Com’è possibile che il prezzo del petrolio sia “negativo”?
Significa che i produttori sono disposti a pagare pur di liberarsi delle scorte che non riescono più a immagazzinare
Per la prima volta nella storia il prezzo del petrolio è sceso sotto zero. Lunedì infatti il principale indice del prezzo del petrolio negli Stati Uniti – il WTI – è sceso di più di 50 dollari, arrivando a -37 dollari a barile. Significa che i venditori di petrolio sono disposti a pagare pur di disfarsi delle loro scorte. Cosa sta succedendo? E soprattutto, significa che se andate a fare il pieno sarete pagati dal vostro benzinaio?
Partiamo dall’ultima domanda, la cui risposta, come è facile immaginare, è no. Il prezzo della benzina è solo in parte la diretta conseguenza del prezzo del petrolio, cioè della materia prima. A questo si aggiungono i costi di raffinazione, di trasporto e le tasse. In Europa, inoltre, il petrolio non è ancora calato così tanto come negli Stati Uniti. Il Brent, l’indice del prezzo del petrolio venduto in Europa, è sceso da più di 60 dollari al barile a febbraio a poco più di 20: un record negativo, ma ancora decisamente sopra lo zero.
Le ragioni di questo calo sono piuttosto evidenti. Gli effetti della quarantena imposta su gran parte del mondo per fronteggiare la pandemia da coronavirus hanno limitato enormemente l’utilizzo delle automobili, degli aeroplani e degli altri mezzi pubblici e privati. Meno spostamenti significa meno domanda di petrolio: quando la domanda di un bene scende, è abbastanza intuitivo che anche il suo prezzo cali. Per farlo calare fino ad arrivare in territorio negativo, però, è necessario che succeda qualcosa di speciale.
In questo caso, quello che è accaduto è che la domanda rispetto alla quantità di petrolio estratto (almeno negli Stati Uniti) è divenuta così bassa che i proprietari delle raffinerie che trasformano il petrolio grezzo in benzina e altri carburanti hanno smesso di acquistarlo, poiché prevedono che a causa della pandemia da coronavirus la domanda di carburanti rimarrà a lungo molto bassa. I produttori di petrolio si sono così trovati ad accumulare scorte di petrolio fino a che lo spazio fisico a loro disposizione per stoccarlo è finito.
In questi giorni, la situazione è arrivata al punto in cui i possessori di petrolio, soprattutto i produttori, hanno iniziato a spendere denaro pur di liberarsi delle scorte che non riescono più a immagazzinare. Al momento, ha notato un articolo sul New York Times, uno dei business migliori nell’industria è possedere petroliere: non perché sia importante spostare il petrolio da una parte all’altra, ma semplicemente perché una petroliera non è altro che una gigantesca cisterna galleggiante.
La situazione è particolarmente grave negli Stati Uniti, un paese in cui i costi per estrarre il petrolio sono molti alti. Una parte consistente del petrolio estratto nel paese, infatti, è il cosidetto “shale oil”, il petrolio estratto con metodi particolarmente complicati e costosi che rendono anti-economico continuare la produzione quando i prezzi sono inferiori ai 40-50 dollari a barile.
In teoria i produttori potrebbero semplicemente smettere di produrre petrolio, così da risparmiarsi la necessità di trovare qualcuno che lo immagazzini da qualche parte a pagamento, ma in pratica le cose non sono così semplici. Un pozzo di petrolio non si accende o spegne con un semplice interruttore. Bloccare la produzione richiede tempo e ancora più tempo richiede farla ripartire, senza contare il rischio che il pozzo non ritorni più alla produttività precedente.
Se le cose continueranno così, i produttori saranno inevitabilmente costretti a chiudere, ma fino a questo momento molti hanno provato – o sono stati costretti – a cercare di resistere in un mercato estremamente ostile, sperando di superare le difficoltà senza dover interrompere la produzione, così da essere pronti a ripartire non appena la situazione dovesse riprendersi.
Le cose potrebbero leggermente migliorare nei prossimi mesi in seguito all’accordo raggiunto dall’organizzazione dei paesi produttori di petrolio (l’OPEC) e dalla Russia, per ridurre la produzione del 10 per cento, così da cercare di sostenere i prezzi (all’inizio di marzo, la decisione di questi due blocchi di non tagliare la produzione per ragioni di guerra commerciale era stata una delle cause del primo crollo nel prezzo del petrolio). Il taglio deciso a inizio aprile è il più significativo della storia, ma non è riuscito a impedire il crollo dei prezzi in questi giorni.
Per vedere i prezzi tornare a un livello stabile, probabilmente, anche gli americani dovranno ridurre significativamente la loro produzione. A differenza di Russia e Arabia Saudita, però, la produzione americana non si basa su società controllate dallo stato, a cui è facile ordinare aumenti o riduzioni, me è portata avanti da centinaia di aziende private che in caso di crisi prolungata rischiano di andare in bancarotta.
La riduzione della produzione americana, quindi, rischia di essere causata da una serie di fallimenti a catena nel settore. All’inizio di marzo, quando si erano manifestate le prime avvisaglie dell’attuale crisi, il governo americano aveva ipotizzato un intervento pubblico per salvare il settore e aiutarlo a superare la crisi. Molti sostengono che con ogni probabilità queste richieste torneranno a farsi pressanti nelle prossime settimane.