I due mesi che sconvolsero la Lombardia
Come l’epidemia ha distrutto le certezze della regione più ricca e popolosa d’Italia
di Davide Maria De Luca, Elena Zacchetti, Stefano Vizio, Luca Misculin
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Il primo caso di contagio da coronavirus in Italia venne identificato all’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, lo scorso 20 febbraio. Nel giro di due settimane l’intero paese venne sottoposto a misure di quarantena tra le più dure adottate fuori dalla Cina. Oggi, dopo due mesi di fatiche, sacrifici e morti e con la fase più acuta dell’emergenza alle spalle, sempre più persone iniziano a chiedere risposte su quanto è accaduto. Decine di migliaia di figli e nipoti che non hanno potuto salutare i loro parenti, morti nei reparti di terapia intensiva, nella propria abitazione o in una casa di cura, si domandano se sia stato fatto tutto il possibile per salvarli. Da nessuna parte queste domande sono così pressanti come in Lombardia, la regione più ricca del paese, la più popolosa e quella che è stata colpita per prima e più duramente dall’epidemia.
Ognuna delle storie di questa grande tragedia nazionale merita di essere raccontata, ma la Lombardia più delle altre. In Lombardia oltre 14 mila persone sono morte a causa del coronavirus, un numero soltanto parziale e certamente inferiore al dato reale. Sopraffatte dalla violenza del contagio, le autorità sanitarie non sono riuscite nemmeno a tenere un conto esatto del numero dei decessi causati dal virus, né a gestire i corpi. Le immagini dei convogli militari che trasportavano le salme fuori della regione per essere cremate sono diventate un simbolo eloquente di come la pandemia in Lombardia abbia travolto tutto.
Il Post ha parlato con decine di medici, infermieri, politici, virologi, esperti e persone comuni per fornire una prima ricostruzione di quanto sia accaduto in Lombardia, dalla preparazione per far fronte alla pandemia fino al culmine della crisi. È un quadro necessariamente parziale e incompleto, ma è un primo necessario passaggio per ricostruire un evento le cui conseguenze ci porteremo dietro a lungo.
Una pandemia annunciata
Da decenni gli scienziati avvertivano i governi che lo scoppio di una nuova pandemia non era questione di se, ma di quando. E i governi hanno avuto altrettanto tempo per prepararsi. «Sorrido un po’ sentendo tanti citare il profetico TED Talk del 2015 in cui Bill Gates parla di una nuova pandemia», ha raccontato al Post Roberta Villa, medica, giornalista scientifica e membro della “task force” contro la disinformazione sulla COVID-19 del governo, riferendosi a un popolare video del fondatore di Microsoft diventato virale nelle prime settimane della pandemia.
«Sul tema della prossima pandemia», continua Villa, «in questi anni ci sono stati non so più quanti convegni, riunioni, gruppi di studio, campagne di sensibilizzazione, incontri della Commissione Europea, allarmi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità».
Questi avvertimenti cominciarono a essere presi sul serio dopo le grandi paure dell’inizio del nuovo millennio: l’influenza aviaria e la SARS, due malattie con potenziale pandemico. Nel decennio successivo i governi di tutto il mondo si dotarono di protocolli da mettere in atto non appena una nuova pandemia fosse stata identificata, e di piani per accumulare scorte di vaccini, medicinali antivirali e dispositivi di protezione individuale. L’Italia adottò il suo primo piano pandemico nel 2006 e le regioni, compresa la Lombardia, lo fecero poco dopo.
Questi preparativi furono provvidenziali nel 2009, quando una nuova pandemia – la prima dalla fine degli anni Sessanta – venne innescata da una variazione del virus H1N1, lo stesso ceppo che un secolo prima aveva causato la micidiale influenza spagnola. Per fortuna quella “influenza suina” si rivelò molto meno virulenta della sua lontana parente. Ma la debolezza del contagio, insieme all’apparente enormità della mobilitazione internazionale per contrastarlo, ebbero l’effetto opposto a quello auspicato dagli scienziati. Governi e istituzioni internazionali furono accusati di aver ingigantito il pericolo, e l’OMS di essere in combutta con le case farmaceutiche. In Italia la campagna di vaccinazioni fu un fallimento e il governo venne attaccato per aver sottoscritto contratti per milioni di dosi di vaccino che rimasero inutilizzate.
L’arrivo della crisi economica e i tagli ai bilanci pubblici che ne seguirono fecero il resto. Dopo il 2009 i piani pandemici non furono più aggiornati, le scorte di materiale sanitario non vennero rifornite, le lezioni che potevano essere imparate furono dimenticate.
Secondo Villa la pandemia del 2009 è stata simile a «una prova generale generosamente concessa al genere umano». Una prova che, malauguratamente, «ha finito con l’essere sprecata».
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Anche in Lombardia l’esperienza del 2009 non venne messa a frutto. Nel dicembre 2010, a pochi mesi dalla fine ufficiale dell’allarme pandemico, il governo regionale ricevette dai suoi dirigenti tecnici una relazione estremamente critica e dura sulla risposta del sistema sanitario locale durante l’influenza suina. Il rapporto lasciava intendere che solo la debolezza del contagio aveva evitato conseguenze assai peggiori.
La Regione Lombardia, diceva la relazione, non aveva comunicato chiaramente né con la popolazione né con gli operatori sanitari. Non aveva predisposto sistemi statistici per rilevare le assenze sul lavoro, gli accessi ai pronto soccorso e un numero anomalo di morti causato dalla malattia. Il rapporto continuava dicendo che il governo regionale e i dirigenti sanitari non si erano coordinati a sufficienza con la rete di medicina territoriale, i medici di famiglia, gli ambulatori e le case di cura. Per queste ultime, particolarmente vulnerabili durante una pandemia, il rapporto specificava che la regione non aveva previsto alcuna procedura per rinforzarne il personale.
Il 22 dicembre del 2010 la relazione venne approvata dalla giunta. Da quel giorno nessuno ne parlò più.
Molti di coloro che in queste settimane hanno criticato la gestione della pandemia da coronavirus da parte della Regione Lombardia sottoscriverebbero parola per parola il contenuto di questo rapporto, scritto quasi dieci anni fa in risposta all’insufficiente reazione della regione a un’altra epidemia.
Chi meglio della Lombardia?
Che fosse preparata o meno, la Regione Lombardia era considerata da molti quella più in grado di affrontare un evento traumatico come un’epidemia causata da un virus sconosciuto, grazie a un sistema sanitario ritenuto tra i migliori in Italia e in Europa. La Lombardia ha la quinta miglior sanità su diciannove regioni e due province autonome in Italia, secondo le classifiche ufficiali del ministero della Salute, ed è un polo internazionale che attira ogni anno decine di migliaia di pazienti dal resto d’Italia e da tutto il mondo.
Nel corso della pandemia da coronavirus, però, anche intorno a questo sistema sanitario hanno iniziato ad accumularsi dubbi. Se per alcuni la sua struttura quasi unica in Italia, con una forte componente privata e concentrata in una serie di grandi ospedali moderni ed efficienti, è stata un argine alla malattia che ha salvato migliaia di vite, per altri le eccellenze del sistema lombardo hanno nascosto una serie di criticità che spiegano almeno in parte perché la regione sia stata così duramente colpita.
Il sistema sanitario che in Lombardia ha affrontato la pandemia è frutto in gran parte della visione di un uomo: Roberto Formigoni, il vulcanico presidente della regione dal 1995 al 2013, esponente di Forza Italia e membro dei Memores Domini, la confraternita a cui appartengono alcuni importanti membri dell’influente associazione cattolica Comunione e Liberazione. Formigoni, animato da idee liberali e dalla dottrina cattolica della sussidiarietà, creò un sistema alla cui base c’era, come sosteneva lui stesso, «la libertà di scelta del cittadino». La libertà, cioè, di scegliere se farsi curare dal servizio sanitario pubblico o da quello privato.
La visione di Formigoni venne resa possibile dalle riforme sanitarie che dagli anni Novanta resero gli ospedali italiani sempre più simili ad aziende, con bilanci autonomi e manager professionisti, e che consegnarono ai governi regionali – competenti sulla sanità in base a quanto stabilisce la Costituzione – l’autonomia di organizzarli come preferivano. In Lombardia la crescente privatizzazione del sistema sanitario avvenne tra occasionali scandali che coinvolsero periodicamente imprenditori, politici, dirigenti sanitari fino allo stesso Formigoni, che nel 2016 venne condannato per corruzione e trascorse sei mesi in carcere. I suoi successori – Roberto Maroni e Attilio Fontana della Lega – hanno mantenuto lo stesso approccio.
Oggi circa metà della sanità lombarda è privata: opera per gran parte in regime di convenzione con il pubblico, cioè viene pagata dalla Regione per offrire le stesse tariffe e la stessa qualità di prestazioni del servizio pubblico. In alcune aree della regione, i privati sono divenuti i gestori dominanti della sanità locale. Secondo gli studi della professoressa Maria Sartor dell’Università Statale di Milano, il Gruppo San Donato – la più grande azienda di sanità privata in regione – raccoglie da solo il 14 per cento dell’intero fatturato regionale per i ricoveri: un servizio che ogni anno ammonta a circa un quarto dei 19 miliardi di euro dell’intero bilancio sanitario regionale.
Il fatto che i privati siano così importanti per la sanità lombarda, e il loro contributo alla gestione della crisi, è oggi al centro del dibattito sulla risposta all’epidemia di COVID-19.
Il punto più sottolineato viene ripetuto da anni dai critici del sistema regionale lombardo: i privati operano nel campo sanitario per fare profitti, e questo si riflette nel tipo di prestazioni che offrono. Se esami, operazioni chirurgiche delicate e visite specialistiche sono attività che permettono ai privati un buon margine di guadagno, la gestione dei pronto soccorso, dei traumi causati da incidenti stradali, la cura degli anziani, la prevenzione, la cura di malattie rare e di quelle estremamente comuni sono invece attività poco remunerative, che per questo sono per lo più lasciate agli ospedali pubblici. Una conseguenza concreta: anche se la sanità privata pesa circa metà dell’intera sanità lombarda, possiede soltanto poco più di un quarto dei posti di terapia intensiva in regione.
L’importanza degli ospedali privati, unita alle attenzioni che hanno sempre riservato le giunte regionali, ha contribuito a rendere il sistema lombardo particolarmente focalizzato ed efficiente sulle grandi strutture e sulla medicina di eccellenza: quella che si concentra sugli interventi delicati, che richiede macchinari sofisticati e medici specializzati.
L’altra faccia di questa medaglia è che l’assistenza territoriale ha spesso finito per essere trascurata. L’assistenza territoriale è quella rete formata da medici di medicina generale, guardie mediche, ambulatori locali e RSA, che secondo molti esperti avrebbe bisogno oggi del maggiore sviluppo e dei maggiori investimenti, in particolare in un paese come l’Italia dove una popolazione sempre più anziana ha bisogno di cure continue ma a bassa intensità. Secondo gli ultimi dati pubblicati lo scorso marzo, per esempio, alla regione mancano 600 medici di medicina generale e quasi 40 mila ore di guardia medica, un dato che negli ultimi anni è cresciuto.
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La riforma sanitaria approvata dalla regione nel 2015, la prima dopo il lungo governo di Formigoni, avrebbe dovuto in parte risolvere questi problemi, ma secondo molti ha finito con l’aggravarli.
Oggi ospedali e medici del territorio rispondono a strutture sanitarie differenti, e hanno una diversa catena di comando; i rapporti tra la sanità regionale e i medici di medicina generale, inoltre, continuano a rimanere pessimi. Mentre questi ultimi, professionisti autonomi, con contratti in gran parte regolati a livello nazionale, cercano di tutelare la propria indipendenza, la regione cerca spesso di sottrarre loro risorse e competenze. La Lombardia non è l’unica regione a soffrire di questa debolezza, ma altre sono comunque riuscite a ottenere risultati migliori. Durante l’attuale crisi, per esempio, gli amministratori del Veneto e dell’Emilia-Romagna hanno sottolineato spesso – e a ragione – la maggiore integrazione con il territorio raggiunta dai loro sistemi sanitari, e il ruolo maggiore che i loro medici di famiglia hanno avuto nel contrasto all’epidemia.
Il confronto con l’estero è ancora più stridente. Mentre in Italia e Lombardia ci si concentra ancora molto sugli ospedali, esperti e studiosi internazionali parlano sempre più spesso della loro obsolescenza e dalla crescente importanza che è necessario dare alle cure in casa e alla medicina preventiva. L’impostazione italiana è stata criticata tra gli altri dal medico bergamasco Giuseppe Remuzzi, che nel suo libro del 2018 La salute (non) è in vendita ha spiegato come in Italia si vada ancora troppo spesso al pronto soccorso, invece che affidarsi a un medico del territorio o a un piccolo ambulatorio locale, e come anche l’influenza dei bambini viene curata in ospedale.
Remuzzi conosce bene la sanità lombarda. Dopo una lunga carriera negli Ospedali Riuniti di Bergamo, nel 2018 è diventato direttore dell’istituto bergamasco Mario Negri, un ente di ricerca no profit. Nel suo libro la Lombardia non viene nominata spesso, ma quando Remuzzi critica un sistema che giudica troppo focalizzato sulle cure remunerative, centralizzato e poco interessato a sviluppare la medicina territoriale, sembra avere ben presente l’esempio della sua regione. È questo sistema, fatto di eccellenze, ma anche di conflitti e storiche criticità, che lo scorso febbraio si preparava ad affrontare la pandemia.
L’arrivo della pandemia
La pandemia in Italia è iniziata ufficialmente alle 21.20 del 20 febbraio, quando venne registrato il primo caso di trasmissione del virus. Il cosiddetto “paziente uno”, un manager 38enne citato dai giornali semplicemente come Mattia, era andato pochi giorni prima al piccolo ospedale del comune di Codogno, in provincia di Lodi, con febbre alta e tosse. La mattina dopo il ricovero per insufficienza respiratoria, le sue condizioni si aggravarono e Mattia fu spostato in rianimazione. Soltanto grazie all’intuizione di un’anestesista Mattia venne testato per la COVID-19.
Perché servì un’intuizione: all’epoca il test non era raccomandato dal ministero della Sanità per persone come Mattia. In un documento del 27 gennaio, infatti, venivano indicati come casi sospetti che richiedevano un test soltanto le persone con malattie respiratorie gravi che avessero viaggiato nelle aree a rischio della Cina nei 14 giorni precedenti. Il test venne eseguito ugualmente alle 16.20 del 20 febbraio e il risultato arrivò poco dopo le 21. Mattia era positivo. Il paziente zero che lo ha contagiato non è mai stato individuato. Oggi è considerato probabile che il coronavirus circolasse in Lombardia già da dicembre.
La gestione della pandemia in Lombardia ha attraversato tre fasi. La prima fase, quella di preparazione all’arrivo del virus, è terminata con la scoperta dei primi casi a Codogno. La seconda fase, quella delle “zone rosse”, iniziò quando le autorità sanitarie cercarono di contenere il contagio all’interno dei focolai. La terza fase, quella in cui ci troviamo ancora, è quella in cui – dopo il fallimento del contenimento locale – con una quarantena generalizzata si è cercato di reprimere il contagio e proteggere il sistema sanitario, che rischiava di essere soverchiato (come poi è avvenuto).
La prima fase, quella di ricerca e preparazione all’arrivo del virus, era iniziata il 22 gennaio – un mese prima di Codogno – quando il ministero della Salute aveva ordinato alle aziende sanitarie locali di adottare i protocolli anti-epidemia. Il giorno dopo la città di Wuhan, in Cina, entrò in quarantena. Una settimana dopo il governo italiano proclamò lo stato di emergenza sanitaria. Oggi sappiamo che le quattro settimane che seguirono furono le ultime in cui la regione ebbe il tempo di prepararsi.
Il governo regionale decise innanzitutto di nominare un’unità di crisi, composta dai principali tecnici della regione, dai capi degli ospedali e da una serie di esperti in campi specifici. L’unità di crisi si insediò al sesto piano del palazzo della Regione, nella sala operativa della Protezione Civile, e coordinò i primi tentativi di rintracciare il virus. Quando il 31 gennaio due turisti cinesi atterrati all’aeroporto Malpensa risultarono positivi, per esempio, l’unità di crisi si attivò per indagare una pizzeria in cui c’era il sospetto che i due cinesi avessero mangiato.
La regione non fece molto altro. Dal governo, d’altra parte, non arrivavano particolari segnali di allarme. Anzi: il rigido protocollo del 22 gennaio, che imponeva di testare tutte le polmoniti sospette, era stato sostituito il 27 gennaio da un altro meno severo (quello che non obbligava a testare casi come quello di Mattia). I piani pandemici, non aggiornati da anni, non erano di aiuto: non solo erano difficili da applicare a una struttura sanitaria regionale nel tempo cambiata, ma contenevano appena poche righe sull’importanza di rifornirsi di dispositivi di protezione, che si sarebbero rivelati poi uno degli strumenti più efficaci nella gestione della pandemia e anche una delle questioni più problematiche. Anche volendo seguire quelle indicazioni, comunque, senza accordi prestabiliti con i fornitori a quel punto le mascherine erano già introvabili. Alla fine di febbraio un tardivo tentativo da parte della Regione di acquistarne quattro milioni si risolse in nulla, quando ci si accorse che il fornitore non era in grado di rispettare la consegna.
Non tutti però si mostrarono così poco allarmati nella preparazione per fronteggiare l’epidemia. In Veneto il governo regionale, su richiesta del microbiologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, si era mosso già a fine gennaio per potenziare la capacità di tracciare il contagio, avviando la produzione autonoma dei reagenti chimici necessari per elaborare centinaia di migliaia di tamponi. Ancora a fine marzo, il Veneto acquistò dai Paesi Bassi una rara macchina in grado di processare fino a 9mila tamponi in un giorno, riuscendo ad aumentare notevolmente la capacità di analisi di test regionali anche nella fase avanzata dell’epidemia.
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In Lombardia non ci furono operazioni di questa portata, e le difficoltà nel fare i tamponi necessari è diventata, durante l’epidemia, uno dei problemi più contestati alla gestione del governo regionale. La mancanza dei reagenti è stato uno dei limiti principali all’esecuzione di più tamponi, che per settimane sono stati riservati in larga parte ai pazienti in condizioni così gravi da richiedere un ricovero. Questa politica ha impedito di testare – e quindi di contare – non solo gli asintomatici ma anche moltissime persone con sintomi acuti. Se il Veneto, potendo contare su un laboratorio con strumentazioni sofisticate e certificate come quello di Padova, aveva prevenuto questa situazione producendo autonomamente la gran parte dei reagenti necessari, la Lombardia preferì affidarsi prevalentemente ai reagenti “ufficiali”, quelli prodotti dalle aziende dei macchinari in dotazione, che sarebbero stati – e sono tuttora – molto difficili da reperire sul mercato.
All’impreparazione iniziale sui tamponi in Lombardia si sommarono quindi – a epidemia in corso – gli insufficienti sforzi successivi per aumentare la capacità di test dei laboratori, che pure sono stati fatti e continuano ancora a due mesi di distanza. La Lombardia ha una popolazione più che doppia del Veneto, ha quattro volte i contagi accertati (pur avendo testato soprattutto le persone in condizioni gravi) ed esattamente dieci volte i decessi. Ciononostante ad aprile la Lombardia ha processato in media circa 8.520 tamponi al giorno, il Veneto circa 7.880. Questi limiti nella capacità di testare le persone e di inseguire il contagio si sono rivelati particolarmente problematici quando dalla prima fase di ricerca del contagio si passò alla successiva.
Il contenimento
La seconda fase nella gestione dell’emergenza pandemica iniziò dopo l’individuazione dei primi casi in provincia di Lodi. La sera del 21 febbraio l’ospedale di Codogno venne chiuso e due giorni dopo, nella notte tra il 22 e il 23, il governo decise di istituire un’area di quarantena totale intorno a dieci comuni del lodigiano e intorno al comune di Vo’ in provincia di Padova. In queste aree tutte le attività economiche vennero sospese e alla popolazione venne impedito di uscire, nella speranza di limitare la diffusione del virus e di impedirgli di raggiungere altre aree. Erano le prime “zone rosse” e nei giorni successivi si rivelarono un successo. Il 10 marzo, a meno di tre settimane dall’istituzione della “zona rossa”, a Codogno non venne registrato nessun nuovo positivo al virus.
Ma quando un caso analogo a quello di Codogno venne scoperto in provincia di Bergamo, la Regione Lombardia e il governo nazionale decisero di agire diversamente.
Nel pomeriggio del 23 febbraio due nuovi positivi al coronavirus erano stati individuati nel piccolo ospedale di Alzano Lombardo, all’imboccatura della Val Seriana, un’area altamente industrializzata alle porte di Bergamo. Come a Codogno, la direzione dell’ospedale ordinò l’immediata chiusura del pronto soccorso e l’isolamento dell’intera struttura. Due ore dopo, però, la Regione impose di riaprire tutto. Diversi testimoni hanno raccontato che le procedure di sanificazione prima della riapertura furono messe in pratica in fretta e con mezzi inadeguati. Nonostante l’enorme rischio di un contagio in ospedale – un posto da cui passano medici e pazienti fragili – nessuna “zona rossa” venne imposta nel comune, e la Regione Lombardia disse che non erano allo studio ulteriori misure di quarantena.
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La mancata chiusura dell’ospedale di Alzano e la mancata applicazione della “zona rossa” in Val Seriana sono diventati uno degli argomenti più controversi dell’intera crisi. Ma oggi continua a non essere facile attribuire chiare responsabilità.
Nei pochi giorni trascorsi dalla scoperta dei primi casi a Codogno, il clima nel paese e in Lombardia era cambiato. Dopo lo spavento iniziale si era diffusa una reazione opposta, che tendeva a minimizzare la pericolosità della pandemia, a indicare sopravvalutazioni del pericolo e a incoraggiare la fiducia della popolazione. A Milano il sindaco Beppe Sala aveva pubblicato sui social network un video – realizzato da un gruppo di ristoratori locali – in cui si annunciava che “Milano non si ferma”. Il segretario del PD Nicola Zingaretti, che poi sarebbe stato a sua volta contagiato, partecipava a un aperitivo sui Navigli ampiamente pubblicizzato. Anche il segretario della Lega Matteo Salvini aveva incoraggiato i lombardi a non fermarsi e il governo ad «aprire, spalancare» tutto. Lo stesso sentimento fu espresso dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, insieme a quelli dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, sostenuti con energia dalle potenti associazioni degli imprenditori locali, che il 3 marzo si incontrarono con il presidente della Regione Attilio Fontana per esprimergli la loro preoccupazione sul rischio che avrebbe comportato la creazione di una nuova “zona rossa”.
Mentre il numero di casi aumentava e la provincia di Bergamo diventava quella in cui il contagio si sviluppava più rapidamente, la decisione di imporre una “zona rossa” venne discussa in un rimpallo tra Regione e governo durato due settimane. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo polizia e carabinieri erano pronti a chiudere un’area che comprendeva almeno i due comuni di Alzano e Nembro, ma alla fine l’opinione prevalente fu che il contagio fosse oramai così esteso che bloccare quei due comuni non avesse più senso. Al posto della zona rossa si scelse di mettere in atto una più blanda “zona arancione” in tutta la regione, un’area di quarantena più estesa ma con regole molto meno severe. Pochi giorni dopo la quarantena venne estesa al resto del paese.
Il contagio era diventato ormai impossibile da contenere: l’unica soluzione era cercare di sopprimerlo, limitando al massimo le interazioni tra le persone e cercando di diminuire la pressione sul sistema sanitario, che nel resto di marzo sarebbe diventata altissima fino al punto da non poter ricoverare nei reparti di terapia intensiva tutti i pazienti che ne avevano bisogno. Questa terza fase è quella in cui ci troviamo ancora oggi.
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I medici di famiglia
Una volta iniziata un’epidemia i medici di medicina generale – o medici di famiglia, come sono spesso conosciuti – sono la prima linea di difesa per la popolazione. Le persone si rivolgono a loro quando scoprono di avere sintomi sospetti, e sono sempre loro a conoscere il territorio e a presidiarlo in modo capillare. In Lombardia lavorano circa 7 mila tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e guardie mediche, che svolgono lo stesso ruolo dei medici di famiglia la notte e durante le festività. Durante un’epidemia il loro compito principale è fornire le prime cure: quelle che in molti casi permettono ai malati di non andare in ospedale, dove rischiano di trasmettere il contagio a operatori sanitari e altri pazienti, di prendersi qualche altra malattia o, semplicemente, di sovraccaricare una struttura già in difficoltà.
Per tutto febbraio e per le prime settimane di marzo, i medici di famiglia hanno continuato a visitare i propri pazienti spesso senza alcun dispositivo di protezione, tranne i pochi che riuscivano ad acquistare privatamente, mentre le modeste scorte accumulate dalla Regione Lombardia erano riservate al personale ospedaliero, a sua volta in grande difficoltà. Per via del loro ruolo, i medici di famiglia hanno subito il primo impatto della pandemia, e tra gli operatori sanitari ne hanno pagato il prezzo più alto: dei 150 medici morti durante l’epidemia, quasi la metà sono medici di famiglia.
A complicare ulteriormente il loro lavoro si sono aggiunte le storiche difficoltà di relazione con il resto del sistema sanitario regionale. «La nostra categoria è stata completamente abbandonata al suo destino», ha detto Michele Marzocchi, medico di famiglia che riceve a Milano. «Non abbiamo ricevuto nulla nel vero senso della parola, non sapevamo come agire, cosa fare», ha detto Renato Facconi, che lavora in un ambulatorio di Vimodrone, in provincia di Milano, e ha contratto la COVID-19 alla fine di febbraio.
Fin dall’inizio della pandemia, i medici di medicina generale raccontano di aver operato senza linee guida per segnalare e trattare i casi sospetti. Le comunicazioni che arrivavano dalle direzioni sanitarie locali erano spesso in contrasto l’una con l’altra, e a volte contenevano richieste semplicemente impossibili da realizzare. Ad alcuni di loro, per esempio, venne chiesto di distribuire mascherine fuori dai loro studi, ma nessun dispositivo di protezione venne loro consegnato dalla Regione e le scorte disponibili nelle farmacie terminarono rapidamente.
In una situazione ideale, i medici di famiglia sono un anello di congiunzione essenziale tra popolazione e sistema sanitario. Quando un paziente positivo viene intubato e sedato, per esempio, il medico di famiglia è la persona che più facilmente può raggiungere i suoi parenti e i suoi altri stretti contatti per avvertirli di mettersi in isolamento. Raramente però le autorità regionali hanno potuto utilizzarli per quello scopo.
Diversi medici hanno raccontato di aver saputo della positività dei loro pazienti dagli stessi parenti. In altri casi, senza il numero di telefono dei familiari e con il paziente ricoverato impossibilitato a comunicare, non ne hanno più avuto notizie per settimane. Inoltre, ancora alla fine di aprile, per i medici di famiglia è quasi impossibile richiedere un tampone per verificare se loro stessi o un loro paziente fosse stato contagiato. Un medico di famiglia ha raccontato al Post che dopo due casi di positivi al coronavirus nel suo ambulatorio di sei medici ha dovuto far mandare una lettera da un avvocato all’azienda sanitaria locale per ottenere un tampone.
La situazione è stata particolarmente difficile a Bergamo, dove i medici di medicina generale sono meno che altrove. Qui ogni medico di famiglia ha circa 1.600 pazienti, contro i 1.300 della media regionale, il numero raccomandato dalle linee guida della Regione Lombardia. Al picco dell’epidemia, le guardie mediche della provincia di Bergamo ricevevano fino a 40 chiamate al giorno l’una. E mancavano non solo mascherine, camici e guanti, ma anche saturimetri e bombole d’ossigeno, due strumenti necessari per trattare i casi più lievi a casa ed evitare un sovraccarico degli ospedali. A un certo punto la carenza di bombole è diventata così grave che i carabinieri hanno dovuto passare di casa in casa a recuperare quelle esaurite che le famiglie cercavano di conservare in caso di nuovi peggioramenti.
Il governo della Regione Lombardia è oggi consapevole di queste difficoltà e della necessità di porvi rimedio. Una risoluzione votata dal Consiglio regionale alla fine di aprile invita la giunta a richiedere al governo nazionale di trasformare i medici di medicina generale in dipendenti della sanità regionale a tutti gli effetti. Le organizzazioni dei medici di famiglia però hanno definito quest’idea “una catastrofe”. Per loro è l’ennesimo tentativo di centralizzare la sanità lombarda e concentrarla su un settore che ritengono abbia ricevuto fin troppe attenzioni: gli ospedali.
La marea
Quando il contagio in Lombardia si rivelò impossibile da contenere, e la medicina territoriale non più in grado di arrestarlo, furono i rinomati ospedali lombardi a diventare la prima linea nella lotta all’epidemia. Provando a descrivere quello che accadde in quei giorni, medici e operatori sanitari hanno spesso usato metafore che richiamano le alluvioni, le maree, gli tsunami, e l’idea di un pericolo imminente di essere sommersi.
I numeri restituiscono una pallida idea di cosa questo abbia significato in pratica.
Il 4 marzo, mentre governo e regione discutevano la possibilità di istituire una nuova “zona rossa” ad Alzano Lombardo, i casi accertati in regione erano circa 2.000, i pazienti ricoverati erano 1.500 e circa 200 quelli in terapia intensiva. Tre giorni dopo i contagiati e i ricoverati in terapia intensiva erano raddoppiati. Nel giro di appena due settimane, tutti questi numeri sarebbero aumentati di quasi dieci volte.
Di fronte a questa ondata di nuovi casi, la prima reazione degli ospedali fu di stravolgere il loro normale operato. Nell’ospedale di Bergamo, così come in quelli di Lodi, Cremona, Crema, San Donato, Brescia e altri, interi reparti – in alcuni casi interi piani – furono convertiti a spazi destinati ai pazienti positivi al coronavirus, dopo avere trasferito altrove gli altri malati. Medici di altre specialità, come dermatologi, urologi, cardiologi e infermieri addetti ad altri reparti, furono trasferiti ai reparti COVID-19 dopo aver seguito corsi di formazione messi in piedi in fretta dalle direzioni sanitarie.
A partire dalla prima settimana di marzo, gli sforzi dei singoli ospedali iniziarono a essere coordinati dall’unità di crisi regionale. Tutti i pazienti che avevano bisogno di terapie non differibili furono trasferiti in 18 ospedali “hub”, divisi per specializzazioni, così da lasciare libera la maggior quantità di spazio possibile nel resto della regione. Il resto dei circa 150 presidi sanitari regionali furono convertiti in ospedali COVID-19, in cui furono concentrati i pazienti infetti e i macchinari, in particolare ventilatori e posti di terapia intensiva necessari per curarli.
Questi ultimi divennero presto indispensabili. Quando l’infezione ai polmoni diviene così estesa da impedire la respirazione, l’unica soluzione è mettere il paziente in anestesia e intubarlo, cioè somministrargli ossigeno direttamente nei polmoni tramite un tubo, nella speranza che nel frattempo il suo sistema immunitario, aiutato dai farmaci, riesca ad eliminare il virus.
Quando l’8 marzo l’intera Lombardia venne messa in isolamento, la regione aveva poco più di 700 posti di terapia intensiva, di cui quasi 500 già occupati da malati COVID-19. Lo sforzo principale delle autorità sanitarie, a quel punto, divenne ampliare questa capacità. I posti di terapia intensiva, quelli riservati ai pazienti più gravi, furono raddoppiati, in alcuni ospedali triplicati, quadruplicati, o più. Alla fine di marzo, dopo uno sforzo titanico, i posti di terapia intensiva in Lombardia erano stati portati a 1.400.
Secondo un giudizio quasi unanime, il sistema ospedaliero lombardo è la parte della sanità regionale che ha funzionato meglio di fronte alla crisi. Facconi, il medico di famiglia di Vimodrone, è stato ricoverato il 28 febbraio all’ospedale San Raffaele di Milano, una struttura privata che prima dell’emergenza aveva quattro posti di terapia intensiva, diventati 60 alla fine di marzo anche grazie alle donazioni di privati. «In un momento di grossa difficoltà hanno tirato fuori capacità di lavoro fuori dall’ordinario», ha detto Facconi ricordando il suo periodo nell’ospedale. Ma ci tiene a precisare che, dall’esperienza di colleghi e conoscenti, in generale la gestione di tutti gli ospedali è stata all’altezza, e ha sfiorato l’eroismo nelle province più colpite.
Il prezzo di questo successo, però, è stato alto. A Bergamo, l’emergenza in Val Seriana e nel resto della provincia è stata affrontata soprattutto dal grande ospedale Giovanni XXIII, dove medici e personale sanitario si sono sottoposti a turni estenuanti per cercare di tenere in funzione i reparti di terapia intensiva e subintensiva. Soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, quando i dispositivi di protezione erano scarsi, molti di loro sono stati esposti al contagio, ma soltanto in pochi hanno ricevuto il tampone e ancora meno hanno potuto prendere un periodo di riposo.
Anche la condizione dei pazienti, isolati e senza la possibilità di ricevere visite dei familiari, in quei giorni è stata drammatica. Migliaia di persone hanno saputo della morte dei loro cari soltanto in seguito alla telefonata di un medico arrivato alla fine di un turno massacrante. Quando nelle settimane centrali di marzo l’epidemia raggiunse il picco, i medici paragonarono quello che stavano vivendo a un cataclisma naturale.
Il numero dei ricoverati durante il picco della crisi è stato usato da molti per criticare il sistema lombardo e la sua gestione prevalentemente ospedaliera della crisi, naturale espressione del sistema sanitario regionale. All’inizio di aprile, quando i ricoverati negli ospedali del Nord Italia hanno raggiunto il picco in numeri assoluti, la Lombardia è arrivata ad avere in ospedale quasi la metà di tutti i positivi al coronavirus in regione. In Veneto, nello stesso periodo, lo stesso rapporto era intorno al 25 per cento. Nelle fasi iniziali dell’epidemia la percentuale aveva sfiorato l’80 per cento in Lombardia, mentre non ha mai superato il 35 per cento in Veneto.
Secondo Crisanti, il microbiologo che ha consigliato la regione Veneto, «l’epidemia è una battaglia che si vince nel territorio e non nelle corsie: ricoverare le persone che potevano essere gestite a casa era dannoso per l’ospedale stesso». Ma nonostante queste valutazioni, quasi tutte le persone che hanno parlato con il Post sostengono che in quei giorni negli ospedali di Bergamo, Cremona e Lodi, le tre province più colpite, non c’era nessun ricoverato che non avesse bisogno di cure specialistiche all’interno degli ospedali. L’enormità del rapporto tra contagiati e ricoverati non era dovuta a un eccessivo ricorso alle ospedalizzazioni ma al fortissimo ritardo della Lombardia sui tamponi, che permetteva di testare solo i pazienti in condizioni gravi.
La pressione sugli ospedali iniziò ad allentarsi solo dopo la metà di marzo. Ma in quei giorni, mentre gran parte dell’attenzione era ancora concentrata sugli sforzi per moltiplicare i letti di terapia intensiva, l’opinione pubblica iniziò ad accorgersi che mentre – al prezzo di immensi sforzi – gli ospedali erano più o meno riusciti a reggere, in un altro punto il sistema sanitario regionale era stato travolto.
La strage delle RSA
Quando nel 2010 i tecnici della Regione Lombardia sottoposero il loro rapporto sulla preparazione alle pandemie alla giunta regionale, all’ultimo punto del loro elenco scrissero che la regione non aveva messo in campo alcuna azione per rafforzare la protezione delle RSA, le case di cura per malati non autosufficienti che ospitano soprattutto anziani. Durante un’epidemia, le RSA sono il punto più debole di qualsiasi sistema sanitario: sono posti in cui, in spazi spesso ristretti, sono ospitate decine e in alcuni casi centinaia di anziani, in genere deboli e affetti da patologie precedenti.
In condizioni normali le RSA sono luoghi in cui le persone, parenti, medici e infermieri, entrano ed escono di continuo. Durante un’epidemia è facile che una di queste persone trasporti all’interno della struttura il virus. A quel punto la trasmissione è quasi assicurata. In un luogo dove le persone hanno spesso bisogno di essere imboccate e lavate, mantenere la distanza di sicurezza è impossibile.
Secondo una dozzina di testimonianze raccolte dal Post, dal rapporto del 2010 a oggi la situazione non è migliorata. La Regione non aveva abbastanza dispositivi di protezione da distribuire a medici e operatori delle case di cura, così come non ne aveva per tutte le altre articolazioni della medicina territoriale. La complessa struttura organizzativa della sanità regionale aggiunse ulteriori complicazioni, con diversi dirigenti che fornivano messaggi e linee guida contrastanti. Quando una RSA della provincia di Bergamo annunciò la chiusura alle visite, per cercare di bloccare l’ingresso del contagio nella struttura, si vide minacciare dalla dirigenza sanitaria locale il ritiro della convenzione con il sistema sanitario regionale se non avesse riaperto.
Altre decisioni della Regione sulle RSA sono diventate oggetto di controversie e indagini giudiziarie. Quando la situazione negli ospedali era diventata critica, la Regione Lombardia decise di utilizzare le RSA come ricovero per pazienti COVID-19 non gravi: una scelta che i rappresentanti delle associazioni delle case di riposo definirono «mettere un fiammifero in un pagliaio». Nonostante le forti pressioni della regione, soltanto una dozzina di RSA accettarono i pazienti malati di COVID-19. Anche se questa decisione rimane ancora oggi una delle più discusse, oltre che oggetto di indagini della magistratura, il contagio si è diffuso nelle RSA anche dove i pazienti COVID-19 non furono mai accettati.
In una RSA della Val Seriana, soltanto nel mese di marzo sono morti 45 ospiti su 143: quasi tutti avevano i sintomi della COVID-19. Nelle RSA della provincia di Bergamo dal primo gennaio alla fine di aprile sono morti 1.998 ospiti sui 6.100 totali: un terzo, e 1.322 in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Numeri simili di decessi si sono visti in decine di altre strutture della regione.
I racconti che arrivano dalle case di cura sono tra i più strazianti di tutta l’epidemia. I familiari delle persone ricoverate si sono riuniti in gruppi su internet per condividere le loro storie e chiedere che venga fatta chiarezza su quello che è accaduto ai loro parenti. «Dov’è mia mamma?», chiedeva il 22 aprile Fernanda, nel gruppo del Pio Albergo Trivulzio, la più grande RSA della provincia di Milano. Poco prima, lo staff del Trivulzio le aveva comunicato che sua madre, positiva al coronavirus, era stata trasportata all’ospedale Sacco, ma all’ospedale sembravano non sapere nulla del suo caso. Due giorni dopo, Fernanda scriveva nel gruppo: «Ho appreso da poco la notizia che la mia mamma è mancata questa sera».
Secondo un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, nei mesi di febbraio e marzo in 266 RSA della Lombardia 1.625 persone sono morte per COVID-19 o sintomi influenzali riconducibili alla COVID-19. Il dato è ancora incompleto, visto che coinvolge solo una parte minoritaria delle circa 700 strutture presenti in regione, ma sembra comunque confermare un sospetto che circolava da tempo: centinaia se non migliaia di persone sono morte nelle RSA senza che venisse effettuato loro un tampone, sfuggendo così alle statistiche ufficiali.
Le autorità regionali
Nel bene e nel male, le principali scelte su come affrontare la pandemia sono state prese dalle autorità regionali e in particolare da due persone: il presidente della Regione, Attilio Fontana, e il suo assessore al Welfare e alla Sanità, Giulio Gallera. Arrivati relativamente da poco tempo alla guida della Regione in seguito a scossoni interni ai loro partiti, Fontana e Gallera si sono trovati, loro malgrado, a dover gestire la più grande crisi sanitaria dal dopoguerra.
Fontana, presidente della Lombardia dal 2018, è un avvocato di 68 anni entrato in politica piuttosto tardi. Nel 1995, quando aveva già 43 anni, fu eletto con la Lega a sindaco del piccolo comune di Induno Olona, in provincia di Varese. Dopo un successivo mandato al Consiglio regionale, e dopo essere stato eletto due volte sindaco di Varese, Fontana era vicino alla pensione e pronto a terminare una carriera politica che non aveva mai attirato particolari attenzioni. Ma quando lo scontro tra il segretario della Lega Matteo Salvini e l’allora presidente leghista della Lombardia, Roberto Maroni, arrivò al culmine, Fontana si ritrovò di colpo al centro della politica regionale. A soli tre mesi dalle elezioni Maroni annunciò di non volersi candidare per un secondo mandato alla guida della Regione Lombardia, nella speranza di ottenere un incarico a livello nazionale. Fontana, che nello scontro in corso non aveva preso particolari posizioni e non sembrava una minaccia né per Salvini né per Maroni, si trovò candidato del centrodestra alla carica di presidente della regione.
A digiuno o quasi di politica regionale, dopo la sua vittoria alle elezioni Fontana si trovò affiancato nell’incarico più importante, quello di assessore al Welfare e alla Sanità, da un politico più giovane ma con un’esperienza più consolidata della sua: Giulio Gallera. Come Fontana, anche Gallera è un avvocato, ha 51 anni e fa politica da quando ne aveva 20. Gallera ha svolto tutta la sua carriera a Milano e all’interno di Forza Italia, il partito di cui fa parte fin dalla fondazione. Dal 2012 è entrato nel Consiglio regionale e anche lui, come Fontana, ha fatto un balzo in avanti dopo gli scossoni interni del suo partito. Nell’ottobre 2015, infatti, l’allora assessore al Welfare della giunta Maroni, Mario Mantovani, coordinatore regionale di Forza Italia, venne arrestato con l’accusa di corruzione. Nonostante non avesse alcuna esperienza in sanità, Gallera all’epoca era il personaggio più in vista nel gruppo di Forza Italia al Consiglio regionale: fu scelto quindi per sostituirlo, mantenendo l’incarico anche con la nuova giunta guidata da Fontana.
Durante la crisi Fontana e Gallera hanno occupato un ruolo centrale nel rappresentare la risposta della Lombardia alla crisi. Hanno dato decine di interviste ai media nazionali e internazionali, sono apparsi quasi quotidianamente in televisione e hanno difeso con forza il loro operato. Nella pratica, però, si sono intromessi poco nella gestione tecnica degli ospedali. Nella prima fase le direzioni sanitarie degli ospedali hanno agito largamente riorganizzandosi in maniera autonoma, sotto la pressione del numero crescente di casi. Nella fase successiva, l’organizzazione degli hub per i pazienti non COVID-19, il potenziamento delle terapie intensive e gli spostamenti di medici da una provincia all’altra sono stati lasciati alla gestione dell’unità di crisi. Dopo un primo momento in cui l’interlocuzione con Gallera e Fontana era quotidiana, dalla metà di marzo l’unità di crisi ha lavorato sempre più in autonomia, limitandosi a inviare all’assessorato testi di circolari e delibere da approvare.
Se il coordinamento tecnico è stato affidato in larga parte a esperti e medici, però, alcune decisioni fondamentali sono state prese dalla politica, e sulla base di priorità a volte diverse da quelle strettamente connesse alla salute pubblica. La decisione di costruire un ospedale temporaneo negli edifici della fiera di Milano, per esempio, è stata presa da Gallera. Inizialmente l’ospedale, costato circa 20 milioni di euro, avrebbe dovuto avere 400 posti di terapia intensiva, poi ridotti a 200. Al momento della sua apertura, all’inizio di aprile, i malati ospitati al suo interno erano solo 24. Per quanto aumentare i posti di terapia intensiva non faccia male, mentre si è alle prese con un’epidemia che potrebbe raggiungere nuovi picchi alla fine delle restrizioni, molti hanno accusato la Regione di aver concentrato attenzioni eccessive sull’ospedale temporaneo in un momento in cui le priorità dovevano essere altre, se non addirittura di voler solo ottenere pubblicità. A queste accuse la Regione ha risposto che l’ospedale sarà ancora disponibile se nelle prossime settimane i numeri dell’epidemia dovessero tornare a crescere.
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Un’altra decisione che ha generato grandi controversie è stata la frettolosa riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, due giorni dopo la chiusura di quello di Lodi e dopo aver trovato due contagiati tra i ricoverati. L’ordine arrivò da Luigi Cajazzo, ex poliziotto e principale dirigente dell’assessorato alla sanità. Gallera ha rivendicato la scelta. Nei giorni seguenti, durante la discussione se creare una nuova “zona rossa” nella bergamasca, la Regione si consultò almeno una volta con le associazioni di imprenditori per decidere cosa fare. Alla fine decise di accettare la decisione del governo di non creare una nuova “zona rossa”, nonostante la situazione preoccupante e nonostante nel frattempo altre regioni avessero istituito in autonomia zone di quarantena rafforzata in seguito a focolai molto meno rilevanti di quello della Val Seriana.
La controversa decisione di utilizzare le RSA per ospitare pazienti affetti da COVID-19 è un altro punto critico della gestione regionale dell’epidemia. Fontana ha attribuito tutta la responsabilità della scelta alle strutture tecniche, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che l’intera giunta abbia condiviso la decisione e abbia spinto affinché venisse attuata. La struttura incaricata di smistare i casi tra le RSA, il Pio Albergo Trivulzio di Milano, è sotto diretto controllo regionale, e la Regione ha fatto pressioni affinché le RSA accettassero pazienti positivi. Il gestore di una casa di cura milanese ha raccontato di aver ricevuto per giorni decine di telefonate da parte dei funzionari regionali.
Medici, sindaci e cittadini hanno criticato duramente la mancanza di preparazione della Lombardia sui tamponi e la scarsa trasparenza ed efficienza con cui la Regione ha gestito il tracciamento dei contatti dei contagiati. La Regione Lombardia non è mai stata in grado di effettuare il tampone a tutti i sintomatici, come prescritto dalle linee guida del ministero della Salute: e anzi nella maggior parte dei casi, e specialmente nelle aree più colpite, ha potuto farli quasi esclusivamente ai pazienti così gravi da dover essere ricoverati in ospedale. E i dati ISTAT sulla mortalità suggeriscono che migliaia di persone siano comunque morte senza mai essere testate. Per migliaia e migliaia di casi sospetti nelle RSA e nelle loro case, per esempio, i test non sono mai stati fatti. Tra marzo e aprile chiunque avesse a che fare con l’epidemia sul territorio ha confermato questa situazione: «i tamponi non esistono», aveva detto eloquentemente al Post Fabrizio Lazzarini, direttore della più grande struttura geriatrica di Bergamo.
Piuttosto che ammettere i problemi e chiedere aiuto alle altre regioni o alla Protezione Civile, Gallera e Fontana ne hanno negato a lungo l’esistenza. In una lettera inviata ai sindaci lombardi alla fine di marzo, quando il problema dei tamponi era oramai evidente, Fontana scriveva che il tampone veniva fatto a «tutti i soggetti che manifestano sintomatologie cliniche compatibili con le indicazioni emanate dal Ministero della Salute». Più volte in quei giorni Fontana ha detto che la Regione Lombardia «ha rigorosamente seguito i protocolli» sui tamponi, una cosa che si può definire falsa senza timore di smentite.
La difficoltà nel chiedere aiuto e nell’ammettere i problemi nella gestione dell’epidemia deriva in parte anche dai rapporti che la giunta regionale ha avuto con il governo, che hanno continuamente oscillato tra il cattivo e il pessimo. Gli scontri erano iniziati già il 25 febbraio, quattro giorni dopo il primo contagio rilevato a Codogno, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva detto che un ospedale lombardo non specificato non aveva rispettato i protocolli. Il giorno dopo Fontana abbandonò per protesta una teleconferenza tra governo e regioni. Successivamente Conte non è più tornato sull’argomento, e non ha circostanziato le sue critiche.
I rapporti non sono migliorati con il passare del tempo. La Regione, per esempio, ha accusato il governo e la Protezione Civile di non aver fornito un numero sufficiente di mascherine e di non aver provveduto ai materiali necessari per approntare l’ospedale alla Fiera di Milano. Altri piccoli conflitti hanno punteggiato tutta la crisi. La conferenza stampa quotidiana regionale – in realtà una semplice diretta senza domande dei giornalisti – per gran parte dell’epidemia si è svolta alle 18, in diretta concorrenza con quella concomitante della Protezione Civile nazionale. Dal canto suo il governo di Roma non ha fatto mistero della sua preferenza per il “modello Veneto”, la regione che fin dalla fine di gennaio si era messa nelle condizioni di realizzare un numero molto elevato di tamponi e attuare una più sofisticata strategia di tracciamento dei contatti.
In generale, man mano che l’epidemia avanzava e la Lombardia diventava la regione di gran lunga più colpita del paese, l’amministrazione si è chiusa sempre di più in difesa del suo operato. L’8 aprile, per esempio, l’assessore alla Protezione Civile Pietro Fioroni è arrivato ad annunciare che «fino a questo momento le abbiamo azzeccate tutte», mentre Fontana si è difeso in un’intervista, sostenendo «Mi contesteranno qualsiasi cosa, ma rifarei tutto», salvo poi aggiungere che forse avrebbe dovuto coinvolgere di più l’opposizione.
L’opposizione, in effetti, non è mai stata coinvolta nella gestione della crisi. Diversi consiglieri regionali del PD e di +Europa-Radicali hanno raccontato al Post di aver avuto grandi difficoltà nell’interloquire con la maggioranza e con la Lega. Non esiste, per esempio, un documento pubblico che illustri i componenti dell’unità di crisi. Tutte le domande e le richieste di chiarimenti, che arrivassero dall’opposizione o dalla stampa, dovevano ufficialmente passare per i portavoce di Fontana e Gallera: i quali, soverchiati dalla mole di richieste, spesso non sono riusciti a tenere il passo con la necessità di fornire maggiori informazioni. Né all’opposizione, né alla stampa.
Al contrario di quella nazionale, infatti, la conferenza stampa quotidiana regionale sull’epidemia non prevedeva domande dei giornalisti. Nelle aree più colpite, come la bergamasca, le strutture sanitarie locali hanno proibito a medici e operatori sanitari di parlare con la stampa e diverse lettere di diffida sono state spedite a chi lo ha fatto. In generale, la Regione ha mostrato opacità nel diffondere dati e numeri sulla crisi. I numeri dei decessi per provincia, per esempio, tuttora non vengono diffusi pubblicamente, insieme ad altri dati e ricerche potenzialmente molto importanti per ricostruire la storia del contagio in Lombardia.
Il bilancio
Alla fine di aprile, secondo i numeri ufficiali diffusi dalla Regione, in Lombardia ci sono stati quasi 77 mila contagi e 14 mila persone sono morte a causa della COVID-19. L’opinione di esperti e medici è concorde sul fatto che questi numeri siano una fotografia molto parziale di quello che è accaduto.
Durante il picco un numero crescente di medici e di malati denunciava sintomi chiaramente riconducibili alla COVID-19, ma riportava che non solo era impossibile ricevere un tampone, ma che spesso era difficile ricevere assistenza medica prima di un significativo peggioramento dei sintomi, e molto spesso solo in concomitanza con il ricovero ospedaliero. Nello stesso momento diversi sindaci, in particolare nella provincia di Bergamo, iniziarono a registrare un numero di morti insolito e molto superiore ai decessi ufficiali dovuti al coronavirus.
A metà del mese un conteggio non ufficiale realizzato dai comuni di Bergamo, Alzano e Nembro mostrava una mortalità rispetto all’anno precedente doppia, tripla o addirittura quattro volte superiore a quella dei morti ufficiali da coronavirus. In breve tempo divenne chiaro che una delle ragioni principali era la strage silenziosa che si stava consumando nelle RSA.
L’ISTAT, che tiene il conto dei decessi per qualsiasi causa quasi in tempo reale, ha iniziato a rilevare gli eccessi di mortalità rispetto agli anni precedenti, un numero che rivela non soltanto i morti a causa della COVID-19 a cui non si è potuto fare il tampone, ma anche coloro che sono morti per il sovraccarico del sistema sanitario. Pazienti che non sono stati ricoverati per via degli ospedali pieni, altri che per paura non si sono presentati al pronto soccorso, altri ancora che non hanno ricevuto in tempo il soccorso di un’ambulanza.
Anche il numero ufficiale dei contagiati è stato senza dubbio largamente sottostimato. Con le strutture sanitarie sotto pressione per la marea montante dei casi, la Regione impreparata a eseguire un vasto sforzo di tracciamento del contagio e la medicina territoriale paralizzata dai suoi storici conflitti, è stato ed è impossibile conoscere la reale estensione del contagio. Nel sistema lombardo, infatti, chi ha contratto il virus ma non ha ricevuto il tampone non esiste.
– Leggi anche: Chi non ha fatto il tampone non esiste
In teoria le aziende sanitarie avrebbero dovuto tenere traccia dei casi più probabili di contagio, cioè delle persone che avevano avuto contatti stretti con i casi accertati, e sottoporli a un regime di sorveglianza rafforzata. Di fatto, questo compito si è rivelato superiore alle loro possibilità: e non solo per i tamponi insufficienti. Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, ha detto che dall’inizio dell’epidemia l’elenco dei “contatti” ricevuto dal suo comune è sempre stato più corto di quello dei “casi accertati”, che include le persone risultate positive al tampone. Decine di migliaia di contagiati, forse centinaia di migliaia, hanno continuato a potersi muovere liberamente, a vivere normalmente nelle abitazioni con i loro familiari, contribuendo a diffondere la malattia.
Soltanto nei prossimi mesi sapremo a quanto veramente ammonta il bilancio dell’epidemia, e forse i veri numeri non li conosceremo mai. Non è impossibile che alla fine il numero di persone che hanno contratto la malattia risulti fino a dieci volte il numero ufficiale. Il numero delle persone morte per le sue conseguenze potrebbe essere fino al doppio dei morti ufficialmente accertati.
Di fronte a numeri così grandi è inevitabile che molti oggi si siano messi alla ricerca di uno o più colpevoli. Gli imputati sono noti. La gestione politica della crisi da parte di una dirigenza regionale accusata di essere lenta, impreparata e più attenta al proprio consenso che alla salute pubblica. Un sistema sanitario concentrato su ospedali e poli di eccellenza che da tempo trascura il territorio. L’eccessivo affidamento sui privati, che per la loro stessa natura e la forma che hanno in Lombardia non possono offrire lo stesso supporto territoriale delle strutture pubbliche in una situazione di emergenza.
Massimo Galli, virologo dell’ospedale Sacco di Milano e uno degli esperti più ascoltati durante la crisi, è stato tra i critici più duri di questo sistema. In una recente intervista televisiva ha allargato lo spettro delle sue critiche, attaccando l’autonomia del sistema sanitario italiano, in cui ogni regione è libera di fare per sé e raramente presta aiuti e risorse significative alle altre. «Una delle lezioni di questa epidemia è che la sanità va governata diversamente», ha detto Galli. «Mi farò un sacco di nemici, ma è un dato di fatto che così non si riesce a gestire». È una critica condivisa da molti medici, che durante il picco dell’epidemia hanno fatto notare come fosse più facile mandare pazienti in Germania che farli accogliere in Veneto, dove in diversi ospedali due terzi dei posti in terapia intensiva non sono mai stati occupati.
Oltre alla Regione, che ha respinto con decisione ogni critica, anche molti medici ed esperti di sanità lombardi hanno difeso però il sistema regionale. Tutti o quasi ammettono la debolezza della sanità territoriale, ma ricordano i successi della gestione ospedaliera e sostengono che il bilancio sarebbe stato ben peggiore se a essere colpita da una marea del genere fosse stata una regione priva delle eccellenze lombarde e della sua alta capacità di coordinamento.
Ad avere un ruolo importante è stata poi certamente la conformazione demografica e geografica della Lombardia, un territorio caratterizzato da città medio-grandi e alta densità abitativa e con i maggiori scambi con l’estero e il resto d’Italia. Non è un caso che tra le aree più colpite ci sia stata la Val Seriana, con i suoi chilometri ininterrotti di costruzioni e il suo intenso traffico commerciale.
Giuseppe Remuzzi, il direttore dell’Istituto Mario Negri e un osservatore critico della sanità italiana, non è sospettabile di simpatie per l’amministrazione regionale. Ma delle critiche al sistema, oggi, non parla volentieri. «È presto oggi per dare dei giudizi», ha detto al Post. In queste settimane Remuzzi ha lavorato a Bergamo. Da quest’osservatorio tragicamente privilegiato, ha visto da vicino il momento peggiore della pandemia, in cui ha perso amici, colleghi e conoscenti. Secondo lui, l’unica cosa certa al momento è che quello che è accaduto nella sua regione è stato un fenomeno senza precedenti. «C’è una componente di sfortuna in tutto questo», racconta. «Una componente di caos, accidentale. La Lombardia è stata colpita per prima, in maniera improvvisa e violentissima. Nessuno lo aveva previsto e non c’è stato tempo di prepararsi».
Probabilmente non sapremo mai quanto i limiti umani abbiano inciso sulla gravità dell’epidemia. Non arriveremo mai a conoscere quanti morti siano stati causati da fattori imponderabili e imprevedibili e quanti dai tagli alla sanità, dalla concentrazione sull’ospedalizzazione, dalla mancanza di un’integrazione del sistema sanitario con i territori, dall’eccessiva concentrazione dei privati nella ricerca dei profitti, dalle scelte e dagli errori della giunta regionale. Mentre in Italia centinaia di persone continuano a morire ogni giorno negli ospedali e nelle case di riposo, è probabilmente presto per formulare giudizi definitivi. Ma dopo che limiti ed errori sono venuti alla luce così chiaramente, avendo davanti una lunga fase di convivenza con il virus, non è tardi per iniziare a correggerli.