Cosa ci aspetta
Un lungo articolo del New York Times raccoglie analisi e previsioni di venti esperti di epidemie, salute e storia, delineando diversi scenari sul prossimo anno e forse di più
Il giornalista scientifico Donald G. McNeil Jr., che negli ultimi vent’anni ha seguito per il New York Times diverse epidemie in tutto il mondo, dall’AIDS a ebola alla SARS, ha scritto un lungo articolo in cui ha riassunto quanto gli hanno detto oltre venti esperti di salute pubblica, epidemiologia e storia su quello che ci aspetta nel prossimo anno. Quello di McNeil è uno dei più documentati e completi articoli usciti finora sulle potenziali conseguenze della pandemia da coronavirus: per quanto si rivolga a un pubblico statunitense, la maggior parte degli scenari descritti è utile per farsi un’idea di quello che potrebbe essere il futuro nel breve e medio termine anche in Europa e in Italia.
McNeil scrive che il piano presentato dal presidente statunitense Donald Trump per far ripartire l’economia per tornare al più presto a una relativa normalità «è più roseo di quello dei suoi stessi consiglieri in materia di sanità, e degli scienziati in generale». La verità, dice McNeil, è che nessuno sa dove ci stia portando la crisi sanitaria in corso, ma che «è impossibile evitare previsioni pessimiste per il prossimo anno». La teoria di Trump secondo cui le misure restrittive termineranno presto, e che stadi e ristoranti torneranno a breve a essere pieni, «è fantasia».
«Ci aspetta un futuro triste», dice Harvey V. Finberg, ex presidente dell’Accademia Nazionale per la Medicina. Lui e altri prevedono una popolazione infelice intrappolata al chiuso per mesi, con i più vulnerabili verosimilmente in quarantena più a lungo. Sono preoccupati che gli scienziati non riusciranno inizialmente a trovare un vaccino, che i cittadini esausti violeranno le restrizioni nonostante i rischi, e che il virus resterà con noi d’ora in poi»
La maggior parte degli esperti prevede che una volta che la crisi sarà finita, il paese e l’economia si riprenderanno in fretta. Ma non ci sarà modo di evitare un periodo di grande sofferenza.
Dove siamo
Attualmente la COVID-19 è probabilmente la principale causa di morte negli Stati Uniti: più delle malattie cardiovascolari e del cancro. Le curve dei decessi e del contagio sembrano aver raggiunto la fase del “plateau”, cioè di una crescita inferiore di giorno in giorno, e sembrano al di sotto dei modelli predittivi elaborati dal governo. Ma quella in corso è soltanto la prima ondata di contagi: e senza un vaccino, il coronavirus sarebbe destinato a rimanere in circolazione per anni. Senza misure restrittive, le previsioni dei CDC, i centri di controllo della sanità pubblica, dicono che verrà contagiato tra il 48 e il 65 per cento della popolazione americana, con 1,7 milioni di morti calcolati su un tasso di letalità dell’1 per cento.
Questo tasso è quello stimato sul bacino reale dei contagiati, che – negli Stati Uniti come in Italia – è molto maggiore di quello dei contagiati accertati. Nelle fasi iniziali di un’epidemia, testare estesamente la popolazione è complesso, e nel caso della COVID-19 quasi ovunque sfuggono ai controlli gli asintomatici, che secondo i CDC potrebbero essere fino al 25 per cento di chi risulta positivo al tampone. Ci sono studi secondo cui questa percentuale potrebbe essere doppia, o anche di più. L’attuale consenso scientifico è che i malati di COVID-19 siano contagiosi fin da alcuni giorni prima dello sviluppo dei primi sintomi.
Il martello e la danza
Gli esperti consultati da McNeil dicono che non è immaginabile un futuro in cui, senza vaccino, diventerà sicuro uscire di casa in massa. Se succedesse, la situazione sembrerebbe sotto controllo per circa tre settimane, e poi gli ospedali tornerebbero a riempirsi. Alla fase “del martello”, quella che ha l’obiettivo di abbattere le curve attraverso i lockdown, seguirà secondo gli epidemiologi quella che in un post su Medium diventato molto popolare è stata definita “la danza”. Cioè la riapertura graduale di alcuni settori dell’economia e della vita pubblica, che continuerà finché non ci saranno troppi nuovi contagi e saranno necessarie nuove chiusure. La speranza è che se le operazioni di test e tracciamento organizzate nel frattempo saranno efficienti, queste chiusure siano più tempestive e limitate geograficamente di quelle attuali.
– Leggi anche: Quanto durerà il distanziamento sociale?
Secondo McNeil, i nuovi aumenti dei contagi sono inevitabili anche tenendo chiusi stadi, locali e ristoranti: e maggiori saranno le restrizioni, più lunghi saranno i periodi che separeranno i lockdown più rigidi. Anche in Asia, dove spesso l’applicazione delle misure restrittive è più efficace e le operazioni di contact tracing più efficienti, posti come Singapore, Hong Kong e città cinesi sono stati costretti a nuove chiusure, dopo aver temporaneamente allentato i lockdown.
Immunità
Attualmente la scienza non ha ancora capito se e per quanto tempo il sistema immunitario mantenga la memoria del coronavirus, garantendo quindi una forma di immunità dopo essere stati contagiati. È il motivo per cui i test sierologici, di cui si sta tanto parlando, potrebbero darci risultati meno affidabili e significativi di quanto ci si aspetti. Ed è il motivo per cui a oggi sembra difficile immaginare che con i test sierologici si possa sviluppare uno strumento efficace e affidabile per quella che è stata definita “patente di immunità”, una specie di certificato che consentirebbe a chi ha già contratto la COVID-19 ed è guarito di tornare alla vita pubblica.
– Leggi anche: La complicata questione dei test sierologici
Ma anche nella prospettiva in cui questo possa accadere, spiega McNeil, ci sono implicazioni preoccupanti. Di fatto si creerebbero due categorie sociali, chi è immune e chi no, con i primi a cui sarebbe permesso di spostarsi e viaggiare, e i secondi a cui sarebbe impedito. Con il paradosso che, in futuro, una parte degli immuni potrebbero essere quelli che non hanno rispettato le restrizioni, entrando in contatto con altri, e che ciononostante – superata la malattia, che come sappiamo può provocare conseguenze gravi e gravissime anche su persone giovani e sane – sarebbero “premiati” con il permesso di tornare a spostarsi.
Un’altra ipotesi preoccupante, ammesso e non concesso che si possa sviluppare un’immunità da coronavirus: per molti, principalmente giovani, farsi contagiare volontariamente potrebbe diventare una prospettiva preferibile rispetto a rimanere chiusi in casa, magari senza poter lavorare e quindi avere un reddito. Successe qualcosa di simile a Cuba negli anni Ottanta, quando decine di senzatetto si infettarono volontariamente con l’AIDS per accedere ai centri di isolamento, che garantivano vitto e alloggio agli ospiti. In tanti morirono prima che fossero introdotte le terapie.
Test e isolamenti
Per riorganizzare la vita pubblica e privata nei prossimi due anni sarà fondamentale organizzare un sistema efficiente di test sulla popolazione e di isolamento per i malati, dice McNeil. Gli isolamenti domestici, che rappresentano attualmente un grosso problema anche in Italia, sono fortemente sconsigliati dall’OMS: i contagi famigliari rimangono uno dei maggiori, se non il maggiore, mezzi di diffusione del virus, in tempi di misure restrittive. Gli americani ne hanno avuto una prova lampante quando, dopo aver visto per giorni i video dell’anchorman della CNN Chris Cuomo nel seminterrato di casa, dove si era isolato per il coronavirus, hanno ricevuto la notizia che anche sua moglie era risultata positiva al tampone.
– Leggi anche: A che punto è il contact tracing in Italia
«Se dovessi scegliere un solo intervento, sarebbe il rapido isolamento di tutti i casi», ha detto Bruce Aylward, che ha guidato la missione di osservatori dell’OMS in Cina, dove chiunque risultasse positivo era confinato, anche contro la sua volontà, in una struttura apposita. Mantenere umane e sopportabili queste misure dovrà essere una priorità, ma secondo alcuni esperti non sarà possibile e per questo non sarà una strada praticabile.
Trovare il vaccino
Secondo Anthony Fauci, il rispettato e autorevole epidemiologo che sta consigliando Trump sulla gestione dell’epidemia (e che è sembrato spesso in disaccordo con le dichiarazioni del presidente), per sviluppare un vaccino per la COVID-19 ci vorranno almeno dai 12 ai 18 mesi. Gli altri esperti di vaccini consultati da McNeil hanno ritenuto questa tempistica fin troppo ottimista. Se le attuali tecnologie consentono infatti di sviluppare candidati per il vaccino molto più in fretta che in passato, i test clinici richiedono tempi che sono molto difficili da accelerare. Non c’è modo, infatti, di aumentare la velocità con cui il corpo umano produce anticorpi.
– Leggi anche: A che punto siamo con il vaccino contro il coronavirus
Normalmente, un vaccino è testato inizialmente su meno di cento giovani in salute: se sembra sicuro e efficace, il campione viene esteso ad alcune migliaia di persone, che potrebbero essere ipoteticamente operatori sanitari esposti al virus, a cui viene somministrato in parte il vaccino e in parte un placebo, per studiarne gli effetti. Questa fase si può teoricamente velocizzare con un processo noto come “challenge trials”, in cui i volontari a cui è somministrato il vaccino vengono deliberatamente contagiati.
Di solito questo procedimento viene utilizzato soltanto per malattie curabili, come la malaria o la febbre tifoide, spiega McNeil: farlo con la COVID-19, per cui non c’è ancora una cura certa, pone di fronte a enormi questioni etiche. La gravità della situazione globale rende accettabile esporre a un rischio mortale un gruppo ristretto di persone, per evitare di lasciarne centinaia di milioni a rischio per anni? Gli esperti consultati sono divisi su questo punto, ma hanno convenuto che è più che possibile che sia la strada che decideremo di intraprendere.
E poi distribuirlo
Secondo gli esperti consultati da McNeil, per quanto possa essere difficile sviluppare un vaccino, produrlo e distribuirlo a tutte le persone che ne avranno bisogno sarà ancora più complesso. Negli Stati Uniti, per esempio, le fabbriche di vaccini producono dalle 5 alle 10 milioni di dosi all’anno, utilizzate in larga parte per i 4 milioni di neonati e gli altrettanti neo-65enni. Ma l’ipotetico vaccino per la COVID-19 sarà necessario in 300 milioni di dosi, cioè per tutti gli americani: 600 milioni, se ne saranno necessarie due dosi. E serviranno altrettante siringhe. Se poi il vaccino renderà immuni solo per un certo periodo di tempo, bisognerà ripetere ciclicamente questa gigantesca produzione: non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo. Saranno fondamentali quindi le vaste produzioni di paesi come Cina, India, Brasile: ma si dovrà vedere come sarà a quel punto l’epidemia lì, per capire se potranno produrne per altri paesi.
Terapie
Prima del vaccino, saranno con ogni probabilità i progressi nelle terapie per la COVID-19 a fare la differenza. Gli anticorpi monoclonali, usati con successo contro ebola in Africa, sono quelli con maggiori prospettive di successo nel breve periodo, secondo gli esperti consultati da McNeil. Ma il loro sviluppo, come quello dei vaccini, richiede tempo, e allo stesso modo sarà complicato produrne a sufficienza per tutti: anche nell’ipotesi di sintetizzarli in apposite pillole, che dovrebbero essere prodotte più o meno nella quantità in cui sono prodotte oggi le aspirine.
Altri farmaci di cui si sta parlando come possibili alternative, come l’idrossiclorochina e l’azitromicina, richiedono altri test clinici: in passato l’utilizzo affrettato di farmaci promettenti per altre malattie – per esempio la talidomide – ha provocato gravi effetti collaterali, compresi migliaia di bambini nati con deformazioni.
Altre conseguenze
Tra gli altri scenari ipotizzati dagli esperti con cui ha parlato McNeil c’è poi quello della difficile cooperazione tra Stati Uniti e Cina. Trump è stato estremamente critico verso la gestione cinese dell’epidemia, e recentemente ha accusato l’OMS di esserne stata complice, annunciando di voler interrompere i finanziamenti all’organizzazione. L’OMS, spiega McNeil, è però anche «l’unica capace di coordinare una risposta» che sia basata su una cooperazione internazionale di dimensioni mai viste negli ultimi decenni. In futuro, la Cina potrebbe diventare il maggiore distributore mondiale di farmaci e vaccini per la COVID-19: non sarà un bel momento per essere in cattivi rapporti.
Nicholas Mulder, economista della Cornell University, ha previsto che l’economia possa risollevarsi in fretta, a crisi finita, come successo dopo entrambe le guerre mondiali. Ma quando finirà la crisi è una grande incognita, e le conseguenze psicologiche saranno più difficili da superare: l’isolamento e la povertà causati dai lockdown potrebbero aumentare i suicidi, i casi di violenze domestiche e i malati di depressione. In una prospettiva più a lungo termine, e in una delle poche note positive dell’articolo del New York Times, Mulder ha notato come dopo le guerre mondiali le società e le economie diventarono meno diseguali. Se il vaccino funzionerà, poi, la fiducia nella scienza potrebbe aumentare, con possibili conseguenze anche sulla percezione del cambiamento climatico.