Quanti sono i casi di coronavirus a Milano?
Ufficialmente poco più di 900, ma stiamo facendo il tampone soltanto a un piccolo numero dei casi sospetti: quindi sono probabilmente molti di più
Secondo i dati più aggiornati, diffusi martedì dalla regione Lombardia, le persone risultate positive al test per il coronavirus (SARS-CoV-2) nella città di Milano sono 964. È un dato che può sembrare molto basso, considerando che rappresenta più o meno lo 0,07 per cento dei suoi 1,35 milioni di abitanti. I casi reali di COVID-19 a Milano – come del resto in tutta Italia – sono però sicuramente di più: perché la definizione data dal ministero della Salute di “caso sospetto”, quelli a cui viene fatto il test, include soltanto una parte di quelli che i medici di famiglia considerano potenziali casi di COVID-19.
Lo ha detto implicitamente anche il sindaco Beppe Sala in un video pubblicato lunedì mattina: «Noi non sappiamo in effetti quanti sono i veri contagiati», ma possiamo dire che «il virus non sta sfondando». Osservando l’andamento dei casi confermati nella provincia, si osserva una crescita costante da inizio marzo, periodo durante il quale si è superata per esempio la provincia di Lodi, dove il numero di contagi si è ridotto drasticamente in seguito all’introduzione delle misure di isolamento.
I medici di famiglia di Milano con cui ha parlato il Post dicono che in larga parte, al momento, le persone sottoposte ai tamponi in città sono quelle che arrivano in ospedale quando presentano già sintomi tali da richiedere un ricovero. Il ministero della Salute, infatti, ha dato indicazione di non eseguire il test su chi non ha sintomi importanti (anche se vengono fatti – dopo valutazioni apposite e non sempre uniformi – a certe categorie, come gli operatori sanitari, i magistrati, i giornalisti, i calciatori e i politici).
L’attuale interpretazione dei protocolli a Milano non prevede generalmente il tampone per chi abbia avuto contatti certi con pazienti risultati positivi al coronavirus ma non presenta sintomi, nemmeno se familiare convivente. Sono previste comunque eccezioni, per esempio per le persone più a rischio: la decisione sui singoli casi spetta alle Agenzie di Tutela della Salute, la versione lombarda delle ASL.
Per quanto riguarda invece le persone che presentano sintomi riconducibili al coronavirus, ma per le quali non è possibile ricostruire contatti certi con casi positivi, il test viene fatto soltanto in caso di «infezione respiratoria acuta», definita come «insorgenza improvvisa di almeno uno tra i seguenti segni e sintomi: febbre, tosse e difficoltà respiratoria». I medici di medicina generale di Milano con cui ha parlato il Post dicono di avere tra i propri pazienti tantissimi casi che ritengono rientrare tra i potenziali contagiati, ma ai quali non è stato fatto il tampone dopo una valutazione della gravità dei sintomi da parte dell’ATS. È stato comunque chiesto a questi pazienti di rimanere in isolamento domiciliare (col rischio però di contagiare i propri conviventi).
I medici di famiglia con studi a Milano con cui ha parlato il Post segnalano un incremento significativo negli ultimi giorni dei pazienti che denunciano febbre moderata – generalmente sotto ai 38 °C – che persiste per più di una settimana, quando normalmente dovrebbe andarsene in casi di normale influenza. Molti presentano anche forme lievi di tosse e difficoltà respiratorie. Un medico ha detto che generalmente i casi simili sono un paio al giorno, mentre lunedì mattina sono stati 12. Un’altra ha raccontato che di solito, dei suoi circa 1.700 pazienti, quelli che in tutto marzo lamentano una febbre prolungata sono una decina: negli ultimi giorni sono stati una decina al giorno.
Non è detto che tutte queste persone abbiano contratto il coronavirus, e almeno alcune potrebbero invece avere un’influenza particolarmente persistente. In un momento di grave emergenza come quello attuale il carico di segnalazioni aumenta, perché la gente tende a preoccuparsi di più e a segnalare sintomi influenzali che normalmente non comunicherebbe al medico. C’è poi un’altra questione: i medici di famiglia al momento possono rilasciare certificati di malattia che esentano dal lavoro anche a distanza, per ridurre i potenziali contagi. Molte persone, dice un medico con cui ha parlato il Post, hanno approfittato di questa situazione per poter rimanere a casa dal lavoro, perché legittimamente preoccupate di avere contatti sociali.
Almeno in parte, comunque, si tratta di pazienti con sintomi che li rendono potenziali casi di coronavirus, ma ai quali attualmente viene detto di rimanere isolati a casa, e di tenersi in contatto con il medico per tenere d’occhio la situazione. Soltanto se si aggravano molto vengono fatti ricoverare in ospedale, e a quel punto viene fatto loro il tampone. Quelli di loro che hanno effettivamente contratto la COVID-19 in forme lievi, quindi, si ammalano e guariscono senza mai finire nei conteggi ufficiali. Tutti questi racconti, poi, si riferiscono ai casi di pazienti che presentano sintomi sospetti. Ma a quanto sappiamo, una percentuale rilevante di persone che viene contagiata dal coronavirus non manifesta sintomi, o ne manifesta di talmente lievi che probabilmente non si rivolge nemmeno al medico. Anche questi accrescono con ogni probabilità il numero di contagi reali, sul quale è comunque molto difficile – e rischioso – fare ipotesi.
Lo stesso approccio nella gestione dei test, in ogni caso, è applicato anche nel resto della Lombardia, e quindi i dati ufficiali di Milano possono essere confrontati con quelli delle altre province. In tutta la provincia, i casi accertati sono 2.326, di cui 964 in città. Anche se i casi sono probabilmente molti di più, vale lo stesso per altre province come Brescia o Cremona, che presentano un numero simile o superiore di casi accertati, nonostante il numero di abitanti molto inferiore a quello di Milano. Avere il numero di morti per COVID-19 a Milano aiuterebbe a farsi un’idea, seppur approssimativa e parziale, del numero reale di contagiati, calcolandolo sulla base del tasso di letalità della malattia. La Protezione Civile della Lombardia ha però detto al Post che il dato dei deceduti per comune non viene più conteggiato pubblicamente: e in ogni caso terrebbe traccia soltanto delle persone morte che erano state sottoposte al test ed erano risultate positive.