La strategia dell’Islanda sta funzionando?
È uno dei paesi che hanno fatto più test, e ha imposto restrizioni agli spostamenti più morbide di altri
Tra i paesi che vengono più elogiati per il modo in cui stanno gestendo la diffusione del coronavirus c’è l’Islanda, il cui governo giovedì ha annunciato che i dati sui contagi suggeriscono che la diffusione dell’epidemia stia rallentando: dal 6 all’8 aprile, infatti, il numero di infezioni attive conosciute è calato ogni giorno. In generale, poi, di persone infette non sembra ce ne siano molte: i casi di infezione registrati sono 1.701, 889 tra le persone infettate sono guarite e solo 8 persone sono morte, per cui il tasso di letalità è molto basso, inferiore allo 0,4 per cento.
Kjartan Hreinn Njalsson, funzionario del ministero della Salute islandese, ha detto mercoledì che ora sono più le persone che stanno guarendo di quelle che si stanno ammalando, e che il governo ritiene che si sia raggiunto il picco dei casi. Si aspetta però che cresca ancora un po’ il numero di ricoveri in ospedale. Al momento i malati ricoverati sono 40, di cui 11 in terapia intensiva.
La strategia dell’Islanda
A un primo sguardo l’Islanda ha preso meno misure di altri per contrastare la diffusione del coronavirus. Solo il 23 marzo, quasi un mese dopo il primo caso di contagio registrato nel paese, sono stati chiusi i bar, i musei, le piscine (che sono molto frequentate) e le palestre. Rispetto alla maggior parte degli altri paesi, le restrizioni agli spostamenti e alle attività commerciali sono meno rigide: le scuole primarie e le scuole per l’infanzia sono aperte, con alcuni limiti sul numero di bambini in classe e regole sulle distanze, così come alcuni ristoranti con posti a sedere limitati.
Non ci sono inoltre restrizioni per i turisti in arrivo dall’estero: possono spostarsi nel paese senza passare un periodo in quarantena. I quattordici giorni di quarantena sono stati richiesti solo alle persone residenti in Islanda rientrate da paesi con molti casi di COVID-19: i turisti stranieri «sono considerati un gruppo a basso rischio per la trasmissione del virus», perché non si mescolano tanto con la popolazione locale. Per quanto riguarda gli assembramenti, inizialmente le autorità islandesi avevano vietato occasioni di ritrovo con più di 100 persone, poi il 24 marzo il divieto è stato esteso ai ritrovi dalle 20 persone in su: sarà in vigore fino al 4 maggio.
La principale iniziativa del governo per contenere la diffusione del virus comunque è stata una di quelle più consigliate dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), cioè fare molti test. L’Islanda è il primo paese al mondo per numero di test per abitanti ed è molto in alto anche nella classifica, ancora più significativa, del rapporto tra numero di test effettuati e numero di persone positive al coronavirus: sta sotto paesi come la Corea del Sud e l’Australia, che hanno davvero fatto moltissimi test, ma sopra alla Germania, che ha già un buon rapporto, e molto sopra all’Italia e al Regno Unito.
In totale finora sono stati fatti 32.623 test. Negli ospedali è testato chi ha sintomi riconducibili alla COVID-19, le persone che fanno parte di gruppi a rischio, il personale sanitario, chi è stato in paesi con un alto numero di contagi e chi è stato in quarantena ma non ha più sintomi. Le analisi dei tamponi sono effettuate dall’ospedale dell’Università Nazionale. Il resto dei cittadini può sottoporsi a un test grazie a deCODE genetics: è un’azienda biofarmaceutica che dal 2012 appartiene all’americana Amgen e che è molto nota in Islanda per il suo progetto – molto criticato da alcuni – di sequenziare i genomi di tutti i cittadini islandesi per poter studiare meglio le relazioni tra patologie e farmaci e il loro DNA. È in gran parte grazie a deCode genetics che l’Islanda ha potuto fare così tanti test: ne ha fatti più di 18mila su 32.623.
Tra i test fatti dagli ospedali la maggior parte è risultata positiva, mentre tra quelli fatti da deCODE prevalgono i negativi. Kári Stefánsson, fondatore e amministratore delegato di deCode, ha spiegato al New York Times di aver invitato anche le persone senza sintomi a sottoporsi ai test, per trovare possibili casi asintomatici e contribuire così al contenimento della malattia. Chi risulta positivo al virus deve restare chiuso in casa: secondo il governo tracciare le persone positive e tenerle in isolamento è una misura più efficace delle restrizioni per contenere la diffusione del virus. Tra l’altro il 53 per cento dei nuovi casi registrati sono stati trovati tra persone a cui era già stato detto di isolarsi a casa.
Le critiche
Alcuni islandesi pensano che il governo sia ottimista e che abbia sbagliato a non introdurre misure più restrittive, in particolare a non chiudere del tutto le scuole. Sono preoccupati in particolare perché in Islanda, come in molti altri paesi, i materiali necessari per fare i test non sono infiniti e perché sono limitati anche gli spazi, gli strumenti e il personale degli ospedali, cosa che potrebbe creare dei problemi se si dovesse far fronte a una maggiore diffusione del virus. Hanno paura che un eccesso di ottimismo potrebbe contribuire a far aumentare il numero dei contagi.
Frosti Sigurjonsson, uno dei due ex deputati che si sono lamentati della politica del governo sul coronavirus in una lettera aperta, ha detto al New York Times: «È vero che molte persone sono state testate, a differenza di quanto successo in molti paesi, ma non è vero che tutti possono essere testati. Non è fattibile». Secondo Sigurjonsson l’Islanda dovrebbe chiudersi al turismo e isolare le persone risultate positive ai test ma senza sintomi o con sintomi lievi nelle camere degli hotel lasciati vuoti, per proteggere le loro famiglie dal contagio.
Sigurjonsson comunque si è un po’ rassicurato dopo la diffusione degli ultimi dati sui contagiati. Chi invece continua a essere molto critico sulla strategia del governo è l’epidemiologo americano Chris McClure, che vive in Islanda: ammette che è possibile che si sia raggiunto il picco dei casi, ma dice anche che questo non significa che smetteranno di esserci nuovi contagiati. Secondo lui il governo dovrebbe chiudere le scuole. È vero che sono stati fatti molti test, ma perché sia testata l’intera popolazione, secondo le sue stime, bisognerebbe aspettare la fine dell’anno.
La maggior parte degli islandesi comunque si fida delle istituzioni e pensa che l’epidemia di COVID-19 sia stata gestita nel modo giusto. Njalsson ha detto che in Islanda non c’è da temere per le forniture di tamponi e reagenti chimici necessari per analizzarli, anche se a lungo andare è possibile che ne serviranno altri.
L’Islanda è un caso particolare
Per fare confronti tra l’Islanda e l’Italia o altri paesi bisogna sempre ricordare che il numero di abitanti e la densità di popolazione islandesi sono molto bassi. Gli abitanti sono 360mila, meno di chi abita a Firenze. Con 3,5 abitanti per chilometro quadrato, residenti quasi solo lungo le coste, è il 191esimo paese per densità di popolazione. Nella capitale Reykjavík, dove vive il 35 per cento della popolazione, è molto più alta, simile a quella di Latina o Alessandria (e infatti ben più della metà dei casi islandesi, 1.186, è stata registrata nella zona circostante), ma in tutte le altre città e cittadine è molto più bassa. Comunque secondo Kári Stefánsson la ragione per cui l’Islanda è riuscita a testare più persone di altri paesi non è il suo basso numero di abitanti, ma la sua preparazione.
Un’altra caratteristica dell’Islanda – che va tenuta in considerazione per distinguerla da altri paesi – è l’età mediana della sua popolazione: in Giappone e in Italia, due dei paesi con la popolazione più vecchia del mondo, è di 47,3 e 45,5 anni; nell’Unione Europea è di 42,9 anni; in Islanda di 36,5 anni. Questo dato potrebbe contribuire a spiegare la bassa letalità della COVID-19 nel paese. Come è successo in Germania, l’età mediana delle persone contagiate è più bassa in Islanda rispetto all’Italia: meno di 300 delle persone contagiate ha o aveva più di 60 anni.
Anche in Islanda comunque si è visto come i casi possono diffondersi nelle case di riposo: è successo in una struttura di Bolungarvík, nella regione dei Fiordi Occidentali, dove è morta una delle 6 persone decedute con la COVID-19. Tutti gli ospiti della casa di riposo sono stati testati per il coronavirus e quelli non contagiati sono ora assistiti da personale sanitario che prima non lavorava nella struttura ma mobilitato dall’esterno.