La spesa sanitaria italiana è stata tagliata?
Se ne è discusso molto in questi giorni: la risposta è sì, anche se apparentemente le risorse a disposizione del sistema sono aumentate
Nelle ultime settimane l’epidemia di coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione nazionale lo stato della sanità italiana e, in particolare, i tagli che avrebbe ricevuto negli ultimi anni e che oggi ne limiterebbero la capacità di contrastare il contagio. Nel dibattito si sono confrontati esperti e dirigenti del sistema sanitario, come Walter Ricciardi, consulente nominato dal governo sul coronavirus e membro esecutivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che ha accusato i governi del recente passato per non aver dato sufficiente priorità alla spesa sanitaria, e i politici al governo negli ultimi anni che invece hanno difeso le loro decisioni di spesa, alcuni sostenendo che in realtà la spesa sanitaria è sempre cresciuta.
A prima vista, sono questi ultimi ad avere ragione. Come si vede nel grafico qui sotto, elaborato dal ministero della Salute, la spesa sanitaria in termini assoluti è cresciuta quasi costantemente negli ultimi 20 anni, passando da 71,3 miliardi di euro nel 2001 a 114,5 miliardi nel 2019. L’apparenza però rischia di ingannare.
Questo grafico infatti mostra la spesa a “prezzi correnti”, cioè la spesa annuale in euro senza alcuna elaborazione. Per sapere veramente quante erano le risorse a disposizione del sistema sanitario nazionale in quegli anni bisogna però tenere conto anche di un altro fattore: bisogna sapere quanto valevano quei soldi e se in quel periodo è aumentata o diminuita la quantità di cose che con quei soldi si potevano comprare. Insomma, bisogna tenere conto dell’inflazione.
Per farlo di solito si usano non i “prezzi correnti”, ma i cosiddetti “prezzi costanti”, si sceglie cioè un anno di riferimento e si “normalizza” il finanziamento annuale tenendo conto dell’inflazione rispetto a quell’anno. Di recente questo esercizio è stato fatto dalla Fondazione Gimbe, in un suo rapporto in cui ha calcolato che – in particolare negli ultimi dieci anni – i soldi destinati alla sanità sono cresciuti meno dell’inflazione: quindi, anche se sembravano aumentare, le “cose” che si potevano comprare con quei soldi erano sempre meno.
«Nel decennio 2010-2019», scrive la fondazione nel suo rapporto, «il finanziamento pubblico del SSN è aumentato complessivamente di 8,8 miliardi di euro crescendo in media dello 0,9 per cento annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07 per cento». In altre parole, quindi, più che tagliare la spesa sanitaria, i governi degli ultimi anni hanno lasciato che fosse l’inflazione a ridurla di anno in anno.
Quello che i vari governi hanno effettivamente tagliato in questo periodo sono investimenti e aumenti di spesa previsti per il sistema sanitario. Originariamente, infatti, la spesa sanitaria avrebbe dovuto non solo crescere con l’inflazione, ma anche di più. L’Italia, infatti, è un paese sempre più anziano. Tra l’inizio degli anni Duemila e oggi, ad esempio, gli over 65 sono aumentati di quasi un terzo, passando da 10,6 a 13,7 milioni. Si calcola che ognuno di loro costi in media al servizio sanitario quasi il doppio rispetto a un giovane. Se vogliamo mantenere l’attuale qualità di servizi sanitari, quindi, la spesa in futuro è destinata ad aumentare.
Secondo i calcoli della Fondazione Gimbe, negli ultimi dieci anni circa 37 miliardi di euro di aumenti di spesa sanitaria previsti a questo scopo sono stati tagliati. Nel 2012, per esempio, il governo Monti annunciò un taglio della spesa sanitaria prevista per i tre anni successivi pari a circa 25 miliardi di euro. Dal 2015 al 2019 altri 12 miliardi di aumenti previsti (sia per pareggiare l’inflazione, sia per adeguare il sistema alle nuove necessità) sono stati cancellati. Questi tagli, in genere, sono stati giustificati con la necessità di mantenere un bilancio equilibrato e con quella di eliminare sprechi e inefficienze.
La situazione della sanità italiana è simile a quella, altrettanto discussa, del servizio sanitario britannico, il celebre National Health Service (NHS). Dopo la crisi, i governi conservatori hanno tagliato i previsti aumenti di spesa e gli adeguamenti all’inflazione e anche lì i politici hanno discusso se fosse giusto definirli dei veri e propri “tagli”. La discussione si è concentrata anche sugli effetti di queste politiche. Secondo una ricerca di un think tank vicino al partito laburista, lo “svuotamento” del finanziamento al NHS avrebbe causato negli ultimi 20 anni circa 130 mila morti che sarebbero state evitabili.
Un’altra angolatura ancora dalla quale valutare i “tagli” subiti dal sistema sanitario italiano è confrontare la spesa sanitaria in rapporto al PIL. Nel 2001 la spesa sanitaria italiana era pari al 7 per cento del PIL. Nel 2019 – dopo la grossa crisi economica degli anni 2008-2013, ma dopo anche la lenta ripresa che ne è seguita – questa percentuale è scesa al 6,6 per cento: una riduzione dello 0,4 per cento. La spesa sanitaria italiana, inoltre, non è particolarmente alta se messa a confronto con quella degli altri grandi paesi europei. Contando anche la spesa privata si arriva all’8,9 per cento del PIL italiano, una percentuale decisamente più bassa di quella francese (11,5 per cento del PIL) e tedesca (11,1 per cento del PIL), ma più o meno pari a quella di Spagna e Regno Unito.
Se effettivamente dei “tagli” ci sono stati, cosa esattamente è stato sacrificato? Risparmi piuttosto importanti sono stati fatti sul personale. Il numero di medici non è stato ridotto ma non è nemmeno cresciuto, e sono stati assunti pochissimi nuovi medici giovani. Il risultato è che oggi, secondo i sindacati dei medici, al sistema sanitario italiano mancano 46 mila operatori, tra cui 8.000 medici. Questo nonostante il numero totale dei medici sia rimasto più o meno stabile negli ultimi dieci anni – ma ha subito una flessione in rapporto alla popolazione, che invece è leggermente aumentata.
Bisogna poi aggiungere che il blocco delle assunzioni (una delle misure imposte con i vari tagli stabiliti nel 2009) ha contribuito a rendere i medici italiani tra i più vecchi d’Europa (oltre la metà di loro ha più di 55 anni). Nello stesso periodo sono stati ridotti moltissimo i posti letto negli ospedali (qui trovate un lungo rapporto) ma sono leggermente aumentati quelli in terapia intensiva, che sono tra i più importanti in questi giorni (questo però non è vero per alcune regioni, come il Veneto, dove i sindacati da tempo denunciano un taglio dei letti anche in terapia intensiva).
Come conclude il rapporto della Fondazione Gimbe, e come da anni sostengono sindacati e associazioni di medici, negli ultimi due decenni la spesa sanitaria non ha rappresentato una priorità per i governi che si sono succeduti, se non come settore nel quale era possibile risparmiare rendendolo più efficiente. Nonostante il fabbisogno di cure mediche del paese sia aumentato, a causa dell’invecchiamento della popolazione, la spesa sanitaria è rimasta più o meno stabile per un decennio, per poi ridursi sia sul totale del PIL che in termini assoluti, tenendo quindi conto dell’inflazione, e questo nonostante fosse già in partenza inferiore a quella di altri paesi europei, come Francia e Germania. L’Italia mantiene comunque una delle posizioni più alte nelle classifiche sanitarie mondiali e ha una delle aspettative di vita più elevate del mondo sviluppato.