La bella di Lodi
Come inizia il romanzo di Alberto Arbasino che racconta l'Italia del boom economico
La bella di Lodi è un romanzo di Alberto Arbasino, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento morto a 90 anni a Voghera il 22 marzo. Uscì come racconto sul settimanale Il Mondo nel 1960 e tre anni dopo il regista Mario Missiroli lo traspose in un omonimo film con la protagonista interpretata da Stefania Sandrelli, allora 17enne; nel 1972 uscì per Einaudi ampliato da Arbasino in un romanzo, ristampato più recentemente da Adelphi.
Non è forse l’opera più rappresentativa di Arbasino – cioè quella con la scrittura più sperimentale, caustica e surreale – ma racconta in modo calzante un pezzo di Italia e della sua storia: il boom degli anni Sessanta e la borghesia lombarda dell’industria agroalimentare, florida, avida, che si muoveva tra terre con vacche, speculazioni finanziarie, shopping in via Monte Napoleone, vacanze a St. Moritz e a Montecarlo. La storia esemplare di questo sfondo è quella tra Roberta, figlia di una di queste pingui famiglie, e Franco, un meccanico bellissimo e brutale incontrato in una spiaggia della Versilia. Questo è il primo capitolo.
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(La bella di Lodi © 2002 Adelphi Edizioni S.p.A.
Published by arrangement with The Italian Literary Agency)
Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano.
Quando son dritte, oltre ai bei denti e ai begli occhi e alla gamba lunga e al capello magnifico, chiaro, hanno tanta terra, almeno un paio di migliaia di pertiche (quindici pertiche fanno un ettaro); e anche se un anno il foraggio è scarso, un altro anno il prezzo del grano è fissato un po’ troppo basso, o il riso non rende, o se arrivano tutte insieme un bel po’ di cartelle d’imposte di successione arretrate, male che vada si tratterà di rinunciare a cambiare l’Alfetta per l’estate, o di non prendersi un gattaccio nuovo per il prossimo St Moritz; ma l’attività delle centinaia di vacche e del caseificio annesso basta comunque a produrre un reddito ancora abbastanza soddisfacente. Il timbro della casa, tanto, continua a stamparsi tutti i giorni sui pani di burro e sulle formagge di crescenza o di grana; e non importa poi tanto se non si vedono mai nelle vetrine dei bei negozi in centro; non è necessario che siano proprio d’una gran marca, possono essere benissimo d’una gran qualità andante o scadente, ma cos’importa… tanto, burro e formaggio, la gente li comprerà sempre tutti i giorni. E proprio male male che vada, si venderà il latte alla Centrale senza lavorarlo, come quando nelle annate di grandine in collina, qualche dieci chilometri più sotto, si vende l’uva alla Cantina Sociale invece di pigiarla in casa, e si sta magari un anno senza far cantina. Ma del resto, ancora abbastanza spesso, i terreni agricoli sulle strade vicinali asfaltate si possono vendere anche ottimamente come terreni da costruzione.
Di dove vengono i soldi? Per parecchie generazioni loro sono stati affittuari di grossi fondi agricoli nel basso Milanese, per esempio di proprietà dell’Ospedale Maggiore. Poi, verso la fine dell’Ottocento, ai figli maschi si cominciava a comprare, uno dopo l’altro, un fondo proprio, organizzato secondo la maestosa struttura quadrilatera longobarda che si vede bene specialmente dall’aereo, il palazzetto dell’abitazione con le case dei contadini e le stalle e il rustico intorno al medesimo gran cortile patriarcale col concime e i rigagnoli (esterno invece il giardino circondato da un semplice muro), mentre le figlie venivano tacitate con una dote in denaro liquido che permetteva ai loro mariti di avviarsi in una professione in città e di comprarsi anche una casa in campagna per l’estate da kulaki tipo Zio Vania e Tre Sorelle. Però anche per lunghi periodi hanno abitato per ragioni di figli a scuola o di nonne vecchie da curare anche a Milano, in case generalmente di proprietà, anche una villa con giardino a Porta Vittoria ai primi del secolo, rivendute poi con vantaggio, e tornando poi sempre sulla terra nelle fasi di guerra o di depressione economica.
Questo insomma è il tipo di ragazza che vive una buona parte dell’anno in campagna, in questa grossa casa vicina alla strada, al centro d’uno dei fondi nel giro fra Lodi, Sant’Angelo, da dove viene la Santa Cabrini, che era una tremenda, e infatti nella zona si usa ancora come modo di dire «cattivo come la Cabrini», Codogno, Piacenza, e Casale, cioè Casalpusterlengo, dove si va a fare il mercato due volte alla settimana, il lunedì e il giovedì.
A Milano ci ha abitato anche lei, per degli anni, ci ha anche fatto un po’ di scuole, piantate lì anche abbastanza in fretta, ma senza la superbia di certe compagne di scuola di certe vecchie famiglie di Monza, che guardano sempre dall’alto in basso tutto quello che è di Milano, perché loro si sentono più antiche e più solide. Anche a Roma, più volte, per la salute e per il clima.
Comunque tra la solita Montenapoleone e l’eterna Portofino lei conosce diversa gente, e ha imparato quasi tutto; ma proprio in città non si è mai fermata poi tanto, e del resto prima ancora di Portofino non sono mica tanto lontani gli anni di Cavi di Lavagna e Spotorno, quando le mamme dicevano ai bambini «Mariarosa e Giancarlo, guai a voi se giocate ancora col Giampiero, che è un monellaccio, e anche la mamma del Gianluca e quella del Gianluigi e del Pierluigi non glie li lasciano più giocare insieme». Poi sono venuti gli anni quando tutti i bambini si chiamavano Patrizia o Fabrizia o Tiziana o Graziano, si sa; e poi cambiarono spiaggia.
Ma Milano, adesso, la salta abbastanza via. Arriveranno giù certamente, per la giornata o anche magari per qualche giorno, le ragazze di Lodi, per andare da una loro gran sarta o a comprare degli arnesini meravigliosi e carissimi per la cucina americana in San Babila; o arriveranno giù insieme coi fratelli e gli amici e tutti la domenica pomeriggio per andare a San Siro, poi una gran bella mangiata in un buonissimo posto toscano dove si trova poi sempre anche qualche giocatore, e la sera magari hanno ancora lì l’appartamento o l’abbonamento alla sauna; e andare per andare, davvero tanto vale, quando ci si muove, passare qualche giorno a Parigi o in montagna in Svizzera, o magari (però molto più di rado) passare qualche giorno a Roma. Ma con fastidio. Più spesso di tutto partono per Londra: il loro corso d’inglese, e di tutto, è quasi sempre là che l’han fatto. Ed è naturalmente di là che parte tutto quel loro gusto per certi biscotti, certe argenterie, certi tè, certe librerie girevoli, e una certa marca di whisky, e una certa marca di sherry, oltre che ovviamente quella tale ondata di cashmere che ha finito per conquistare anche i padri più fascisti, dopo aver ridimensionato qualsiasi madre o zia con quell’inverosimile doppio golfino chiamato twin set.
Le lingue straniere, una o due, col loro accento di Lodi, le parlano bene e anche abbastanza in fretta; la macchina, la guidano piuttosto disinvolta, da parecchi anni; i loro biglietti di teatro o d’aereo, con la loro prenotazione e tutto, sono abituate a prenderseli da sole, e lo stesso con quei ragazzi più o meno grandi – «’sti scemi!» – se non ci arrivano loro, sanno benissimo come fare a portarli da qualche parte subito, o a o a tenerli per dopo. Tanto, ’sti scemi, son sempre lì. Le case, han fatto presto a rinnovarle, coi loro camini e i loro bar e le loro scale nuove, con tanto marmo e tanto ottone ben lucido, e il suo mogano, e tutti i bagni che funzionano giusti; ma poi parecchie delle vecchie cose sbattute malamente in solaio fra i tananà e i tanavèi han finito per ritornare da basso anche un po’ tallonando la panoplia degli stampi per budino di rame comprati carissimi lungo la strada fra Camogli e Santa Margherita. Qualche anno fa – erano piccole e non si capiva se il dopoguerra era già finito o no – hanno imparato tutte, ma proprio tutte, a parlare con tante sibilanti che cascavano giù come coltellate sulla torta, al posto dei c e dei g: si va al zinema, ho imparato il zarleston, ti piaze, ma cosa mi dizi, ah che bel viazzo che ho fatto a Montecarlo, però con un accento, un azzento, molto più svizzero che non bologhnese…
Milanin Milanon, comunque, la guardano sempre oramai come una specie di pied-à-terre o di supermarket, considerandola un po’ dall’alto, quando si va giù a far shopping; ma poi basta; proprio nient’altro; abitarci tutto l’inverno? non val più la pena; si va giù lì quando se ne ha bisogno, se se ne ha voglia… verso le undici o verso le quattro… ma tanto vale (si sta molto meglio) ronfare a casa nelle grosse stanze piene di divani, in compagnia di qualche amica del posto e di qualche ospite straniero o straniera fra Londra e St Moritz e Montecarlo, e una qualche zia che quando ha voglia di mettersi in cucina sa far da mangiare infinitamente meglio che qualunque Cordon Bleu toscano, e i ragazzi per casa, macché laurea adesso, a curare l’azienda. Nella contabilità son fortissime, di costi son fin troppo pratiche, a star dietro ai lavori non ci vuol niente, perché li conoscono bene da quando son nate, ci son nate dentro: e coi famèi in stalla e coi mediatori in piazza sanno benissimo come trattare, all’occorrenza; e tante volte, proprio per la passione della terra e l’interesse del soldo, dopo sposate stan più dietro loro all’azienda che non il marito.
La nostra amica non ha più né il papà né la mamma da qualche anno, ma del resto quella è una generazione che ha sempre contato pochissimo. In casa chi comanda sono i nonni – più energica lei, più decorativo lui – che fanno andare avanti bene la terra: dopo tutto, hanno sempre comandato, sono loro i veri fondatori. Sarà per questo che lei è così attaccata al fratello, che ha quasi due anni meno; ma in sostanza sono alti quasi uguali, vestaglie e impermeabili dell’uno vanno regolarmente bene anche all’altra. Anche quasi gli stessi capelli. Cresciuti sempre insieme, sono molto affiatati, alle spalle della nonna che ripete volentieri «in questa casa comando io!» e «finché sto al mondo io si fa come si è sempre fatto!», si raccontano anche le loro cose più incredibili, anche se la nonna continua a ripetere «finché campo io, in questa casa non si cambia un bel niente!», e la mattina, se stanno a letto abbastanza tardi, han l’abitudine di dirsi tutto quello che han fatto la sera prima.
La nostra amica, Roberta, lo chiama volentieri con tutti i nomi dei ragazzi fotografati su «Paris-Match» perché somiglia tantissimo a tutte le loro foto a colori: stessi capelli, stessi occhi, sorriso uguale (e lui, magari per via degli occhi, provava ugualmente a chiamarla con qualche nome d’attrice, ma è una sciocchezza, lei non voleva, e ha smesso: non somiglia realmente a nessuna, poi). Ma le confidenze che loro due si fanno, sono veramente su tutto: tanto vero che nessuno dei due fa mai l’amore senza poi andar subito a riferir tutto all’altro, dicendo soldi ai soldi e cazzo al cazzo.