Che faccia abbiamo dato al coronavirus

Come grafici, artisti, illustratori medici e creatori di emoji hanno dato una forma al cosiddetto "nemico invisibile", troppo piccolo per essere visto e fotografato

L'immagine del SARS-CoV-2 realizzata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti, scaricabile gratuitamente qui
L'immagine del SARS-CoV-2 realizzata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti, scaricabile gratuitamente qui

I virus sono troppo piccoli per essere davvero fotografati, anche usando un microscopio: il coronavirus (SARS-CoV-2), in particolare, ha un diametro compreso tra i 50 e i 200 nanometri, e ogni nanometro è grande un milionesimo di millimetro. Sappiamo che il virus potrebbe essere ovunque, ma non possiamo vederlo; i più retorici tra noi lo hanno definito per questo “il nemico invisibile”. Tuttavia lo immaginiamo, il virus: ed è probabile che pensando al coronavirus a tutti vengano in mente le più usate rappresentazioni grafiche che si vedono costantemente sui giornali e in TV, nei post sui social network e sui siti di governo e ministeri, ma anche nelle reinterpretazioni di illustratori e fumettisti.

Volendo generalizzare, tutte le rappresentazioni del virus sono sfere con tante piccole punte. Sono fatte in questo modo per la stessa ragione per cui i coronavirus si chiamano così: i loro virioni, cioè le loro singole particelle virali, hanno la superficie esterna coperta da proteine che ricordano le punte di una corona; sono i “peplomeri”, uno dei meccanismi che servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare.

Molte delle immagini che rappresentano i coronavirus sono realizzate da esperti di grafica digitale e vendute, o messe a disposizione gratuitamente, da siti come Adobe Stock Photos, Shutterstock e Pixabay. Molte sono recenti, realizzate nei primi mesi di quest’anno, ma ce ne sono anche di più vecchie – come quella usata dalla Fondazione GIMBE, un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro che si occupa di sanità pubblica, sul suo sito – che rappresentano un virus generico e risalgono anche al 2015.

Una rappresentazione del coronavirus realizzata dall’utente creativeneko di Adobe Stock; è stata usata, tra gli altri, dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) per illustrare un decalogo di comportamenti da seguire per evitare il contagio

C’è però un’immagine più “scientifica” delle altre: quella in cima a quest’articolo. È quella realizzata alla fine di gennaio da Alissa Eckert e Dan Higgins, illustratori medici che lavorano per i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica americana. È probabile che l’abbiate vista in giro, anche sul Post era stata usata nelle scorse settimane.

Un articolo del New York Times spiega come è stata fatta. Eckert e Higgins hanno cercato sul RCSB Protein Data Bank, un archivio digitale ad accesso libero che raccoglie rappresentazioni delle strutture delle proteine, come sono fatte le tre che si trovano sulla superficie del coronavirus: le cosiddette proteine S (da spike, cioè “punta”), che aiutano il virus ad attaccarsi alle cellule umane; le proteine E (da envelope, “involucro”), che fanno entrare il virus dentro le cellule; e le proteine M (da membrane, “membrana”), che danno al virus la sua forma. Trovate le immagini vettoriali delle strutture di queste proteine le hanno inserite in Autodesk 3ds Max, un software di grafica, e le hanno copiate più volte per creare la loro immagine del coronavirus.

Una parte importante del lavoro di Eckert e Higgins è stato scegliere quali colori usare per dare una faccia al virus: per le proteine S è stato scelto il rosso perché attirassero di più l’attenzione. In teoria sulla superficie dei coronavirus ci sono molte più proteine M (quelle in arancione), ma dato che sono le S quelle responsabili della diffusione del virus, si è deciso di metterle in maggiore evidenza, lasciando gran parte della superficie del virus grigia. Il contrasto tra il rosso e il grigio e le ombre create dalle proteine S sono stati pensati per «aiutare a visualizzare la gravità della situazione e attrarre l’attenzione».

L’immagine del SARS-CoV-2 realizzata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti, spiegata meglio

Sul sito dell’RCSB Protein Data Bank si trova anche un’altra rappresentazione del coronavirus, scientificamente accurata ma più artistica, realizzata da David S. Goodsell, un biologo esperto di disegno scientifico. In particolare, il disegno mostra un virione di coronavirus all’interno di un polmone, immerso nel muco; i colori scelti da Goodsell, più tenui, non comunicano una sensazione di pericolo come il coronavirus di Eckert e Higgins.

Il coronavirus disegnato da David S. Goodsell (RCSB Protein Data Bank); ne esiste anche una versione in bianco e nero, da colorare.

Un’altra delle rappresentazioni con cui ci figuriamo il coronavirus è quella dell’emoji “microbo”, che negli ultimi mesi è stata usata molto più del solito sui social network e nelle app di messaggistica. Secondo un’analisi di Emojipedia basata sull’uso degli emoji su Twitter, quelli il cui uso è aumentato di più all’inizio di marzo sono l’emoji del microbo, la bandierina italiana, due che indicano pericolo e allarme e quello della faccia che indossa una mascherina. L’emoji del microbo in particolare non era mai stata popolare come in questi giorni, da quando è stata introdotta. Come nota Emojipedia però non su tutti i sistemi operativi l’emoji del microbo somiglia al coronavirus, o a un qualsiasi virus, ma piuttosto a un batterio. Fa eccezione solo quella di Apple che, casualmente, è piuttosto simile alle rappresentazioni del coronavirus che si vedono in giro. Simili, ma più stilizzate, sono le icone usate per rappresentare il SARS-CoV-2 sul sito del governo e sui materiali dei ministeri.

L’emoji del microbo per diversi sistemi operativi; quella di Apple, in alto a destra, è quella più simile alle rappresentazioni del coronavirus (Emojipedia)

Come abbiamo detto, i virus non possono essere né visti né fotografati nemmeno usando i microscopi. Questa affermazione è corretta se per “microscopi” intendiamo i microscopi ottici e se per “vedere” intendiamo quel fenomeno reso possibile dalla luce. C’è però un altro tipo di microscopio che, usando qualcosa di diverso dalla luce, permette di fotografare oggetti di dimensioni nanometriche: il microscopio elettronico. A differenza di un normale microscopio non funziona con la luce, ma con un fascio di elettroni che colpiscono il campione da osservare. Rispetto alla luce, la lunghezza d’onda degli elettroni è molto più corta, quindi il microscopio elettronico può mostrare strutture più piccole, fino al livello atomico: dopo aver colpito il campione da osservare il fascio di elettroni colpisce uno schermo fluorescente e lì proietta un’immagine ingrandita, in bianco e nero, di ciò che ha attraversato. Grazie a questo metodo abbiamo anche delle fotografie del coronavirus, ma sono meno evocative rispetto alle rappresentazioni grafiche come quella di Eckert e Higgins.

Evidenziati in azzurro, i virioni della COVID-19 viste da un microscopio elettronico a trasmissione dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti

Altre immagini del coronavirus fatte al microscopio elettronico che potreste aver visto in giro, a corredo di qualche articolo, sono quelle del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), un istituto di ricerca del sistema sanitario americano; si possono scaricare gratuitamente sul profilo su Flickr dell’istituzione. Sono state colorate con tinte brillanti e per questo rimangono molto impresse.