La Corea del Nord dice di non avere casi di coronavirus, bisogna crederci?
La sua condizione straordinaria di isolamento e repressione può suggerire risposte diverse
La Corea del Nord è uno dei pochi paesi al mondo ufficialmente senza alcun caso di contagio da coronavirus. Tra i pochi paesi senza casi ufficiali, la gran parte sono piccoli e isolati: è possibile che il virus effettivamente non sia arrivato fin lì, o che comunque per ora non sia stato individuato. In Corea del Nord, invece, è molto difficile credere che non ci sia nemmeno un caso. Tra i paesi senza casi confermati è l’unico, insieme allo Yemen, con più di 20 milioni di abitanti. È un paese povero, con una rilevante parte di popolazione che soffre di malnutrizione e con un sistema sanitario obsoleto. Inoltre condivide quasi 1.500 chilometri di confine con la Cina, il paese da cui è iniziata la pandemia.
Le possibilità sono tre. La prima, estremamente improbabile, è che effettivamente la Corea del Nord, sfruttando il suo isolamento da gran parte del resto del mondo, abbia impedito al virus di entrare nel paese. La seconda è che il virus sia arrivato e che il paese non abbia individuato nemmeno un caso. La terza è che nel paese ci siano in realtà diversi casi di COVID-19 ma che il regime coreano stia riuscendo a non farlo sapere alla sua popolazione e al resto del mondo.
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La Corea del Nord è un paese chiuso in modo quasi ermetico verso il resto del mondo: gran parte di quel che arriva è filtrato e probabilmente manipolato dal regime. Non c’è modo di dire quale delle tre possibilità sia quella giusta, ma è possibile ragionarci.
Come potrebbe essere arrivato il virus
Visto che i contatti nordcoreani con la Corea del Sud e gran parte del resto del mondo sono minimi, è facile pensare che se il virus è arrivato in Corea del Nord, è arrivato dalla Cina: l’unico paese con cui intrattiene relazioni commerciali con la Corea del Nord. Le regioni cinesi che confinano con la Corea del Nord sono quelle della Manciuria cinese, più nel dettaglio le provincie del Liaoning e dello Jilin. In effetti sono due tra le province con meno casi confermati di contagio da coronavirus (ma comunque nell’ordine delle centinaia) e a separarle dalla Corea del Nord ci sono, per gran parte del confine, due fiumi, lo Yalu e il Tumen, e la montagna Baekdu, la più alta della regione. L’area della Corea del Nord che confina con la Cina è la più fredda e meno popolata del paese.
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Bisogna però considerare che non è detto che i casi nel sud della Cina siano effettivamente solo qualche centinaio, e soprattutto che i contatti lungo quel confine sono più di quelli che molti potrebbero pensare. Negli ultimi anni nei mercati nordcoreani sono cominciate ad apparire radio, lettori cd e altri oggetti di produzione cinese, e alcuni gruppi umanitari sono riusciti a far entrare nel paese piccoli registratori e macchine fotografiche per documentare le condizioni di vita dei nordcoreani. Gran parte di quello che entra in Corea del Nord arriva, legalmente e illegalmente, dalla Cina; e le esportazioni verso la Cina rappresentano il 90 per cento delle esportazioni totali nordcoreane. La Cina e la Corea del Nord, insomma, sono alleati: i controlli e le restrizioni lungo quel confine sono decisamente più laschi di quelli lungo la zona demilitarizzata che separa le due Coree. Le possibilità che il coronavirus sia arrivato in Corea del Nord dalla Cina sono molte.
Cosa ha fatto la Corea del Nord
Basandosi sulle limitate e difficilmente verificabili informazioni che arrivano dalla Corea del Nord, sembra comunque che il paese abbia preso piuttosto sul serio la minaccia di contagio e abbia adottato diverse misure per proteggersi. Già da febbraio ha sospeso voli e treni da e verso la Cina e imposto un isolamento di 40 giorni (quindi più del doppio rispetto a gran parte del resto del mondo) a chi era arrivato dall’estero o aveva avuto contatti con chi ci era stato. «La Corea del Nord», ha scritto di recente il New York Times, «ha preso misure contro il virus tra le più drastiche al mondo, e lo ha fatto prima di molti altri paesi».
Come ha spiegato il New York Times, il dittatore nordcoreano Kim Jong-un ha mostrato, con le sue azioni e decisioni, di essere «ben consapevole della minaccia che il virus potrebbe rappresentare per il decrepito sistema sanitario del suo paese». Si vede, tra le altre cose, dal fatto che il regime si è mosso attivamente per ricevere aiuti umanitari e strumenti utili per individuare eventuali casi di contagio e curare i malati di COVID-19.
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Inoltre per la Corea del Nord vale ancora di più il discorso che nelle ultime settimane è stato spesso fatto per la Cina: meno è alto il livello di democrazia e più è facile controllare e limitare il movimento delle persone, limitando ogni tipo di libertà personale.
Cosa sta raccontando la Corea del Nord
La propaganda nordcoreana sta insistendo molto, attraverso i media che controlla, sul grande impatto che il coronavirus sta avendo in molti paesi stranieri. Il regime sta facendo sapere alla popolazione delle migliaia di casi in Corea del Sud, della situazione critica in Italia e in altri paesi europei, dicendo loro, tra le altre cose, che negli Stati Uniti ci sono situazioni di panico e code per andare a comprare armi e munizioni.
Informazioni di questo tipo sono accompagnate da resoconti e immagini di funzionari nordcoreani che disinfettano mezzi di trasporto e di stabilimenti che producono mascherine. Ci sono stati anche, come scrive sempre il New York Times, «inviti a far avere uova, carne e pesce a chi si trova in quarantena». Secondo il regime nordcoreano, le persone che sono o sono passate dalla quarantena sarebbero almeno 10mila.
Cosa dicono altre fonti
Visto che persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha molte possibilità di verificare quel che dice la Corea del Nord, gli unici modi per verificare quel che sostiene il regime nordcoreano sono i pochi video e resoconti che arrivano dal paese. Il New York Times ha scritto di aver visionato alcuni video in cui sotto alla scritta “stazione di disinfezione” ci sono degli sporchi pezzi di ghiaccio e un non meglio identificato liquido disinfettante con cui pulirsi.
Da altre fonti, quasi sempre riconducibili a disertori scappati in Corea del Sud, arrivano notizie contrastanti. C’è chi dice che non c’è modo di confermare che nel paese si stia diffondendo il contagio. C’è chi invece parla di una realtà profondamente diversa da quella raccontata dal regime, raccontando di casi di contagio e morti all’interno dell’esercito nordcoreano. Seo Jae-pyoung, segretario generale di un’associazione di disertori con sede a Seul, in Corea del Sud, ha detto: «Quando dicono che non ci sono casi, è una palese bugia. Lo fanno perché l’ultima cosa che vogliono è il caos che potrebbe scoppiare se i nordcoreani scoprissero che la gente sta morendo per un’epidemia senza cura».
È possibile che, almeno per ora, la realtà stia nel mezzo. Ahn Kyung-su, capo di un centro di ricerca medico sudcoreano, ha detto al New York Times di ritenere che in Corea del Nord ci siano casi di COVID-19, ma che non pensa che quei casi siano tanti quanti quelli di paesi come l’Italia, gli Stati Uniti o la Corea del Sud.
Cosa potrebbe succedere
Sia nel caso in cui il contagio sia già iniziato senza che il regime abbia potuto o voluto accorgersene, sia nel caso in cui il contagio sia già in corso con il regime che cerca di nasconderlo, le conseguenze in Corea del Nord potrebbero essere ben più drammatiche che nel resto del mondo. In un paese con quasi il 40 per cento di persone malnutrite e con un sistema sanitario arretrato, un contagio non controllato potrebbe avere percentuali di letalità più alte che altrove, trasformandosi in un disastro umanitario. Tutto diventerebbe ancora più grave nel caso in cui la Corea del Nord cercasse di nascondere o minimizzare la cosa, per esempio decidendo di non chiedere aiuto all’estero.