La vera storia del “motociclista eroe” nell’incendio del traforo del Monte Bianco
Il 24 marzo del 1999 Pierlucio "Spadino" Tinazzi morì cercando di salvare un camionista nel gravissimo incidente: ma la vicenda fu raccontata male e assunse contorni leggendari
La mattina del 24 marzo del 1999, 21 anni fa, un tir belga che trasportava farina e margarina si fermò più o meno in mezzo al tunnel che collega la Francia e l’Italia passando sotto al massiccio del Monte Bianco. Nel giro di pochi secondi, per ragioni su cui ci sono dubbi ancora oggi, il camion prese fuoco, dando inizio a un enorme incendio che disperse fumi tossici all’interno del traforo, portando la temperatura intorno ai 1.000 °C. Morirono 39 persone. Tra loro c’era Pierlucio Tinazzi, un dipendente della società che gestiva il tunnel soprannominato da tutti Spadino, che fu soffocato nel tentativo di soccorrere un camionista in difficoltà.
Da quel giorno Tinazzi è diventato una specie di eroe per i motociclisti italiani ed europei, che fino all’anno scorso si ritrovavano ogni anno a centinaia per ricordarne il sacrificio. Ma le storie iniziali sulla morte di Tinazzi, che lo resero famoso in tutto il mondo, furono ampiamente esagerate dai primi resoconti giornalistici dell’accaduto. L’impresa di Tinazzi, morto davvero mentre cercava di salvare un’altra persona, assunse contorni leggendari: per anni si credette che avesse fatto avanti e indietro dal tunnel all’esterno portando in salvo una decina di persone, prima di morire in sella alla sua moto.
A contribuire alla leggenda di Tinazzi fu Mark Gardiner, giornalista americano attualmente al New York Times, che l’anno scorso ha raccontato sul sito della Columbia Journalism Review la storia di come scrisse dell’impresa di Tinazzi, e soprattutto di come qualche anno dopo si rese conto di averla sbagliata clamorosamente.
Dentro il traforo del Monte Bianco, che con i suoi 11,6 chilometri era il più lungo del mondo nel momento dell’inaugurazione, nel 1965, non c’erano stati fin lì incidenti significativi. L’incendio fu però un momento doloroso e storico per la comunità locale e per i pompieri francesi e italiani (uno dei quali morì durante i soccorsi), che ebbe strascichi lunghissimi e che tenne chiuso il tunnel per tre anni.
La storia dell’impresa di Tinazzi comparve per prima sui giornali locali. Appassionato di moto e guardia di sicurezza del traforo, quando si sviluppò l’incendio era all’ingresso francese. Non si sa se entrò per fare un giro di routine o perché aveva capito che stava succedendo qualcosa, ma fu probabilmente il primo tra il personale del tunnel a rendersi conto dell’incendio. Ancor prima di arrivare al tir in fiamme, però, incontrò un camionista francese privo di sensi: nella sua ultima comunicazione via radio con l’esterno, Tinazzi disse di averlo portato in uno dei rifugi antincendio lungo il tunnel. Nessuno dei due ne uscì vivo: la porta antincendio era testata per resistere a circa quattro ore di incendio, che però si spense soltanto due giorni dopo.
Per qualche ragione, però, i giornali locali raccontarono che prima di incontrare il camionista privo di sensi Tinazzi aveva fatto diversi viaggi dentro e fuori dal tunnel, portando in salvo dieci persone. Tinazzi, un tipo tranquillo e introverso che amava il giardinaggio, fu scelto come simbolo positivo della tragedia del traforo. L’anno dopo la presidenza della Repubblica gli assegnò la Medaglia d’oro al valore civile, e la Federazione Motociclistica Internazionale gli conferì la sua più alta onorificenza. Antoine Chandellier, giornalista francese che seguì la vicenda, ha spiegato che Tinazzi «era stato celebrato dai media italiani prima che chiunque avesse capito cosa fosse successo».
Un articolo di Repubblica di due giorni successivo all’incendio raccontò per esempio che Tinazzi «ne salva quattro, lo raccontano i camionisti vivi. Fa la spola, li porta verso le jeep dei pompieri, va e viene», raccogliendo anche la testimonianza di uno dei presunti camionisti salvati: «Ci ha tirati fuori da solo, a forza di braccia, ci ha portati sulla camionetta dei pompieri e poi è tornato indietro. L’ho visto sparire nel fumo». Il quotidiano francese La Croix scrisse che ne aveva salvati addirittura dieci. Gardiner, scoperta la sua storia, propose un articolo a diversi giornali e riviste, pubblicandolo per la prima volta nel 2003 e poi nel 2006 sull’autorevole rivista specializzata britannica Bike. Da lì, la storia di Tinazzi diventò famosa in tutto il mondo.
Nel 2019, in occasione del ventennale dell’incendio, a Gardiner fu commissionato un nuovo pezzo sull’accaduto dal New York Times. Facendo le sue ricerche, scoprì però che un dipendente della società che gestisce il traforo non voleva confermare la storia di Tinazzi. Un altro esperto di motociclismo italiano gli disse bruscamente che non era il caso di riaprire la questione. Rendendosi conto che qualcosa non tornava, Gardiner si mise a fare ricerche nelle documentazioni dei processi seguiti all’incendio, scoprendo che la polizia francese aveva esplicitamente smentito che Tinazzi avesse portato in salvo dieci persone. Leggendo pagine e pagine di rapporti ufficiali, capì che Tinazzi non poteva aver salvato nessuno.
Gardiner, che con il suo primo articolo del 2003 aveva davvero reso celebre la storia (i resoconti precedenti non avevano avuto circolazione online), racconta di essere rimasto molto deluso dal suo sbaglio. Si attribuisce gran parte della colpa, spiegando che all’epoca l’impossibilità di trovare riscontri ufficiali gli era sembrata dovuta alla riservatezza delle autorità italiane e francesi. Avrebbe dovuto fare molta più attenzione, ammette, «ma mi chiedo ancora come così tanti giornalisti, a partire dai giornali locali e fino ad arrivare a me, abbiano potuto raccontare».
Secondo Gardiner, a rendere inizialmente plausibile la storia iniziale potrebbe aver influito il fatto che un motociclista francese, Patrick Devouassoux, anche lui impiegato nella sicurezza del traforo, salvò in effetti molte persone nell’incendio, anche se non a bordo di una moto. «Non insistette su quanto fece nei giorni successivi all’incendio perché non voleva togliere nulla al sacrificio di Tinazzi», spiega Gardiner.
Quello dell’anno scorso è stato l’ultimo memoriale in ricordo di Tinazzi: qualche anno prima i motociclisti partecipanti avevano raggiunto i 4.000, e la logistica era diventata troppo difficile da gestire. Prima che si tenesse, la Società del Traforo aveva diffuso un comunicato in cui spiegava che «non esiste prova che Pier Lucio Tinazzi con la sua moto abbia portato all’esterno una prima persona, né che abbia ripetuto instancabilmente la manovra o che sia riuscito a salvare delle vite». Era vero però che invece di scappare dal tunnel era morto cercando di salvare un camionista, e perciò «il nostro richiamo alla realtà non vuole in alcun modo sminuire il valore dell’uomo e il significato del gesto compiuto, né l’importanza della commemorazione». Concludendo il racconto di come sbagliò la storia di Tinazzi, Gardiner scrive:
«Mentre scrivo, ho passato l’ultima settimana a rileggere le 76 pagine di appunti che presi nel mio viaggio. Le interviste che feci a sua sorella e a un po’ di amici stretti erano confortanti e commoventi allo stesso tempo. Mi rincuora sapere che il mio ritratto di Spadino era accurato, anche se il mio resoconto di quello che fece nell’incendio non lo era»