Questi benedetti eurobond, spiegati bene
Cosa sono i "titoli di stato europei" chiesti da paesi come Italia, Francia e Spagna, e perché altri paesi non ne vogliono sapere
I cosiddetti “eurobond” sono al centro del dibattito su come l’Unione Europea, e i paesi che adottano l’euro in particolare, possano uscire dalla crisi causata dalla pandemia da coronavirus (e questa è la ragione per cui alcuni giornali hanno iniziato a chiamarli “coronabond”). In sostanza chi chiede l’introduzione degli eurobond chiede che venga istituito un nuovo tipo di titolo di debito pubblico – come i titoli di stato, che l’Italia vende per ottenere denaro in prestito – il cui rimborso sia garantito non da un singolo stato ma da tutti i paesi dell’euro. Gli eurobond sono richiesti con insistenza da paesi come Italia, Francia e Spagna, con l’approvazione di numerosi commentatori ed economisti e della Commissione Europea; la loro introduzione viene invece respinta dai governi di paesi come Germania, Paesi Bassi e Austria.
Se non siete esperti di finanza pubblica e volete capire davvero di cosa stiamo parlando e quali siano le posizioni che si stanno confrontando, come prima cosa è necessario fare un passo indietro.
Bond, titoli di stato e obbligazioni
Cominciamo con le cose ovvie: quasi tutti gli stati moderni spendono (per pagare le pensioni, il sistema sanitario, i trasporti, le infrastrutture, eccetera) più di quanto incassano (sostanzialmente le tasse). La differenza viene coperta chiedendo denaro in prestito. La quasi totalità di questo denaro viene raccolta emettendo titoli di stato, cioè delle obbligazioni (a volte chiamati con il termine inglese “bond”) con cui il governo si impegna a pagare all’acquirente – in teoria chiunque, compresi i privati, ma in realtà soprattutto banche e fondi – un certo interesse ogni anno e, allo scadere di un lasso di tempo predeterminato, a restituire la cifra. Da qui arriva il termine “eurobond”: un titolo di stato che invece di essere emesso da un solo paese, viene emesso e garantito dall’intera zona euro.
In Italia il titolo di stato o obbligazione più comune è il BTP decennale: un’obbligazione che scade dopo dieci anni e che al momento rende agli acquirenti un interesse di circa l’1,7 per cento. La somma di queste obbligazioni, più eventuali altri prestiti in altra forma, costituisce il debito pubblico: in genere si misura come percentuale del PIL, che a sua volta è la somma approssimativa del valore di tutti beni e i servizi prodotti in un paese nel corso di un anno.
Gli interessi che gli stati pagano sui titoli che emettono – e quindi sul totale del debito pubblico – variano continuamente e sono influenzati da moltissimi fattori. In generale possiamo dire che più un paese viene percepito come solido e in grado di restituire il denaro prestato, più l’investimento è considerato sicuro e quindi l’interesse è basso. Viceversa, il titolo di paese meno solido è visto come un investimento più rischioso: quindi quei paesi devono offrire un tasso di interesse più alto per vendere i loro titoli. Per misurare questo fattore di rischio, in Europa e nella zona euro in particolare si usa lo spread, una parola che significa “divario” e che nel gergo finanziario è divenuto sinonimo della differenza (misurata in centesimi di punto percentuale) tra quanto rendono i titoli di stato decennali di un certo paese e i corrispondenti titoli tedeschi (che vengono emessi dal paese percepito come più solido di tutti: la Germania).
Oggi lo spread tra i titoli decennali italiani e tedeschi è pari a circa 200 punti base, cioè 2 punti percentuali. Se siete stati attenti, a questo punto vi sarete accorti quindi che i titoli decennali tedeschi oggi pagano addirittura interessi negativi, per la precisione -0,3 per cento: significa che sono percepiti così sicuri – e che c’è così tanto denaro in circolo – che gli investitori sono disposti a perdere soldi pur di acquistarli.
In teoria (molto in teoria) questo sistema di interessi che si alzano e si abbassano a seconda delle difficoltà in cui si trova un paese dovrebbe raggiungere da solo una situazione di equilibrio. Quando l’interesse sul debito inizia a crescere fino ad avvicinarsi al punto in cui un paese non è più in grado di finanziarsi, il governo si troverà costretto a fare “le riforme” che favoriscono la crescita (su quali queste siano, come è facile immaginare, le opinioni sono le più varie). A quel punto l’economia ritorna a correre, il debito ritorna sostenibile e tutto si risolve.
Il ruolo delle banche centrali
Il problema è che le cose non vanno quasi mai così lisce. Per esempio, non è detto che un paese non riesca più a finanziarsi perché ha speso irresponsabilmente o si è “comportato male”: l’attuale pandemia è un ottimo esempio di un simile “shock esogeno”, come si chiama in gergo. Inoltre, esiste una significativa differenza tra i tempi su cui agiscono gli acquirenti del debito pubblico (quelli che chiedono un maggiore interesse oppure scommettono contro il debito pubblico di un certo paese) e gli effetti delle riforme che sarebbero in grado di riportare un paese a crescere (ammesso che questo tipo di riforme esista e sia così facile da individuare e implementare, cosa su cui esistono legittimi dubbi). I primi si muovono nell’arco di giorni, a volte ore; le seconde impiegano anni, a volte decenni.
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Per diminuire queste turbolenze nel breve periodo, gli stati in genere fanno ricorso alle loro banche centrali. Queste istituzioni hanno il potere di creare denaro in modo potenzialmente illimitato, e con quei soldi possono comprare tutti i titoli di stato necessari a mantenere sotto controllo i loro tassi di interesse. È quello che ha appena fatto la Bank of England, la banca centrale del Regno Unito, che ha annunciato di aver aumentato il suo programma di acquisto di titoli di stato britannici. Poche settimane fa ha fatto la stessa cosa la BCE, la banca centrale dell’eurozona, e in una quantità senza precedenti.
Nel breve e medio periodo questi interventi non sono un grosso problema, ma le cose si complicano quando la situazione di crisi inizia a protrarsi nel tempo e assume dimensioni rilevanti. Le azioni di sostegno al debito pubblico hanno infatti anche delle conseguenze secondarie: decidere se accettarle e per quanto tempo è una questione politicamente delicata e lo è in modo particolare nell’eurozona, un’area dove c’è un’unica moneta e un’unica banca centrale, ma ci sono 19 paesi differenti, con economie, interessi e sensibilità culturali molto differenti (la conseguenza principale di questi interventi, cioè l’inflazione, al momento non sembra però un rischio imminente, anzi).
Gli eurobond
Tutti questi problemi hanno iniziato a manifestarsi in maniera sempre più evidente a partire dal 2011, con la grande crisi finanziaria. Gli spread iniziarono ad allargarsi, i paesi periferici si trovarono in difficoltà sempre più grandi e l’intervento della BCE per tranquillizzare i mercati incontrò forti resistenze politiche. Fu allora che la Commissione Europea presieduta dal portoghese José Manuel Barroso formulò la prima proposta concreta per l’introduzione degli “eurobond”.
L’idea era semplice: visto che l’eurozona è un’entità con un’unica banca centrale e un’unica moneta, perché non creare anche un unico debito pubblico, garantito dall’insieme dell’eurozona? Invece che avere tanti titoli di stato diversi per ogni stato, ognuno sottoposto alle oscillazioni di mercato e agli attacchi speculativi, questa proposta avrebbe creato un nuovo tipo di obbligazione, gli “eurobond” appunto, garantiti dall’insieme dell’eurozona e quindi molto più stabili e con un tasso di interesse molto più basso dei titoli di stato dei singoli paesi più deboli della zona euro.
In questo modo, il costo del debito si sarebbe ridotto per molti paesi, che avrebbero potuto spendere più soldi per fare investimenti, aiutare i ceti più deboli o tagliare le tasse (a seconda delle proprie preferenze politiche). Dato che però alcuni stati avrebbero potuto approfittare di questo sistema, per esempio tagliando le tasse alle imprese e facendo concorrenza sleale agli altri o per mandare la popolazione in pensione molto presto rispetto al resto d’Europa (tutte cose comunque già avvenute) la Commissione proponeva anche una maggiore integrazione fiscale, cioè un ruolo maggiore della Commissione nel raccordare le politiche di bilancio dei singoli paesi membri (cosa che significa anche più potere per la Commissione di decidere cosa i singoli stati possano fare su pensioni, lavoro, investimenti, tagli e aumenti di tasse).
Nel tempo sono state avanzate numerose versioni differenti di eurobond (la Commissione Barroso ne propose ben tre, mentre il famoso MES è uno degli organismi europei che potrebbero introdurre questo tipo di titoli) e alcune sono radicalmente diverse tra di loro, ma in sostanza dal 2011 l’idea di un debito comune dell’eurozona accompagnata da un maggiore controllo centrale delle politiche economiche dei singoli stati membri è stata la principale proposta politica portata avanti dai sostenitori del “federalismo europeo”, coloro che credono nella crescente integrazione politica ed economica dell’Unione Europea e in particolare della zona euro.
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I governi di quasi tutti i paesi dell’Europa meridionale, dalla Francia all’Italia, dal Portogallo alla Grecia, li hanno sostenuti, insieme a numerosi economisti e commentatori. Con l’arrivo della pandemia da coronavirus il consenso si è allargato ulteriormente. Oggi la Commissione Europea sostiene apertamente l’introduzione di “coronabond” che abbiano lo scopo di finanziare le misure per contrastare gli effetti della crisi. In questi giorni persino alcuni giornali tedeschi hanno iniziato a sostenere questa proposta.
I nemici degli eurobond non sono così numerosi, ma sono altrettanto determinati. Provengono soprattutto dai paesi più ricchi del centro e del Nord Europa: Germania, prima di tutti, ma anche Austria, Paesi Bassi e Finlandia. Dal loro punto di vista, l’eurozona e in particolare i paesi dell’Europa meridionale non sono ancora pronti per questo strumento. Per i commentatori dei giornali popolari e i politici, in particolare della destra conservatrice e di quella radicale, i governi dei paesi mediterranei non sono abbastanza determinati e i loro popoli non sono abbastanza pronti ad accettare i “sacrifici” che la condivisione del debito pubblico implicherebbe. Per capire il loro punto di vista, possiamo provare a ribaltare la situazione: cosa penserebbero gli italiani della possibilità di usare i soldi dei contribuenti per garantire i debiti contratti dalla Tunisia o dall’Albania? Alcuni temono che i paesi mediterranei ne approfitterebbero per comportamenti economicamente irresponsabili, o che sia solo questione di tempo prima che alcuni di questi vadano in bancarotta, e a quel punto sarebbero tedeschi e olandesi a dover ripagare il loro debito.
Diversi economisti usano argomenti più raffinati, ma sostanzialmente simili: l’introduzione di eurobond senza la parallela creazione di una forte entità centrale in grado di obbligare paesi come l’Italia e la Spagna a spendere “bene” il denaro risparmiato grazie a questo strumento rischia di creare un “azzardo morale”, cioè permettere a quei paesi di continuare a spendere in modo sconsiderato senza più temere l’intervento punitivo dei mercati finanziari.
Secondo molti, l’attuale situazione di emergenza causata dalla pandemia è il momento migliore per forzare l’introduzione di questo strumento che, ritengono, prima o poi dovrà essere messo in piedi se si vuole proseguire con l’esperimento della moneta unica. Ma l’opposizione continua a rimanere forte e il blocco del paesi nordeuropei rimane stabile sulle sue posizioni contrarie.