La scelta tra salvare vite e salvare l’economia
È quella che hanno dovuto affrontare tutti i più ricchi paesi del mondo, ma non è detto che sia così chiara
Nelle prime settimane dell’epidemia da coronavirus – prima che si entrasse nella fase di emergenza – anche in Italia una delle discussioni che si facevano di più era: introdurre misure restrittive molto severe non rischia di creare danni superiori a quelli che potrebbe causare il virus? In altre parole, la stessa questione veniva posta come: non rischia la cura di essere peggiore della malattia?
L’Economist ha dedicato a questo argomento diversi approfondimenti nel suo numero del 4 aprile, cercando di spiegare cosa ci sia dietro questo tipo di ragionamenti e fino a che punto abbia senso farli. Specialmente se si devono prendere decisioni che riguardano un intero paese.
Sopraffatti dalle difficoltà causate dall’epidemia, quasi tutti i governi del mondo hanno imposto ai loro cittadini grosse restrizioni delle loro libertà di movimento ed economiche. Queste decisioni, difficili e con enormi conseguenze, sono state giustificate dall’idea che non ci fossero alternative e che avrebbero permesso di salvare centinaia di migliaia di vite umane.
L’esempio della Cina, il primo paese a fare i conti con l’epidemia e quello che con più efficacia ha imposto grandi limitazioni alle persone, è stato estremamente convincente, spiega l’Economist. I modelli epidemiologici hanno aiutato a capire come avrebbero potuto andare le cose negli altri paesi, mostrando gli effetti benefici di severe politiche di distanziamento sociale. Davanti alla possibilità di riportare in poche settimane la situazione sotto controllo, riducendo drasticamente il numero dei morti, era quasi impossibile per i politici – ma quasi per chiunque altro – chiedersi se ne sarebbe valsa la pena. Chiedersi quindi se fosse più importante salvaguardare la salute economica di un popolo invece che quella dei suoi cittadini.
Provare a farsi questa domanda, continua l’Economist, continua a essere complicato non solo per via del nostro innato senso di conservazione ed empatia, ma anche perché quando dai modelli epidemiologici si passa a quelli economici, le certezze sono poche. «Le stime dicono che le misure imposte avranno costi enormi, ma ci sono grandi variazioni. Per un’analisi precisa servirebbe sapere quanto bene le restrizioni funzioneranno, quanto dureranno e in che modo finiranno», tutte cose che per ora si sanno molto limitatamente.
Chi sostiene che i rischi di tenere metà del mondo in quarantena supereranno di molto i benefici, tuttavia, non si occupa solo di problemi economici ma anche di problemi sociali. Al netto di tutte le incertezze su come andranno le cose, c’è già grande consenso sul fatto che le cose andranno male, dice l’Economist. Non sappiamo di quanto calerà il PIL dei paesi più coinvolti dalla crisi – i modelli che abbiamo a disposizione potrebbero non essere in grado di tenere conto di una situazione senza precedenti come questa – ma sappiamo che caleranno molto.
«Questo porterà alla chiusura di aziende e negozi, al fallimento di società e a gravi problemi per tantissime persone e per le loro famiglie. E questo», continua l’Economist, «non causerà soltanto miseria economica, ma anche malattie e morti». Per non parlare dei problemi che già conosciamo legati a una lunga permanenza forzata in casa, dai problemi di salute mentale all’aumento dei casi di violenze domestiche. A un livello più grande, ci sono già grosse preoccupazioni su cosa farà l’Italia se la crisi durerà ancora a lungo: potrebbe arrivare a fine anno con il livello del debito pubblico al 150 per cento del PIL, con grandi problemi a continuare a finanziarsi sui mercati.
Già ora qualche paese europeo meno colpito dalla crisi sta cominciando a pensare a qualche parziale riapertura; in Germania si è cominciato a discuterne già da tempo e anche il governo italiano ha accennato alla possibilità di cominciare una graduale riapertura delle attività produttive.
«Più andremo avanti», continua l’Economist, «e più sarà facile chiedersi se “ne vale la pena” e più sarà difficile evitare di rispondere alla domanda. Dire “non abbiamo altra scelta” non sarà più abbastanza; gli effetti negativi delle misure di distanziamento sociale e delle chiusure delle attività economiche cresceranno e bisognerà prendere delle decisioni difficili, che dovranno essere giustificate sia dal punto di vista economico che da quello sociale».
Che cominciare a far ripartire l’economia sia la scelta giusta, tuttavia, non è così facile da sostenere. Anzi: ci sono buone ragioni per pensare che i governi che cercheranno di forzare le tappe potrebbero alla fine trovarsi in una situazione ancora peggiore, con un problema sanitario più grave e una condizione economica peggiorata. Per esempio: riaprire i negozi, i bar e i cinema non significa che la gente tornerà a frequentarli. In Corea del Sud, dove le misure restrittive sono state più miti che in Cina e in Europa, i cinema sono rimasti aperti ma le sale sono quasi sempre state poco frequentate, probabilmente per la paura del contagio.
Per approfondire: Cosa è andato storto in Val Seriana, dove sfortuna e sottovalutazioni hanno contribuito a creare il peggior focolaio di coronavirus in Italia.
«Inoltre, salvare vite non è solo positivo per le persone coinvolte, per i loro amici, per le loro famiglie, per i loro datori di lavoro e per i loro compatrioti. Ha anche dei sostanziali benefici economici», dice l’Economist.
Secondo uno studio di Michael Greenstone e Vishan Nigam, dell’università di Chicago, se il governo statunitense non avesse preso iniziative per fermare il coronavirus sarebbero morti più di 3 milioni di persone. Con minime regole di distanziamento sociale, il numero dei morti sarebbe diminuito di 1,7 milioni. Un miglioramento così piccolo – che tiene comunque in conto la morte di più di un milione di persone – porta già con sé enormi benefici economici. I conti che vengono fatti per calcolare il “valore delle vite salvate” dicono che 1,7 milioni di persone varrebbero circa 8mila miliardi di dollari, il 40 per cento del PIL degli Stati Uniti.
Per approfondire: Cosa stanno facendo i paesi europei per affrontare la crisi economica
Se per ora sembrerebbe quindi che un’analisi costi e benefici su cosa sia più sensato fare dia ragione ai paesi che hanno imposto misure restrittive come quelle in vigore in Italia, le cose potrebbero cambiare con il passare del tempo. I contagi e i morti causati dal coronavirus caleranno, i costi di tenere tutto chiuso continueranno ad aumentare. Più a lungo resterà tutto chiuso – teme qualcuno – più difficile sarà ripartire: «molti lavoratori perderanno competenze e legami con il mondo del lavoro dopo lunghi periodi di disoccupazione e per molti sarà difficile trovare buoni lavori quando l’economia ripartirà. I lavoratori più anziani potrebbero essere meno bravi a trasferirsi o cambiare lavoro», dice l’Economist. Di nuovo bisognerà chiedersi se ne sarà valsa la pena.
La soluzione, in parte, sembra che dipenderà dagli strumenti che ci saranno per affrontare un graduale ritorno alla “normalità”. Un vaccino potrebbe diventare centrale nel tenere sotto controllo una nuova diffusione del virus, ma molto dipenderà da altri fattori. La capacità di adattare i sistemi sanitari a nuove possibili crisi, l’abilità di individuare e tracciare nuovi casi, la possibilità di mettere in quarantena chi sarà trovato positivo al virus.
Probabilmente, tutto questo non sarà chiaro e comprensibile in un breve periodo e non ci saranno modelli abbastanza definiti da poterci aiutare a capire gli effetti di tutte queste nuove pratiche e politiche. In parte, ci saranno da prendere delle decisioni politiche: qualche governo potrebbe decidere di riaprire prima, altri potrebbero decidere di aspettare più a lungo.
Una possibilità, conclude l’Economist, è che alla fine succeda un po’ come è iniziato tutto. Un governo deciderà di riaprire, la sua economia ripartirà, i contagi magari saranno tenuti sotto controllo e in poche settimane questa condizione si allargherà a tutti gli altri paesi del mondo, per imitazione.