Come la peste può aiutare la Russia contro il coronavirus
I centri contro la malattia istituiti durante l'Unione Sovietica si stanno rivelando una risorsa importante contro la pandemia, ma per quanto?
In Russia i casi positivi al coronavirus finora rilevati sono poco meno di 30mila, e le autorità sanitarie hanno segnalato che circa 230 persone sono morte a causa della COVID-19, la malattia causata dal virus. Il New York Times ha segnalato che la presenza sul territorio di centri contro le malattie infettive come la peste bubbonica, risalenti ancora al periodo dell’Unione Sovietica, potrebbe avere favorito il contenimento dei casi nella prima fase dell’epidemia, anche se ora le autorità sanitarie russe sembrano meno ottimiste sulla possibilità di mantenere basso il numero dei nuovi contagi, e la comunità internazionale è scettica sull’affidabilità dei dati comunicati dal governo.
Dall’estremo oriente al Caucaso, la Russia conta 13 centri per il contenimento della peste, cui si aggiungono cinque centri di ricerca contro la malattia e diverse sezioni distaccate sul territorio. Uno dei laboratori più importanti ha sede a Mosca e di recente è stato attrezzato con nuovi macchinari, che possono essere utilizzati per l’analisi dei tamponi e quindi per la ricerca del materiale genetico del coronavirus (RNA) nei campioni prelevati dai casi sospetti.
Un altro importante centro di ricerca russo sulle malattie infettive è il Microbe nella città di Saratov, nella Russia europea a circa 850 chilometri sud-est di Mosca. Il centro era nato con l’obiettivo di occuparsi esclusivamente di peste bubbonica, ma negli ultimi anni le sue funzioni sono state estese per comprendere lo studio e le analisi su diverse altre malattie infettive come la febbre gialla, il colera e nelle ultime settimane il coronavirus.
La peste fa venire in mente le grandi epidemie del passato, ma in realtà in diversi paesi costituisce ancora oggi un rischio sanitario non indifferente. Diverse zone dell’ex Unione Sovietica sono esposte alla malattia, che si trasmette agli esseri umani attraverso alcune specie di roditori tramite le loro pulci, e in seguito da persona a persona. La peste è una malattia causata da un batterio, non da un virus come per la COVID-19, e di solito può essere curata con gli antibiotici, a patto di diagnosticarla per tempo. E non tutti hanno gli strumenti e le conoscenze per farlo, soprattutto nelle aree rurali e isolate degli ex paesi sovietici.
Alcuni anni fa, per esempio, un ragazzino in Kirghizistan uccise e scuoiò una marmotta che aveva cacciato. Cinque giorni dopo, i genitori lo trasportarono di fretta nell’ospedale del paese più vicino: aveva febbre alta e delirava. Gli fu diagnosticata la peste bubbonica e morì pochi giorni dopo.
La diagnosi rese necessaria l’attivazione di diversi protocolli per evitare che avvenissero nuovi contagi: le autorità sanitarie chiesero a quelle locali di mettere in quarantena la zona, ancora prima che la diagnosi fosse confermata. La polizia organizzò posti di blocco sulle strade principali, evitando che la popolazione potesse fuggire, nelle prime ore dell’attivazione della quarantena.
Gli stessi criteri di azione rapida, al primo sospetto di infezione, sono stati seguiti nelle ultime settimane per provare a contenere la diffusione del coronavirus. Lo scorso marzo, per esempio, nella regione kirghiza di Ysyk-Köl è stato applicato da subito l’isolamento dopo la scoperta di appena tre casi su una popolazione di mezzo milione di abitanti.
Anche se l’Unione Sovietica non esiste più, la Russia mantiene stretti rapporti di influenza politica e commerciale con diversi paesi sui quali un tempo aveva il controllo. Parte di questa influenza è esercitata tramite l’Unione economica eurasiatica (UEE) che oltre alla Russia comprende: Armenia, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan. A inizio gennaio, quando erano iniziate a circolare le prime informazioni dalla Cina su un nuovo coronavirus, i responsabili dei centri anti-peste di questi paesi iniziarono a riunirsi periodicamente per valutare iniziative comuni per ridurre il rischio di nuovi contagi.
Secondo alcuni analisti e osservatori, la rete di controllo sulle malattie infettive impostata ai tempi dell’Unione Sovietica ha permesso di facilitare il coordinamento ancora oggi, perché i singoli paesi mantengono strutture simili e con le stesse gerarchie al loro interno. Questo potrebbe avere aiutato la Russia a contenere il contagio, almeno nella sua fase iniziale, potendo contare su diversi paesi confinanti in cui la situazione è stata tenuta sotto controllo.
Ci sono però forti dubbi circa la capacità della Russia di mantenere gli attuali livelli di bassi contagi, ammesso che il governo russo stia comunicando dati affidabili. L’esistenza di un sistema sanitario sviluppato in epoca sovietica potrebbe avere favorito il paese, ma secondo altri esperti i vantaggi potrebbero svanire nel medio-lungo periodo.
Anche a causa della complessa situazione economica della Russia e dei numerosi casi di corruzione, negli ultimi anni il sistema sanitario ha ricevuto scarsi finanziamenti e non ha una rete per prevenire i contagi da malattie infettive paragonabile a quello di alcuni decenni fa. Ci sono inoltre sensibili carenze negli ospedali, che potrebbero quindi avere difficoltà nel trattare i pazienti più gravi con COVID-19.