Succederà a loro quello che è successo a noi?
Loro sono gli altri grandi paesi dell'Europa occidentale, noi siamo l'Italia: si parla di coronavirus, ed è una bella domanda
Negli ultimi giorni, diversi paesi europei hanno iniziato ad adottare nuove misure per contenere l’epidemia da coronavirus. Le restrizioni – che a seconda dei casi includono chiusura delle scuole, limitazioni degli spostamenti, divieti di organizzare eventi con molte persone – sono state assunte a causa del significativo aumento di casi positivi e per prevenire gli effetti che la diffusione del virus sta provocando in Italia, in particolare sul suo sistema sanitario.
Si è sentito dire sempre più spesso che paesi come Francia, Spagna, Germania e Regno Unito stiano seguendo una traiettoria simile a quella dell’Italia: cioè che “siano indietro” di una o due settimane, ma che nel giro di altrettanto tempo arriveranno al punto in cui siamo noi ora. È davvero così?
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La premessa fondamentale è che è difficile fare previsioni di questo tipo. Il numero di casi positivi in un paese dipende per esempio dai criteri che le autorità sanitarie adottano per testare le persone: in Italia nei primi giorni dell’epidemia si facevano tamponi a tutti i sospetti positivi, poi per ragioni diverse si sono cominciati a fare solo alle persone con sintomi. Dopo i primi giorni in Cina si sono inclusi nel conto dei positivi anche i casi diagnosticati clinicamente tramite TAC, e non solo quelli confermati dai test di laboratorio, stravolgendo le statistiche sui contagiati.
Sono diversi anche i sistemi sanitari dei vari paesi, così come la loro capacità di gestire l’arrivo di centinaia di nuovi pazienti in condizioni gravi, ogni singolo giorno, negli ospedali. E diversi sono banalmente gli usi e i comportamenti dei vari popoli europei: quanto ci abbracciamo e ci baciamo, quanti momenti di aggregazione abbiamo, quanto rispettiamo indicazioni e regole.
Per tutte queste ragioni occorre tenere a mente almeno due cose. Si può provare a capire che cosa sia successo finora, nonostante i dati disponibili siano ancora limitati e i criteri usati per raccoglierli non univoci. E si possono provare a fare previsioni, tenendo a mente che una stessa misura restrittiva può avere effetti molti diversi se applicata in Cina, in Italia o in Germania. Nessuno può dire con certezza cosa succederà nelle prossime settimane in Europa e l’interpretazione dei dati disponibili è utile più che altro per individuare tendenze generali.
Il grafico da cui partire, comunque, è questo.
È stato elaborato da Silvia Merler – capo ricercatrice dell’Algebris Policy & Research Forum (si occupa di studi e consulenze sulle politiche economiche europee) – ed è basato sui dati raccolti dalla Johns Hopkins University, che ha un database aggiornato su casi positivi, guariti e morti per il coronavirus nel mondo. Il grafico mette a confronto il numero di casi positivi su 10mila abitanti in diversi paesi europei e negli Stati Uniti; permette quindi di confrontare la situazione attuale di ciascun paese rispetto a quella italiana di diversi giorni fa.
Per esempio: la Spagna viene considerata sette giorni indietro rispetto all’Italia, perché in Spagna i primi casi positivi al coronavirus sono stati rilevati una settimana dopo rispetto a quanto successo in Italia. Nonostante le due curve che indicano i positivi su 10mila abitanti siano leggermente diverse, la tendenza è molto simile e oggi la Spagna si trova praticamente nella stessa situazione dell’Italia una settimana fa.
Secondo i dati della Protezione Civile, il 6 marzo in Italia c’erano 4.636 casi positivi, 778 in più del giorno prima. Ieri in Spagna c’erano 5.232 casi positivi, 2.228 in più del giorno prima. Il coronavirus, insomma, non è e non sarà un problema solo italiano.
Andamenti esponenziali sono stati registrati in questi giorni nei principali paesi dell’Europa occidentale (sono dati comunque da prendere con le molle, per i motivi elencati nella premessa: è utile interpretarli all’interno di una tendenza).
La Francia, che viene considerata nove giorni indietro rispetto all’Italia, fino a ieri aveva rilevato 3.667 casi positivi, 663 in più del giorno prima. Se andiamo nove giorni indietro, al 4 marzo, l’Italia aveva rilevato 3.089 positivi, 587 in più del giorno prima.
Il Regno Unito, che viene considerato due settimane indietro rispetto all’Italia, fino a ieri aveva rilevato 801 casi positivi, 345 in più del giorno prima. Due settimane fa, il 28 febbraio, in Italia erano risultate positive 888 persone, 238 in più del giorno prima.
La Germania, considerata 11 giorni indietro all’Italia, aveva ieri 3.675 casi registrati, 1.597 casi in più rispetto al giorno prima. Il 2 marzo in Italia c’erano 2.036 casi positivi rilevati, 342 in più rispetto al giorno prima. I numeri non sono così simili come negli stati precedenti, ma si conferma l’andamento, e forse semplicemente i giorni indietro potrebbero essere 9 o 10.
In altre parole, i dati suggeriscono che la situazione in cui si trova oggi l’Italia – oltre 15mila persone risultate positive, oltre mille morti legate al coronavirus e un sistema sanitario sotto fortissima pressione – potrebbe replicarsi in diversi paesi europei con tempi e modi tutti ancora da verificare. Interpretare questi dati è ancora più importante per i governi dei singoli paesi che stanno decidendo le politiche da adottare: isolare le città funziona oppure no? Limitare gli spostamenti? Chiudere le scuole e i negozi? E soprattutto, quando fare tutto questo?
Per comprendere meglio le implicazioni, è utile andare a vedere che cosa è successo a Wuhan, la città cinese da cui è partita l’epidemia, e a Hubei, la provincia di cui Wuhan è capoluogo. Diversi dati sono stati messi insieme e analizzati dell’analista Tomas Pueyo, che ha pubblicato un articolo molto condiviso e apprezzato.
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L’andamento del coronavirus a Wuhan è interessante soprattutto per aiutare a capire quanto possano influire sull’epidemia misure drastiche come la chiusura di tutte le attività e la limitazione degli spostamenti: le stesse misure che, anche se in forma più blanda di quella cinese, il governo italiano ha adottato negli ultimi giorni, e che stanno incontrando qualche resistenza negli altri paesi europei interessati dal coronavirus.
La cosa da tenere a mente è che Wuhan ha circa la stessa popolazione della Lombardia (10 milioni di persone), e l’Italia circa la stessa popolazione di Hubei (60 milioni). Il grafico da cui partire è questo.
Mostra l’andamento di due valori diversi nel tempo: le barre arancioni indicano il numero di persone risultate positive al test per il coronavirus ogni giorno nella provincia di Hubei; le barre celesti mostrano invece il numero reale di persone contagiate quel giorno (che le autorità cinesi hanno messo insieme successivamente chiedendo ai pazienti quando avessero sviluppato i primi sintomi). Mentre i numeri mostrati dalle barre arancioni erano conosciuti dalle autorità cinesi in quel momento, quelli mostrati dalle barre celesti no.
Il governo cinese impose il completo isolamento di Wuhan, la città più interessata dal coronavirus, il 23 gennaio, il settimo giorno dall’inizio dell’aumento significativo dei casi rilevati.
Come si vede dal grafico, il numero reale delle persone che ogni giorno venivano contagiate nella provincia di Hubei cominciò a scendere praticamente a partire dal 24 gennaio, grazie alla drastica riduzione degli spostamenti, alla chiusura di tutte le attività e al completo divieto di entrare e uscire dalla città. Il numero dei casi positivi rilevati ogni giorno – molti dei quali erano persone che avevano contratto il virus prima delle restrizioni – continuò comunque a crescere per altri 13 giorni, prima di cominciare lentamente a scendere.
In altre parole: prima di vedere i primi effetti di misure drastiche, in Cina furono necessarie quasi due settimane.
Non è detto che i risultati raggiunti in Cina grazie alle misure drastiche di contenimento si riescano a ottenere anche in Italia: come detto il blocco totale della provincia di Hubei fu imposto il settimo giorno dall’inizio dell’aumento significativo dei casi rilevati, mentre in Italia il sedicesimo. La Cina adottò inoltre misure più stringenti fin da subito: ricorse molto meno all’isolamento domiciliare e di più al ricovero in strutture specializzate, e avviò una campagna per individuare uno a uno tutti i possibili contagiati. Suddivise inoltre le strutture sanitarie tra ospedali esclusivamente per COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, e ospedali per altre malattie, una misura che oggi in Italia sembra piuttosto impraticabile.
Finora, comunque, l’Italia è stato il paese che ha adottato misure più simili a quelle cinesi per affrontare la diffusione del coronavirus, secondo molti agendo comunque in ritardo e con forti stress per alcuni ospedali della Lombardia, che nel complesso – secondo i dati elaborati da Merler – hanno ampiamente superato la capacità di posti letto di terapia intensiva esistenti prima dell’inizio della crisi.
La Lombardia ha raggiunto il 139 per cento della sua capacità iniziale, grazie all’allestimento di nuove terapie intensive dedicate esclusivamente ai pazienti COVID-19. Il piano è quello di aumentare ulteriormente il numero di posti letto nei prossimi giorni.
Quello che è successo in Italia nelle ultime due settimane è osservato con attenzione dagli altri paesi europei. Secondo diversi analisti, tra cui proprio Silvia Merler, i governi stranieri dovrebbero iniziare ad adottare politiche aggressive di contenimento: «Noi abbiamo aspettato troppo», ha scritto Merler, e il rischio ora è di non riuscire a reggere quello che verrà.
Sembra però che in Europa ci siano ancora parecchie resistenze sulla possibilità di limitare gli spostamenti e chiudere le attività commerciali, quindi di adottare politiche particolarmente restrittive. Il paese che sembra più intenzionato ad adottare interventi drastici è la Spagna, che come detto viene considerata una settimana indietro all’Italia.
In Spagna tra le altre cose sono state isolate quattro cittadine della Catalogna – come fece l’Italia più di due settimane fa con i focolai nel lodigiano e a Vo’ (Padova) – sospese tutte le attività del Congresso per almeno due settimane e chiuse le scuole. Il primo ministro Pedro Sánchez ha annunciato che oggi il suo governo si riunirà per dichiarare lo stato d’allarme, misura riconosciuta dalla Costituzione spagnola per limitare gli spostamenti della popolazione, proibire l’accesso a determinate zone, ordinare evacuazioni, limitare o razionare l’uso di servizi o il consumo di beni di prima necessità, e prendere temporaneamente il controllo di fabbriche e aziende private.
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Gli altri grandi paesi dell’Europa occidentale – tra cui Francia, Germania e Regno Unito – hanno iniziato a muoversi e a prendere misure più decise, con i britannici un passo indietro rispetto agli altri. La capacità di questi paesi di affrontare efficacemente la diffusione del coronavirus non dipenderà solamente dal numero delle persone risultate positive – quindi per esempio dalle misure restrittive adottate dai governi – ma anche da altri fattori, tra cui la solidità delle strutture sanitarie nazionali, in particolare dei reparti di terapia intensiva.
Per il momento è impossibile dire che i paesi in questione arriveranno tra una o due settimane al punto in cui è oggi l’Italia: ci vorranno diversi giorni per capire se la diffusione del contagio avrà uno sviluppo simile, anche se al momento le curve dei dati principali fanno pensare di sì.