Ci sono anche le carceri

Cioè posti in cui il distanziamento fisico è difficile quando non impossibile, e che hanno davanti il grosso problema di come riaprire all'esterno

La protesta a San Vittore, a Milano, l'8 marzo 2020. (Claudio Furlan/LaPresse)
La protesta a San Vittore, a Milano, l'8 marzo 2020. (Claudio Furlan/LaPresse)

Il 2 aprile scorso era stato registrato il primo decesso di un detenuto in Italia ufficialmente ricondotto al coronavirus: un uomo di 76 anni che stava scontando la sua pena nel carcere della Dozza, a Bologna. Nelle ultime settimane l’avanzamento del contagio nelle carceri è stato un argomento poco raccontato, e sul quale sono arrivate in gran parte informazioni confuse e parziali, o comunque trascurate, come avviene spesso alle cose che riguardano le carceri.

I problemi riscontrati in questi primi due mesi di epidemia sono stati moltissimi, dalle difficoltà di isolare i malati o i presunti malati ai protocolli da seguire per le guardie carcerarie, e hanno previsto una radicale sospensione di alcuni diritti fondamentali dei detenuti. Per certi versi, queste difficoltà sono però soltanto un’anticipazione di quelle che arriveranno superata la fase di emergenza. I modelli organizzativi attuali, da quelli che regolano le visite dei familiari a quelli delle attività educative e ricreative, si basano sulla continua entrata e uscita di persone dalle carceri. Una cosa che a lungo non sarà più possibile con le stesse modalità e la stessa serenità del mondo prima del coronavirus.

Contagi
Secondo il Garante Nazionale dei privati di libertà, al primo maggio erano stati registrati 159 casi di COVID-19 tra i detenuti italiani, e 215 tra il personale penitenziario: ma almeno i primi, dice il bollettino, sono ancora in crescita. I morti sono stati almeno tre: il primo a Bologna, un altro poco dopo detenuto a Voghera, e un terzo a San Vittore, a Milano. Alle persone morte per il coronavirus, poi, andrebbero aggiunte quelle morte nelle proteste di inizio marzo in diverse carceri italiane, per un totale complessivo di 12.

Questo bilancio ufficiale del contagio sembra un po’ basso all’associazione Antigone, che si occupa di giustizia e diritti dei detenuti: lo ha spiegato al Post il suo coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione Alessio Scandurra. Ma avere notizie confermate è complicato, anche perché in diversi casi alcuni racconti allarmati e preoccupanti arrivati direttamente dai detenuti si sono rivelati esagerati o inesatti, ha spiegato. Nei casi in cui Antigone è riuscita ad avere notizie ulteriori, attraverso contatti fidati negli istituti, c’è stata una conferma dei dati ufficiali, dice Scandurra.

C’è però il problema che non esistono dati pubblici su quanti detenuti siano stati sottoposti al tampone, dice Gennarino De Fazio, segretario nazionale del sindacato UILPA Polizia Penitenziaria. A metà aprile, De Fazio aveva avvertito che il 50 per cento dei test fatti sui detenuti della Dozza di Bologna erano risultati positivi: una percentuale molto alta, che suggerisce la possibilità che in altri istituti i contagi siano più numerosi di quelli accertati.

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Sovraffollamento
Non è difficile immaginare perché un’epidemia sia una circostanza particolarmente allarmante per gli istituti penitenziari. Il noto problema di sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia fu condannata nel 2013 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, le rende dei posti tristemente fertili per il diffondersi di un virus. Con celle di pochi metri quadri che ospitano 3, 4 o 5 detenuti ciascuna, con un unico bagno, il distanziamento sociale tanto proclamato come indispensabile per chi è libero non è una possibilità. In un carcere molti contatti tra detenuti e personale non sono evitabili, e la carenza di dispositivi di protezione, rilevata da gran parte delle categorie professionali che hanno avuto a che fare direttamente con il contagio, ha coinvolto anche gli operatori penitenziari e ovviamente i carcerati.

In Italia i detenuti nelle carceri al 4 maggio erano 53.139, per circa 47mila posti effettivamente disponibili. Il sovraffollamento rimane ma è diminuito drasticamente da fine febbraio, quando i detenuti in carcere erano 61.230. È stato un risultato combinato: a una diminuzione degli ingressi, dovuta al minor numero di reati commessi durante il lockdown, si è aggiunto un maggiore ricorso alle misure alternative al carcere nelle sentenze emesse dai giudici negli ultimi due mesi.

A questo si sono aggiunte le scarcerazioni per il sopraggiungere della fine della pena o per il ricorso a benefici precedenti all’epidemia o previsti in seguito: usuali ma cresciute. Come ha spiegato Scandurra, ci sono stati molti casi in cui le condizioni di salute dei detenuti sono diventate improvvisamente incompatibili con il carcere: una persona che ha bisogno di una dialisi una volta a settimana, per esempio, non può più certamente fare avanti e indietro tra l’istituto e l’ospedale, per gli evidenti rischi di contagio. La carenza di braccialetti elettronici, tuttavia, ha rallentato in parte queste scarcerazioni, limitandole a quei detenuti per i quali potesse essere permesso.

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Isolamenti
Il problema della mancanza di posti letto e di stanze libere si è rivelato particolarmente grave nel momento in cui gli istituti hanno dovuto provvedere a isolare i detenuti positivi al coronavirus o quelli che presentavano sintomi. Questo ha costretto in diversi casi a trasferire parte dei detenuti in altri istituti, con il rischio – che in certi casi si è concretizzato – di portare il contagio altrove.

È successo per esempio con la casa circondariale Dozza di Bologna: dopo la rivolta di inizio marzo, in cui due detenuti erano morti per overdose dopo aver ottenuto accesso a farmaci dell’ambulatorio, molte persone erano state trasferite in altre carceri. Alcuni, portati a Saluzzo, in provincia di Cuneo, hanno probabilmente contagiato altri detenuti: ora ci sono venti positivi al coronavirus tra i carcerati e quattro tra gli agenti penitenziari, più diversi altri in isolamento. Contattato dal Post, il garante del carcere Paolo Allemano ha confermato che almeno due persone positive arrivavano da Bologna.

A Tolmezzo, in provincia di Udine, cinque detenuti trasferiti da Bologna sono risultati positivi al tampone giorni dopo essere stati messi in isolamento. «Evidentemente i protocolli di accoglienza non hanno funzionato» spiega Scandurra, «ma i trasferimenti erano inevitabili: il carcere più infetto ha bisogno di avere più spazio, e quindi si devono necessariamente spostare i detenuti».

Focolai
Una delle situazioni più preoccupanti era emersa intorno a metà aprile alla Casa circondariale di Torino, quando Leo Beneducci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, aveva segnalato come almeno 60 dei 1.250 detenuti fossero risultati positivi al tampone: una decina erano stati fatti uscire, ma 47 erano ancora nella struttura.

Un’altra situazione che ha generato preoccupazioni è quella del carcere di Verona, dove il 22 aprile erano stati registrati 29 casi di COVID-19: Maria Grazia Bregoli, direttrice dell’istituto, aveva spiegato che era stato fatto di tutto per contenere il contagio, ma che ormai il rischio era diventato “ingestibile”. Margherita Forestan, garante per i detenuti di Verona, aveva spiegato che per giorni Bregoli aveva scritto «a sindaco, prefettura e Usl senza ricevere risposta». Una guardia carceraria, però, ha detto al Corriere del Veneto che «all’inizio dell’emergenza, la direzione ha spiegato di non gradire che indossassimo le mascherine perché questo poteva generare preoccupazione tra i detenuti».

Sempre nel carcere di Verona, intorno alla metà di aprile, un detenuto indiano era stato scarcerato perché positivo al coronavirus, ed era stato poi fermato dalle forze dell’ordine 24 ore dopo in stazione: il Corriere aveva spiegato che a rimetterlo in libertà era stata la Corte d’appello di Venezia, che si era basata «su una nota nella quale la stessa direttrice ammetteva la necessità di allontanarlo al più presto dal carcere» perché era impossibile garantire la sicurezza degli altri detenuti e del personale: segnalando la contraddizione difficilmente risolvibile – senza percorsi di uscita – tra la protezione delle persone dentro e quella delle persone fuori.

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Violenze
Oltre alle violenze avvenute durante le rivolte di inizio marzo, l’associazione Antigone ha denunciato un grave episodio avvenuto il 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Dopo che un detenuto era risultato positivo al coronavirus, i carcerati di un reparto avevano organizzato una protesta sbattendo sulle sbarre delle celle e trincerandosi dietro una barricata di brande chiedendo dispositivi di protezione individuale.

Dopo un’iniziale risoluzione pacifica della protesta, secondo la ricostruzione di Antigone, «circa 400 agenti di polizia penitenziaria sarebbero entrati nel reparto in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, e lì, in gruppi da sette, sarebbero entrati nelle celle prendendo i detenuti a schiaffi, calci, pugni e colpi di manganello». Secondo le testimonianze raccolte, i detenuti hanno denunciato a familiari e avvocati «persone massacrate di botte, svenute nel sangue o che il sangue lo urinano, traumi cranici, costole e denti rotti». La procura di Santa Maria Capua Venere sta indagando su quanto successo.

Visite
Dall’8 marzo le visite di persona nelle carceri sono state sospese. Questa misura, necessaria dal punto di vista sanitario, ha comportato una grande sofferenza per gran parte dei detenuti e dei loro parenti. Le visite sono state generalmente sostituite da un maggior numero di telefonate mensili e da videochiamate su Skype o WhatsApp. Ma l’introduzione di questi strumenti non è stata omogenea, e i detenuti hanno potuto ricorrervi soprattutto in quegli istituti dove erano già previste possibilità di questo tipo. In certi casi, quando non erano disponibili postazioni per le videochiamate, si è ricorso a smartphone acquistati apposta o ricevuti come donazione.

Ci sono stati però spesso problemi tecnici: «le carceri sono posti in cui nessuno si è mai preoccupato di portare il segnale mobile e internet: anzi, forse il contrario», spiega Scandurra. Nonostante la diffusa ostilità all’introduzione della tecnologia nelle carceri, lo sforzo nella maggior parte dei casi è stato adeguato all’emergenza, e in certi casi ha avuto inaspettati risvolti positivi. Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, ha spiegato al Post che «le videochiamate sono state una cosa bellissima, perché c’erano persone che non facevano i colloqui con i familiari nemmeno prima. Quindi hanno potuto rivedere parenti lontani: qualcuno ha visto la madre dopo anni, magari perché vive in un’altra parte d’Italia o più spesso all’estero». L’auspicio di Favero è che la tecnologia introdotta durante l’emergenza rimanga operativa anche quando la situazione sanitaria si sarà risolta. 

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Piani
A preoccupare chi segue e si occupa del sistema carcerario italiano è principalmente cosa succederà una volta contenuta la diffusione iniziale del coronavirus: «siamo ancora in una fase di preparazione, non c’è niente di pronto», spiega Scandurra. I protocolli sanitari precedenti all’epidemia si sono rivelati inadeguati, soprattutto al momento di applicarli, così come le strutture a disposizione. «Per usare una metafora, il carcere era una nave che imbarcava acqua quando il mare era calmo: con il coronavirus è arrivata la tempesta, e ha iniziato ad affondare», dice De Fazio.

Le visite di persona, per esempio, devono gradualmente riprendere per tornare a garantire ai detenuti un diritto fondamentale, segnalano gli esperti. In moltissimi casi, però, non ci sono le condizioni strutturali per predisporre sale di attesa sufficientemente capienti, e percorsi protetti che separino gli ospiti dai detenuti, ma anche gli ospiti tra loro. Per questo andranno organizzati sistemi di prenotazione dei colloqui, peraltro già attivi in certe carceri, affiancati a un ampliamento degli orari e dei giorni in cui sono consentiti.

Mauro Palma, presidente del Garante nazionale per i diritti dei detenuti, ha spiegato al Post che sarà necessariamente un processo graduale, che comincerà con visite più brevi e diradate nel tempo e che potrebbe essere più facile con l’arrivo dell’estate organizzando le visite negli spazi all’aperto degli istituti.

Favero è preoccupata che il ripensamento dei modelli organizzativi delle carceri avvenga escludendo le decine di associazioni educative e di volontariato che operano, o meglio operavano, quotidianamente negli istituti italiani. Oltre alle visite, infatti, dalle lunghe e monotone giornate dei detenuti sono scomparse negli ultimi due mesi anche le attività educative e istruttive, dalle lezioni di lingua a quelle di teatro alle altre iniziative e assistenze di cui si fanno carico le associazioni. Se in certe rare occasioni sono state ripristinate in videoconferenza, nella maggior parte dei casi non è stato possibile.

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Un’altra questione complicata sarà studiare un modo per riprendere le attività lavorative fuori dal carcere per i detenuti in semilibertà, che cioè tornano in carcere la sera dopo aver lavorato fuori di giorno. Claudio Paterniti Martello ha spiegato sul Foglio che «alcuni tribunali di sorveglianza si sono fatti in quattro perché scontassero la pena a casa almeno fino al 30 giugno», ma «a volte i magistrati hanno preferito seguire l’irresponsabile strada già segnata da governo e Parlamento, negando le licenze. Allora la mezza libertà si è tramutata nuovamente in prigionia completa».

Secondo Palma, l’emergenza potrebbe servire a ripensare questo tipo di detenzione, che – negando di fatto molte ragioni alla detenzione – spesso prevede che una persona lavori tutto il giorno fuori dal carcere tornando la sera tardi e uscendo la mattina presto: «la possibilità di non gravare sui sistemi penitenziari per il semplice ritorno a dormire forse si dovrebbe ripensare in modo più stabile».

Lo stesso problema varrà per i permessi di uscita: entrare e uscire da un carcere rappresenterà probabilmente un grosso rischio per molto tempo, e al momento c’è grande incertezza su quale strada percorrere per mantenere queste importanti concessioni ai detenuti. Al momento, i protocolli prevedono che i detenuti che rientrano dai permessi siano messi in isolamento per 15 giorni, con tutte le difficoltà e i limiti di questo tipo di operazioni in un carcere.

Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, invece, una delle prime cose da fare secondo De Fazio sarebbe una condivisione dei protocolli di sicurezza con le organizzazioni sindacali, e una riduzione dell’affollamento delle carceri, trasferendo temporaneamente parte dei detenuti in strutture alternative come caserme e alberghi inutilizzati.