I medici di famiglia sono in grandi difficoltà
Nelle zone più colpite dal coronavirus stanno arginando l'afflusso di pazienti agli ospedali senza istruzioni e strumenti sufficienti, rischiando grosso e sentendosi abbandonati
di Stefano Vizio
Nelle quasi quattro settimane di epidemia di coronavirus (SARS-CoV-2) in Italia, le categorie professionali più visibili – per la mole di lavoro, stress e sofferenze che hanno dovuto affrontare – sono stati i medici e gli infermieri degli ospedali delle aree più colpite del Nord Italia, che hanno dovuto gestire un afflusso di pazienti troppo alto per le risorse a disposizione, specialmente nei reparti di terapia intensiva. Ma in mezzo alla più grave crisi sanitaria dell’Italia repubblicana, questo sovraccarico di lavoro e problemi improvviso e mai visto si è distribuito su gran parte delle strutture del sistema sanitario nazionale, dalle ASL agli operatori delle ambulanze, e in particolare su una categoria poco raccontata, ma che sta lavorando in condizioni difficilissime: i medici di medicina generale, cioè i medici di famiglia.
Il Post ha parlato con dieci di loro in Lombardia ed Emilia-Romagna, nelle province più colpite dall’epidemia come Bergamo, Brescia, Crema e Piacenza e in altre apparentemente meno interessate dal contagio come Milano, raccogliendo testimonianze molto simili. Tutti hanno raccontato di una categoria professionale lasciata a se stessa a gestire i propri pazienti nel mezzo di un’epidemia senza precedenti nella storia recente, priva degli strumenti necessari per affrontarla sia dal punto di vista delle linee guida e dei protocolli da seguire, sia per quanto riguarda i dispositivi di protezione individuale. Gli altri racconti pubblicati in questi giorni sui giornali e sui social network confermano questo scenario.
«Siamo senza difese e senza armi», ha detto Paola Pedrini, segretaria della Federazione Italiana Medici di Famiglia della Lombardia che lavora in provincia di Bergamo, la più interessata dai contagi.
Quasi tutti i medici di famiglia lombardi ed emiliani sentiti dal Post hanno visitato a domicilio pazienti risultati poi positivi al coronavirus senza le adeguate protezioni, continuando nei giorni seguenti a svolgere le attività di ambulatorio non rinviabili. Diversi si sono messi per questo in autoisolamento dalle proprie famiglie, dedicando ore e ore ogni giorno a controllare i pazienti che segnalano sintomi sospetti e cercando di ridurre il numero di persone che si presentano ai pronto soccorso degli ospedali, già sovraccarichi di pazienti con sintomi gravi o gravissimi.
Tutti lamentano la frustrazione di dover fare rassicurazioni sommarie e false promesse ai tantissimi pazienti che sospettano di aver contratto la malattia COVID-19, ma ai quali non è stato possibile fare il tampone per i limiti di risorse o per via degli attuali rigidi criteri applicati da alcune regioni, come la Lombardia. Sono preoccupati di sbagliare diagnosi e terapie in mancanza di istruzioni coerenti e ufficiali, e sono ostacolati nel loro lavoro dalla confusione nelle comunicazioni con le ASL e con gli ospedali.
Cristina Taverna e Luca Giono lavorano a Novamedica, un’associazione che riunisce medici di famiglia e specialisti a Crema, una delle zone colpite per prime e più intensamente dall’epidemia. Non sanno dire quanti dei loro pazienti abbiano contratto la COVID-19: in primo luogo perché soltanto a una parte di quelli che ritengono fortemente sospetti o probabili è stato fatto il tampone; in secondo luogo perché non hanno a disposizione una linea di comunicazione per conoscere l’eventuale positività dei propri pazienti quando sono sottoposti al test, che a Crema ormai viene fatto quasi esclusivamente ai casi che arrivano in ospedale, e spesso soltanto dopo un primo accertamento con una TAC toracica.
«Abbiamo contatti con gli ospedalieri soltanto a livello informale, in amicizia: la comunicazione è a livello di oratorio», dice Taverna. Ognuno ha il suo protocollo e le istruzioni fornite dall’ATS Val Padana cambiano a distanza di pochi giorni: «Siamo allo sbando» dice Taverna, ipotizzando che almeno in parte questa condizione dipenda dal fatto che i medici di medicina generale non hanno un profilo giuridico preciso, a metà tra i liberi professionisti e i dipendenti pubblici.
Uno dei primi problemi segnalati dai medici di famiglia è l’insufficienza dei materiali di protezione ricevuti. Alla maggior parte di quelli con cui ha parlato il Post sono state fornite soltanto una decina di mascherine chirurgiche (quindi senza i filtri FFP2 e FFP3 raccomandati dall’OMS), un sovracamice, qualche guanto e qualche cuffia. Materiale che in teoria, applicando letteralmente i protocolli, durerebbe un giorno o due, ma che i medici di famiglia stanno usando per giorni e giorni integrandolo con le cose che sono riusciti a procurarsi con grandi difficoltà nelle farmacie o nelle ferramenta, a prezzi fuori mercato.
Un portavoce del ministero della Salute ha spiegato al Post che la carenza nazionale di mascherine e altri materiali sanitari di protezione ha reso impossibile rifornire tutti i medici che ne hanno bisogno, e che la priorità è stata data a quelli che lavorano in ospedale. La decisione è stata presa perché, anche per via delle restrizioni agli spostamenti che impongono il posticipo delle visite non urgenti, «il medico di famiglia rischia meno».
Ma i medici di famiglia con cui ha parlato il Post non sono d’accordo con questa valutazione del rischio, e dall’inizio della crisi in Italia ne sono già morti sei dopo aver contratto la COVID-19 visitando i propri pazienti: Roberto Stella, Marcello Natali, Ivano Vezzulli, Mario Giovita, Giuseppe Borghi e Antonino Buttafuoco, tutti lombardi.
I medici di famiglia raccontano che tutte le loro visite a domicilio ai pazienti poi risultati positivi, o a quelli fortemente sospetti, sono fatte senza poter disporre dei materiali protettivi – come camici usa e getta e occhiali protettivi – in dotazione agli ospedalieri. Questo è un problema soprattutto perché gli stessi medici continuano a visitare i pazienti che hanno altri problemi urgenti, oltre a convivere con i propri familiari, nei casi in cui non si siano messi in autoisolamento. L’indicazione delle ASL ai medici di famiglia è che anche dopo essere stati esposti a casi confermati non devono fare il tampone fino all’eventuale comparsa di sintomi, e nel frattempo devono continuare a lavorare.
Il dottor Michele Marzocchi riceve a Milano. Anche lui lamenta la mancanza di protocolli e di materiale di protezione. È riuscito a farsi portare un po’ di mascherine da un amico che vive in Svizzera, e ne ha poi comprate altre in una farmacia milanese, pagandole molto più del prezzo di mercato. Marzocchi non vede i suoi familiari, così come qualunque altra persona che non siano suoi pazienti, da settimane. «La nostra categoria è stata completamente abbandonata al suo destino», dice.
Due dei suoi pazienti sono risultati positivi al coronavirus. In entrambi i casi sono stati loro stessi a comunicarglielo, per messaggio: il primo, un 49enne, gli ha scritto poco prima di essere messo in ventilazione. Marzocchi ha provato ad avere conferme chiamando l’ospedale milanese dove era stato ricoverato, ma non gli è stato detto niente per motivi di privacy. Non avendo il numero dei familiari, non ne ha più avuto notizie: non sa quali siano attualmente le sue condizioni.
Il problema di comunicazione tra gli ospedali e i medici di famiglia è comune a quasi tutti i medici contattati dal Post, che hanno saputo della positività dei propri pazienti al coronavirus dai pazienti stessi, oppure dai loro familiari. Oltretutto, le ASL richiedono agli stessi medici di comunicare l’eventuale risultato positivo dei test, rendendo ancora più confusa la condivisione di queste informazioni tra medici, ospedali e ASL.
«Non essendoci nessuna linea guida ufficiale per la gestione territoriale dei pazienti sospetti siamo costretti a rassicurarli quotidianamente fidandoci del nostro istinto e della nostra esperienza, ma non abbiamo alle spalle la letteratura scientifica per esserne certi» spiega Marzocchi. «Tutti quanti abbiamo avuto esperienza di pazienti paucisintomatici [cioè con sintomi più lievi, ndr] finiti in rianimazione all’improvviso senza nessun sintomo premonitore».
Non avere la possibilità di fornire una diagnosi è «una sofferenza», spiega Chiara Savoldi, che ha un ambulatorio a Ospitaletto, in provincia di Brescia. È un problema anche per quanto riguarda la gestione della durata dei permessi e degli isolamenti di pazienti sospetti ma non accertati COVID-19. «I numeri comunicati sono la punta dell’iceberg, quello che si percepisce dal territorio è che sia molto più diffuso».
Secondo l’esperienza di Marzocchi «ogni paziente viene gestito come caso a sé, senza nessuna uniformità tra colleghi ma nemmeno tra un paziente e l’altro. Dobbiamo inventarci le terapie seguendo istinto e buon senso». Quasi tutte le visite dei pazienti sospetti avvengono telefonicamente, ma questo non vale per i casi più gravi: quelli vengono ancora visitati a domicilio «sacrificando i pochi dispositivi di protezione comprati a peso d’oro. Io ho pagato 60€ una mascherina con filtro FFP3. Di sicuro non posso permettermi di usarne una per paziente», aggiunge.
Sara Resi, medico in formazione di medicina generale che sta sostituendo un collega a Piacenza, una delle città più coinvolte dall’epidemia di coronavirus, è anche tirocinante al Dipartimento di Cure Primarie dell’ASL locale. Ha spiegato al Post che almeno a Piacenza la comunicazione tra ASL e medici di medicina generale funziona meglio: le ASL segnalano via fax ai medici di famiglia quando i loro pazienti risultano positivi, oppure usano un’apposita piattaforma regionale dell’Emilia-Romagna, chiamata SOLE. Savoldi, che fa riferimento all’ATS di Brescia, dice che anche nel suo caso da alcuni giorni ha a disposizione un portale per verificare l’eventuale positività al coronavirus dei suoi pazienti. I medici di Milano con cui ha parlato il Post sono stati messi al corrente di un servizio del genere offerto dalla loro ATS soltanto giovedì 19 marzo.
Paolo Maggioni è un medico con l’ambulatorio in zona Navigli, a Milano. Finora tre dei suoi pazienti sono risultati positivi al coronavirus, attualmente in ospedale. L’ultimo è stato ricoverato venerdì scorso: è stato Maggioni a chiamare l’ambulanza, dopo che il paziente era peggiorato nella notte. Dopo il risultato positivo del tampone, ai familiari conviventi del paziente è stato detto di rimanere a casa in quarantena senza che venissero testati, non presentando sintomi. Da tre settimane Maggioni non vede la sua compagna e sua figlia, essendosi messo in isolamento: nonostante l’esposizione ai positivi accertati non ha potuto fare il tampone, e continua a vedere quei suoi pazienti con altri problemi che non possono rimandare i loro appuntamenti.
Negli ultimi giorni, Maggioni riporta un grosso incremento dei casi di pazienti con febbre moderata, generalmente sotto ai 38 °C, ma che si prolunga oltre quella dovuta alle normali influenze stagionali, per più di una settimana. Prescrive il paracetamolo, li sente telefonicamente ogni giorno, e va a visitarli dopo una settimana, proteggendosi con il materiale sanitario che ha a disposizione. Li tranquillizza e raccomanda loro di stare a casa, ma senza la possibilità di fare il tampone non può escludere si tratti di forme più lievi di COVID-19.
Questa situazione preoccupa Marzocchi sia dal punto di vista etico sia legale: «La situazione degli ospedalieri è difficilissima, ma almeno loro hanno delle indicazioni ufficiali a cui attenersi che aiutano anche a sentire di stare facendo le cose nel modo giusto. Sono tutelati come categoria in molti sensi che a noi non sono concessi. Ma se uno dei pazienti che ho visto dopo essere stato esposto a un positivo morisse di COVID-19 io cosa dovrei pensare? Chi ci tutela legalmente e psicologicamente?».
Una delle principali difficoltà denunciate dai medici di famiglia del Nord Italia con cui ha parlato il Post, infatti, è la definizione di “casi sospetti”, che quindi necessitano di essere testati per l’eventuale positività al coronavirus. Attualmente, la circolare ministeriale include in questa categoria i casi sintomatici che hanno avuto contatti certi con persone risultate positive; i casi con sintomi gravi che richiedono ricovero ospedaliero; e infine «una persona con infezione respiratoria acuta», definita come «insorgenza improvvisa di almeno uno tra i seguenti segni e sintomi: febbre, tosse e difficoltà respiratoria», e descritta meglio in alcune circolari del ministero della Salute.
Ma le interpretazioni di questa categoria di “caso sospetto” possono essere comunque molte, secondo i medici con cui ha parlato il Post: attualmente in Lombardia il tampone viene fatto generalmente soltanto a chi presenta sintomi abbastanza gravi, e in certe aree, come per esempio Milano, Crema, Brescia e Bergamo, principalmente a chi sta così male da dover essere ricoverato in ospedale. Dato che i posti letto in molti ospedali scarseggiano, a essere ricoverati – e quindi a essere sottoposti a tampone – sono soltanto i casi con gravi insufficienze respiratorie.
A tutti gli altri, i medici di famiglia dicono di stare a casa, il più possibile isolati dai conviventi, e di tenerli aggiornati sulle loro condizioni. Il controllo costante dei tantissimi pazienti che segnalano sintomi lievi o moderati riconducibili alla COVID-19, ma che non rientrano tra i soggetti a cui attualmente viene fatto il tampone, è affidato ai loro medici di famiglia: un lavoro telefonico quotidiano che richiede molto tempo e risorse. Savoldi stima che questa attività occupi dal 70 all’80 per cento del suo lavoro quotidiano, ma è fondamentale per evitare che troppe persone, preoccupate dai propri sintomi, si presentino in pronto soccorso, aumentando il carico di lavoro degli ospedali e i rischi di contagio.
Il ministero della Salute ha spiegato al Post che la valutazione sui pazienti che richiedono il tampone spetta ai Dipartimenti di Igiene Pubblica e a quelli di Cure Primarie delle Aziende Sanitarie Locali (ASL, ATS in Lombardia), che esaminano i singoli casi tenendo conto di vari fattori, tra cui i contatti con persone risultate positive e le eventuali patologie pregresse che li rendono particolarmente a rischio.
Resi spiega che per la sua esperienza a Piacenza i tamponi a domicilio vengono ancora fatti, e quindi a essere sottoposti ai test non sono soltanto i casi sospetti così gravi da richiedere un ricovero. Ci sono poi eccezioni, di pazienti che aspettano da tanto tempo, ma «ciascuno sta dando il massimo». Anche chi lavora nei dipartimenti delle ASL a cui spetta la presa in carico delle segnalazioni dei casi sospetti e la sorveglianza dei pazienti in isolamento fiduciario sta lavorando a ritmi serrati e fa i turni di notte, spiega Resi.
Anche i pazienti di Marzocchi che lamentano una febbre persistente, insieme ad altre forme lievi dei sintomi di COVID-19, sono tanti: una decina soltanto nell’ultimo weekend, a cui viene raccomandato di rimanere isolati e di aggiornare sulla propria situazione. Non si sa cosa dire ai loro conviventi, se per esempio possono andare a fare la spesa o al lavoro. Marzocchi segnala anche che, parlando con i suoi colleghi, in diversi avevano notato un incremento delle polmoniti virali già prima dei casi di coronavirus a Codogno, accompagnate da febbre che non passava. Almeno nel caso dei suoi pazienti, però, tutti alla fine erano guariti senza conseguenze.
Lucia Musini riceve in centro a Milano, vicino a piazza San Babila. È incinta di sei mesi, ma ha deciso di continuare a lavorare per non lasciare i suoi 1.700 pazienti a un nuovo medico, che per di più sarebbe difficile da trovare. Se normalmente in tutto marzo ad avere una febbre per più di qualche giorno sono una decina dei suoi pazienti, in questo periodo sono circa dieci al giorno. Spesso, dopo si ammalano i familiari conviventi: «mi fa pensare che potrebbe essere quello», dice. Normalmente li visiterebbe di persona, un passaggio fondamentale nel rapporto con i pazienti, ma ora è troppo rischioso. Cinque suoi pazienti, dopo aver manifestati i sintomi, sono andati a farsi fare il tampone in Svizzera, dove è possibile: sono risultati positivi.
Questo incremento delle persone che denunciano sintomi febbrili e influenzali può avere diverse cause, dalle maggiori segnalazioni dovute al momento di emergenza percepita al fatto che molte persone vogliono ottenere un certificato di malattia a distanza, legittimamente preoccupati di andare al lavoro. Ma specialmente nelle aree più colpite dal contagio è probabile che tra questi pazienti ce ne siano molti che hanno contratto il coronavirus e che guariranno senza aver fatto il tampone, o che saranno testate soltanto quando si aggraveranno: la preoccupazione dei medici è che le complicazioni cliniche si verifichino troppo velocemente, oppure di notte, rendendo impossibile fare arrivare in tempo un’ambulanza.
Talvolta, racconta Taverna, i casi di pazienti malati in casa – a cui magari non è mai stato fatto il tampone – sono così gravi che il decesso sarebbe soltanto ritardato, con un ricovero all’ultimo momento in terapia intensiva: la cosa migliore da fare sarebbe evitare di sovraccaricare gli ospedali lasciandoli in casa, ma non è una cosa che si possa realmente proporre a una famiglia con una persona cara in fin di vita.
«Con quello che ci è stato dato è impossibile mantenere quel ruolo di cordone sanitario che fa sì che gli ospedali possano concentrare il 90 per cento delle risorse sui pazienti COVID-19», spiega Marzocchi. «Le altre malattie non hanno smesso di esistere e in questo momento l’unico punto di riferimento rimasto ai malati cronici per i loro problemi siamo noi, che oltre a farci carico di tutti i nuovi casi di COVID-19 che non vengono ospedalizzati seguiamo lo scompenso cardiaco riacutizzato, la cistite emorragica, il diabetico scompensato, la lombalgia acuta, tutte cose che finirebbero ai pronto soccorso se noi non facessimo catenaccio rimanendo reperibili 24 ore al giorno e sette giorni a settimana».