Il Sudan ha vietato le mutilazioni genitali femminili
Sono previste pene fino a tre anni di carcere, ma ci sono dubbi che una sola legge sia sufficiente a porre fine a una pratica molto diffusa e radicata
Il governo del Sudan ha vietato le mutilazioni genitali femminili (Mgf), tutte quelle pratiche in cui gli attributi genitali femminili esterni sono parzialmente o totalmente rimossi per motivi culturali, causando spesso grandi sofferenze fisiche e psicologiche. Nel paese, le pratiche di mutilazione genitale femminile sono molto diffuse e le Nazioni Unite stimano che nove ragazze su dieci in Sudan siano fino ad oggi state sottoposte all’asportazione dei genitali femminili esterni.
Il divieto è stato inserito la scorsa settimana in un emendamento al codice penale dal governo provvisorio del paese, in carica dallo scorso anno dopo la destituzione del dittatore Omar Hassan al-Bashir che era al potere da trent’anni. La nuova legge prevede una pena di tre anni di carcere per chi pratica mutilazioni genitali, oltre a una multa. Nimco Ali della Five Foundation, un’organizzazione che da tempo lavora per la fine delle mutilazioni genitali a livello globale, ha definito la decisione «un grande passo per il Sudan e il suo nuovo governo. L’Africa non può prosperare se non si prende cura di ragazze e donne».
Anche per Salma Ismail, portavoce sudanese dell’UNICEF, si tratta di una decisione importante nella storia del paese: «La legge aiuterà a proteggere le ragazze da questa pratica barbara e consentirà loro di vivere con dignità», ha spiegato. «E aiuterà le madri che non volevano mutilare le loro ragazze, ma sentivano di non avere scelta, a dire “no”».
Nonostante il provvedimento rappresenti una svolta importante, gli esperti avvertono che una sola legge non sarà probabilmente sufficiente a porre fine alla pratica. In molti paesi la mutilazione dei genitali femminili ha forti valenze culturali e religiose, è considerata un pilastro della tradizione e del matrimonio ed è sostenuta dagli uomini, ma anche dalle donne.
Le mutilazioni genitali sono praticate in almeno 27 paesi africani e in parti dell’Asia e del Medio Oriente. Oltre al Sudan e all’Egitto, sono molto diffuse in Etiopia, Kenya, Burkina Faso, Nigeria, Gibuti e Senegal.
La sopravvivenza della pratica, che provoca spesso infezioni che possono originare infertilità e complicazioni durante il parto, oltre a compromettere la salute psichica delle bambine e delle donne che la subiscono, sopravvive infatti in molti paesi africani nonostante sia formalmente vietata dalla legge.
In Egitto, ad esempio, la pratica è stata vietata nel 2008 e la legge è stata modificata nel 2016 per criminalizzare medici e genitori che la facilitano, con pene detentive fino a sette anni per l’esecuzione dell’operazione e fino a quindici se l’intervento causa disabilità o morte. Nonostante ciò, i procedimenti giudiziari sono rari e le operazioni continuano di nascosto. Secondo le Nazioni Unite il 70 per cento delle donne egiziane tra i 15 e i 49 anni sono sottoposte alla mutilazione, soprattutto prima dei 12 anni.
Negli ultimi anni però, grazie a campagne locali africane, ma anche globali, alcune comunità hanno iniziato lentamente a abbandonare la pratica che è considerata un rito di passaggio per diverse fedi. Gli attivisti sono riusciti in alcuni casi a escogitare riti alternativi alla mutilazione. Si stima che un programma di questo tipo promosso tra i Maasai del Kenya, dove la mutilazione è stata messa fuorilegge dal 2011, abbia salvato dalla mutilazione almeno 15.000 ragazze.
La maggior parte delle donne sudanesi subisce quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama “circoncisione di tipo III”, cioè una forma estrema di mutilazione in cui vengono rimosse le labbra interne ed esterne della vulva, e di solito anche il clitoride. La ferita viene quindi cucita e chiusa, in una pratica che è nota come “reinfibulazione”. Le conseguenze possono essere anorgasmia, forti dolori durante i rapporti sessuali, cisti e gravi infezioni.
La legge sul divieto delle mutilazioni genitali femminili è stata approvata in un periodo in cui in Sudan sono in vigore forti restrizioni a causa dell’epidemia da corononavirus, quindi non il più propizio per un’adeguata informazione della popolazione.
Nel governo dell’attuale primo ministro Abdalla Hamdok le ministre sono cinque e Hamdok ha portato all’abolizione delle leggi dell’era Bashir che stabilivano ciò che le donne potevano indossare o studiare, ma anche dove potevano riunirsi in pubblico. Il ministro degli affari religiosi, Nasr al-Din Mufreh, ha recentemente partecipato a una cerimonia in occasione della Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili durante la quale ha dichiarato che si tratta di «una pratica che il tempo, il luogo, la storia e la scienza hanno dimostrato di essere obsoleta», aggiungendo che non aveva giustificazione nell’Islam. Il ministro ha inoltre affermato di aver appoggiato l’obiettivo dei sostenitori della campagna di eliminare la pratica dal Sudan entro il 2030.