicano Jaime Serra Puche si vantava che «il Messico esporta due liquidi: il petrolio e la Corona». Vende bene nonostante il surriscaldamento provocato dalla bottiglietta di vetro e non è stata affondata neanche dalla moda, nata in California, di infilarci dentro una fettina di lime: l’abitudine – che faceva disperare i produttori per il timore che il gusto della birra venisse alterato – si è diffusa in tutto il mondo contribuendo ad assestare la fama di Corona. L’idea di aggiungere il disegno di una corona sull’etichetta arrivò nel 1963; in quel periodo, nel sud dell’Inghilterra, vennero scoperti i primi coronavirus nelle cavità nasali dei pazienti con il comune raffreddore: lo HCoV-229E e lo HCoV-OC43.
Secondo la società di consulenza Interbrand, prima dell’arrivo del coronavirus, Corona era il marchio non occidentale di maggior successo dopo il cinese Huawei. Nel 2018, scrive Forbes, le vendite erano state pari a 6,6 miliardi di dollari, pari a 6,1 miliardi di euro.