L’e-commerce funziona ancora?

Secondo i decreti sì, anche se alcuni siti non accettano più ordini, altri hanno ridotto i tipi di prodotti che spediscono e secondo i sindacati dei corrieri dovremmo fare meno shopping

Un corriere consegna pacchi in un palazzo di Roma, il 18 marzo 2020 (Alfredo Falcone/LaPresse)
Un corriere consegna pacchi in un palazzo di Roma, il 18 marzo 2020 (Alfredo Falcone/LaPresse)

Tra le attività lavorative che secondo il decreto del governo del 22 marzo possono continuare a essere svolte, nonostante le restrizioni per contenere il contagio da coronavirus (SARS-CoV-2), ci sono i servizi postali e le attività dei corrieri. Il ministero dello Sviluppo economico ha poi chiarito che il decreto ha confermato quanto stabilito dal precedente decreto dell’11 marzo, secondo cui è permesso il «commercio al dettaglio di qualsiasi tipo di prodotto effettuato via internet». Dunque, salvo alcune eccezioni, i siti di e-commerce permettono di fare ordini e farseli recapitare a casa: moltissime persone lo hanno fatto nelle ultime settimane, facendo aumentare notevolmente il numero di acquisti online e quello delle consegne.

È però una buona idea comprarsi un paio di scarpe, una maglietta, un gioco di società e tante altre cose che difficilmente possono essere considerate essenziali quanto gli alimentari e i prodotti per l’igiene personale? Secondo i principali sindacati che rappresentano i lavoratori dei trasporti, della logistica e dei corrieri, la risposta è no. Per questo stanno cercando di ottenere regole più rigide sui prodotti che possono essere spediti. Anche se le cose dovessero rimanere come sono oggi, però, la vendita di prodotti online e la loro spedizione è cambiata in questi giorni in diverse parti d’Italia.

Dove non si possono ricevere pacchi
Secondo dove si risiede, potrebbe essere già impossibile farsi spedire oggetti acquistati online. SDA, l’azienda di spedizioni espresse di Poste Italiane, non accetta spedizioni da e per alcune sue filiali e chiede esplicitamente di non mandare pacchi da e verso i CAP che servono: sono le filiali delle province di Bergamo, Brescia, Bologna e Modena, e quella di Milano 4, che si occupa dei CAP del nord-est di Milano e di alcuni comuni vicini. Alcune persone in attesa di pacchi nelle zone di queste filiali hanno saputo dai call center che i lavoratori sono in sciopero. Le spedizioni non sono possibili anche verso i CAP delle province di Avellino, Cuneo e L’Aquila, da cui però si possono fare spedizioni in uscita.

Anche altri dei principali corrieri attivi in Italia hanno limitato le zone in cui lavorano, e negli ultimi giorni hanno dovuto variare la loro attività per via di scioperi e altre forme di astensione dal lavoro degli impiegati in alcune delle loro sedi, ad esempio a Padova e Firenze. In questi casi, ha spiegato il sindacalista Giovanni Boetto dell’ADL Cobas di Padova, i lavoratori hanno protestato e protestano perché non erano state distribuite mascherine adeguate o non c’era modo di rispettare le distanze: ci sono magazzini in cui il tasso di lavoratori assenti raggiunge il 40 per cento perché ci si mette in malattia o in ferie per non dover lavorare in condizioni ritenute poco sicure.

BRT, l’ex Bartolini, un’altra azienda di spedizioni molto usata in Italia, ha sospeso le attività nelle proprie filiali di Rovato, Bergamo Osio, Bergamo Grassobbio, Brescia e Brescia Centro, dunque chiede che non le siano affidate spedizioni destinate ai CAP serviti da queste filiali (qui c’è l’elenco completo). Il corriere americano UPS ha detto che – oltre a non fare consegne nelle zone vietate dalle ordinanze regionali – potrebbe avere dei ritardi nelle consegne e nei ritiri nelle province di Genova, L’Aquila e Modena. FedEx e TNT hanno sospeso il servizio per i CAP serviti dalle filiali di Alessandria, Bergamo, Brescia e Orbassano e, per i soli servizi domestici di ritiro, nelle filiali di Como e Monza. Segnalano anche che potrebbero esserci ritardi nelle zone servite dalle filiali di Bologna, Grosseto, Milano, Modena, Vicenza e Zibido, in provincia di Milano.

Ci sono anche alcuni comuni dove il recapito dei pacchi è espressamente vietato da ordinanze regionali: sono quelli dove è vietato l’ingresso e l’uscita dal territorio comunale per l’alto numero di contagi e possono variare di giorno in giorno. Quelli di oggi sono: Castiglione Messer Raimondo, Montefino, Arsita, Bisenti e Castilenti, in provincia di Teramo; Sala Consilina, Caggiano, Polla e Atena Lucana in provincia di Salerno; Rogliano, Santo Stefano di Rogliano e San Lucido in provincia di Cosenza; Pozzilli e Venafro in provincia di Isernia; Medicina, in provincia di Bologna; Chiusi in provincia di Siena; Elice, in provincia di Pescara; Moliterno in provincia di Potenza; Ariano Irpino in provincia di Avellino; Montebello Jonico in provincia di Reggio Calabria; Cutro in provincia di Crotone; Serra San Bruno in provincia di Vibo Valentia; Agira in provincia di Enna; Villafrati in provincia di Palermo e Salemi in provincia di Trapani.

Chi spedisce e cosa
Dopo la pubblicazione del decreto di domenica 22 marzo, poi, alcuni siti di e-commerce che non vendono beni di prima necessità hanno annunciato la chiusura dei propri magazzini e la conseguente sospensione degli ordini; un esempio è il negozio online del marchio di abbigliamento Benetton. Nonostante l’abbigliamento non rientri tra le produzioni considerate essenziali, però, è tuttora possibile acquistare vestiti e scarpe, tra le altre cose. Per esempio si può fare sul sito Asos e su quello di Nike, che comunque avverte di aver avuto «dei problemi nelle consegne in alcune aree» d’Italia. Funzionano poi quei siti che vendono molte diverse categorie di prodotti, tra cui alcuni considerabili essenziali e altri no.

Amazon, il più grande negozio online attivo in Italia e rivenditore di più o meno qualsiasi cosa, sabato aveva annunciato di aver smesso «di accettare ordini su alcuni prodotti non di prima necessità» per poter lavorare meglio alle spedizioni di prodotti come gli alimentari, i prodotti per l’igiene e la salute, i libri per ragazzi, i prodotti per l’infanzia e quelli per aiutare le persone a lavorare da casa. Effettivamente ora molti prodotti non risultano disponibili per l’acquisto, ma non è del tutto chiaro cosa sia considerato un bene di prima necessità e cosa no. Secondo i dipendenti del magazzino di Torrazza Piemonte, uno dei più grandi di Amazon in Italia, che martedì hanno cominciato uno sciopero, l’azienda continua a stoccare e consegnare prodotti non di prima necessità, oltre a non aver modificato l’ambiente di lavoro in modo da proteggere la salute dei lavoratori del magazzino.

Lunedì un’ordinanza della Regione Emilia-Romagna relativa alla sola provincia di Piacenza – dove peraltro si trova il grande magazzino di Amazon di Castel San Giovanni – ha stabilito che le aziende di logistica e magazzino che gestiscono merci possano continuare a lavorare solo nel caso in cui queste merci, compresi i prodotti in vendita sugli e-commerce, siano legate «ad attività o filiere riguardanti beni essenziali». A livello nazionale però l’attività degli e-commerce e dei corrieri è permessa, come dicevamo.

Cosa dicono i sindacati
I principali sindacati che rappresentano i lavoratori dei trasporti di merci e dei corrieri – FILT CGIL, FIT CISL e Uiltrasporti – avevano detto di essere soddisfatti dal decreto del 22 marzo, perché ha fatto una prima distinzione tra i prodotti essenziali e quelli che non lo sono. Vorrebbero però che il governo chiarisse con maggiore precisione quali merci debbano essere spedite, e pensano che ancora oggi si lavori con molti prodotti che non sono veramente di prima necessità: individuare le attività essenziali attraverso i codici ATECO – quelli usati dall’ISTAT per classificare le attività economiche – lascia spazio a troppe imprecisioni, secondo loro. Intanto segnalano alle aziende, alle prefetture e alle regioni quei casi in cui, secondo loro, i decreti sul coronavirus non sono rispettati.

Leggi anche: Gli scioperi contro le attività “non essenziali”

Michele De Rose, segretario nazionale della FILT CGIL, ha detto al Post che secondo il sindacato «ci vorrebbe un po’ più di coscienza da parte dei cittadini» per quanto riguarda gli acquisti online. Maurizio Diamante, segretario nazionale di FIT CISL, spera che nei prossimi giorni ci sia un minor utilizzo dei servizi di e-commerce per comprare prodotti «superflui»: sarebbe meglio, secondo lui, trovare passatempi alternativi allo shopping, per limitare i rischi per la salute di chi si occupa delle consegne.

Le regole sulle consegne
A prescindere da ciò che viene consegnato, da quando è iniziata la crisi sanitaria dovuta al coronavirus sono cambiate le modalità di consegna, secondo quanto richiesto dalle autorità per tutelare la sicurezza dei lavoratori. Poste Italiane per esempio ha ideato un sistema per evitare le firme necessarie per la consegna di alcuni pacchi e lettere: prima della consegna viene mandato al destinatario, via sms o via email, un codice di 5 numeri, che deve poi «essere comunicato all’addetto al momento del recapito, per la relativa annotazione in luogo della firma». A loro volta altri servizi di corriere, come BRT, hanno tolto l’obbligo di firma e in generale il carico dei pacchi sui mezzi che li trasportano è stato riorganizzato per limitare al minimo o eliminare i contatti tra chi lavora nei magazzini e i corrieri, e tra i corrieri e chi riceve i pacchi a casa.

Leggi anche: È una buona idea usare i servizi dei rider in questi giorni?