Si muore “con” o “per” il coronavirus?
È una distinzione che fa spesso il capo della Protezione Civile, ma è probabilmente una cautela comunicativa inutile
Ogni giorno, presentando i dati più recenti sull’epidemia da coronavirus, il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, fornisce come ultima informazione il numero dei morti, avendo sempre cura di specificare che sta parlando di morti “con” il coronavirus, sui cui decessi sta compiendo verifiche l’Istituto Superiore di Sanità (ISS). La scelta di usare la preposizione “con” e non “per”, che indicherebbe più esplicitamente la causa di morte legata al coronavirus, è stata notata da molti e porta a ricorrenti polemiche su come vengono comunicate le informazioni sull’epidemia da parte del governo.
Decessi in Italia
Dall’inizio dell’epidemia a lunedì 23 marzo in Italia sono risultate positive ai test per il coronavirus 63.927 persone, e 6.077 di queste sono morte. Il nostro è di gran lunga il paese con il più alto numero di morti: quasi il doppio rispetto a quelli segnalati dalla Cina, dove l’epidemia è cominciata alla fine dello scorso anno. L’Italia è anche il paese con la percentuale di decessi rilevati più alta tra i malati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus: il dato grezzo più recente sul tasso di letalità è del 9,51 per cento. E sappiamo che ci sono persone morte dopo aver probabilmente contratto il coronavirus ma senza che risultino nei dati ufficiali.
Il compito di certificare i decessi in Italia delle persone risultate positive al coronavirus spetta ai medici, che compilano appositi rapporti, e successivamente all’ISS, che ha il compito di confermare le cause di morte. Nei suoi documenti l’Istituto usa quasi sempre la definizione “pazienti deceduti positivi a COVID-19”, fornendo un’asettica descrizione della loro condizione senza attribuire o meno la causa di morte direttamente al coronavirus. Nelle sue analisi si sofferma inoltre su aspetti clinici importanti, come la presenza di altre malattie nelle persone poi decedute.
Nell’ultimo rapporto del 20 marzo, per esempio, l’ISS segnala che su un campione di 481 decessi (su 3.200 presi in considerazione) nel 23,5 per cento dei casi i pazienti deceduti avevano un’altra patologia, che il 26,6 per cento ne aveva due, che il 48,6 per cento ne aveva tre o più e che solo l’1,2 per cento non aveva altre patologie oltre a quelle causate dal coronavirus.
L’ISS ha inoltre segnalato che l’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comune (96,5 per cento dei casi), seguita dal danno renale acuto (29,2 per cento), problemi cardiaci acuti (10,4 per cento) e nuove infezioni (8,5 per cento).
Dati grezzi e certificati
I rapporti dell’ISS sono indietro nei conteggi rispetto ai numeri forniti quotidianamente dalla Protezione Civile, semplicemente perché l’Istituto impiega più tempo a effettuare le verifiche rispetto ai dati grezzi che vengono inviati ogni giorno dalle Regioni. In diverse conferenze stampa, Borrelli ha detto di usare “con” per questo motivo, considerato che i dati vengono comunicati in attesa della certificazione finale. In diversi hanno però segnalato che questa scelta comunicativa induca a pensare che le persone contagiate stessero per morire ugualmente, anche senza coronavirus.
Per o con
Stabilire l’esatta causa di morte di un individuo non è sempre semplice, anche quando ci sono malattie pregresse. È un problema di classificazione che i medici devono affrontare spesso con l’influenza stagionale, che su pazienti a rischio può comportare complicazioni che si rivelano letali. In quel caso un paziente cardiopatico è morto per la cardiopatia o per l’influenza? Le definizioni possono cambiare, ma in linea di massima nel nostro esempio l’influenza viene considerata come una delle cause della morte: non si può dire con certezza quanto ancora sarebbe vissuto il paziente cardiopatico, ma sappiamo che il virus influenzale ha compromesso una condizione già complicata, favorendo la morte del soggetto. Con il coronavirus dovrebbe essere lo stesso: pazienti cardiopatici o con il diabete muoiono per il coronavirus.
Dati
Al di là della scelta lessicale di Borrelli, va comunque segnalato che in Italia il dato sui morti dell’epidemia viene fornito quotidianamente e senza reticenze, comprendendo tutti i casi segnalati dalle regioni. Il numero dei morti non viene nascosto, anche se sulla base di diverse segnalazioni possiamo dire con certezza che è ampiamente sottostimato, soprattutto per quanto riguarda i dati dal Nord Italia dove l’epidemia è più diffusa (per esempio in provincia di Bergamo). Lo stesso Borrelli ha di recente ammesso che i casi positivi in Italia sono sicuramente di più di quelli segnalati ogni giorno durante la sua conferenza stampa: “Il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti è credibile”.
Segnalazione dei decessi
Nei giorni scorsi si è detto spesso che una delle cause del tasso di letalità più alto in Italia è dovuta al fatto che non tutti i paesi comunicano l’effettivo numero di morti, tra i positivi al coronavirus, implicando quindi che alcuni governi omettano informazioni. Ci sono sicuramente paesi con regimi non democratici verso i quali si possono avere dubbi sulla trasparenza nella comunicazione dei dati, a cominciare dalla Cina, ma se osserviamo le principali democrazie non ci sono elementi per sostenere che i dati vengano nascosti. La loro raccolta è comunque complicata ed è inevitabile che ci siano discrepanze tra un paese e l’altro, anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta facendo molti sforzi per ottenere dai governi dati omogenei.
Per giorni si è detto, per esempio, che in Germania il conteggio dei decessi per coronavirus fosse eseguito diversamente rispetto all’Italia, e che questo avrebbe spiegato il tasso di letalità della COVID-19 così basso nel paese. In più occasioni l’Istituto Robert Koch – responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive in Germania – ha chiarito che tutte le persone che risultano affette da COVID-19 e che poi muoiono sono indicate come decessi da coronavirus, anche se avevano altre malattie. Il criterio è lo stesso adottato dall’Istituto Superiore di Sanità nei suoi rapporti, e ancora prima dalla Protezione Civile quando comunica i dati in attesa di conferma. Lo stesso criterio viene adottato negli altri paesi dell’Unione Europea.
Ci sono diversi fattori che spiegano la bassa letalità in Germania e il principale sembra per ora essere demografico. L’epidemia sta interessando una fascia della popolazione più giovane di quella italiana: l’età mediana dei casi positivi tedeschi è di 47 anni contro quella di 63 anni per gli italiani. Le persone più anziane sono mediamente più a rischio e questo determina il maggior numero di decessi nel nostro paese. In Germania l’epidemia è ancora all’inizio e le cose potrebbero cambiare, portando a una letalità più alta e in linea con altri paesi, dicono gli epidemiologi.