La rivoluzione di Ornette Coleman
Nacque oggi novant'anni fa il sassofonista che ribaltò il jazz come nessun altro, con una serie di chiacchieratissimi concerti a New York
di Stefano Vizio
Il 17 novembre del 1959, poco più di cinquant’anni fa, sul palco del Five Spot di Manhattan, uno storico locale di jazz nell’East Village, salì un tipo magro con un completo che gli stava un po’ largo, imbracciando un sax di plastica da due soldi. Si chiamava Ornette Coleman, e nei successivi due mesi e mezzo avrebbe suonato ogni sera su quel palco facendo parlare di sé tutta l’élite culturale newyorkese, scandalizzando i puristi e i veterani del jazz.
Con il suo quartetto, Coleman fece sentire al pubblico del Five Spot una musica nuova, che mandava all’aria gran parte delle regole del jazz conosciuto fino a quel momento e che però si basava su melodie formidabili. Mentre i vecchi maestri si arrabbiavano – al punto che uno di loro, il grandissimo batterista Max Roach, alla fine di un concerto lo seguì nel camerino per tirargli un pugno – Coleman conquistò in fretta un gran numero di ammiratori. Negli anni successivi sarebbe diventato il protagonista di una delle più importanti innovazioni artistiche della seconda metà del Novecento: il free jazz.
Coleman nacque il 9 marzo del 1930 a Fort Worth, in Texas, novant’anni fa. Suo padre faceva il cuoco e il muratore, mentre sua madre lavorava come impiegata in un’azienda di pompe funebri. Entrambi, come avrebbe raccontato spesso Coleman, erano nati il giorno di Natale. A 14 anni la madre gli regalò un sax giocattolo, con cui cominciò a esercitarsi ossessivamente da autodidatta. Avrebbe mantenuto quell’approccio ingenuo e libero allo strumento e alla musica per tutta la carriera, così come avrebbe mantenuto a lungo l’abitudine di usare i sax in plastica, di un tipo che produceva a Londra l’azienda Grafton. Avevano un suono stridulo e dozzinale, ma erano perfetti per quello che voleva fare Coleman.
Cominciò a suonare con alcuni amici al liceo e da subito sviluppò un gran senso della melodia, accompagnato da un’approssimativa conoscenza della teoria musicale e dell’armonia. Suonava principalmente blues e lo faceva perlopiù a orecchio, imparando dalle band e dalle orchestre locali con le quali pian piano cominciò a collaborare. Si spostò inizialmente a Louisiana, dove il suo modo bizzarro e creativo di suonare ebbe poco successo: un giorno, dopo un concerto, un gruppo di altri musicisti lo picchiò e gli gettò il sassofono giù da, a seconda della volta che raccontò la storia, una collina o una rupe.
Alla fine degli anni Cinquanta si spostò a Los Angeles, dove conobbe i musicisti che avrebbero formato il suo quartetto e soprattutto dove entrò nelle grazie di John Lewis, un grande pianista e scopritore di talenti che gli procurò un contratto con l’Atlantic, etichetta discografica con la quale nel maggio del 1959 registrò The Shape of Jazz to Come, un disco che avrebbe cambiato tutto.
Il 1959 fu un anno memorabile per la storia del jazz, secondo molti il più grande di tutti: uscirono Kind of Blue di Miles Davis, Time Out di Dave Brubeck e Mingus Ah Um di Charles Mingus, e fu registrato Giant Steps di John Coltrane. Erano tutti dischi che provarono a raccogliere l’eredità del bebop, il jazz suonato da Charlie Parker, Dizzie Gillespie e che un decennio prima aveva rivoluzionato un genere che fino ad allora era stato appannaggio delle grandi orchestre. Ma nel 1959 anche il bebop aveva ormai finito le cose da dire, e in tanti erano ormai stanchi delle sue regole armoniche rigide e delle sue soluzioni di improvvisazione ormai logore.
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I jazzisti come Davis e Coltrane superarono il bebop cambiando il modo in cui si susseguivano gli accordi, sciogliendo pian piano le maglie armoniche che ormai stavano strette, e riuscendo così a crearsi sempre più libertà creative nelle improvvisazioni. Coleman superò tutti a destra: invece che cambiare le progressioni di accordi, cercò di liberarsene del tutto eliminando il pianoforte, lo strumento che tradizionalmente costituiva l’ossatura armonica del jazz, accompagnando con gli accordi le improvvisazioni dei fiati. In The Shape of Jazz to Come, a dare il riferimento al sassofono di Coleman e alla tromba di Don Cherry erano il contrabbasso di Charlie Haden e la batteria di Billy Higgins.
Senza gli accordi, Coleman si liberò delle strutture che stavano dietro agli accordi, le battute e il tempo, che persero importanza e che furono rimpiazzate dall’intuizione, dal rapido e scomposto esplodere di successioni di note decise da nient’altro che dalla ricerca della melodia, che assunse la stessa importanza – anzi: più importanza – dell’armonia e del ritmo. Con questa trovata Coleman non rivoluzionò soltanto il jazz, ma anche le strutture mentali e le teorie che stavano dietro al jazz e alla musica popolare, dandole una complessità tutta nuova e dimostrando che si poteva fare musica in modo completamente diverso.
Anche se senza il pianoforte Coleman poteva suonare più o meno tutte le note che voleva, ma non usò questa libertà per fare davvero un jazz senza tonalità, cosa che avrebbero fatto altri esponenti del free jazz negli anni successivi. Non voleva fare cose complicate o respingenti, non gli interessava sconvolgere il pubblico: voleva creare melodie nuove e che rimanessero appiccicate, e fu grazie a questo che la sua rivoluzione prese piede subito e trovò un grande successo tra chi ormai era stufo della musica che sentiva ogni sabato sera nei locali, ancora legatissima al bebop.
Il successo di Coleman fu possibile grazie a Lewis, che fece quello che oggi definiremmo “creare hype”: cioè usò la sua influenza per far girare la voce su quanto fosse in gamba, generando grandi curiosità riguardo al suo arrivo a New York. Funzionò: ai concerti di Coleman al Five Spot andarono tutti quelli che contavano qualcosa nel mondo della cultura della città, e tra chi lo detestava – come Davis, che passò tutta la serata al bancone dandogli le spalle – e chi lo ammirava – come Mingus, che disse che nonostante non sapesse suonare le sue melodie erano «così innovative» – le due settimane di concerti previste inizialmente diventarono dieci.
All’inizio Coleman fu trattato con grande sufficienza, perché era considerato un naif che voleva fare jazz senza le regole, e che quello che faceva probabilmente non era nemmeno jazz. Ma in poco tempo diventò chiaro che la strada che aveva preso Coleman era quella giusta per rinnovare il jazz e renderlo un genere musicale adatto al decennio che stava iniziando, gli anni Sessanta, nel quale la musica popolare sarebbe cambiata radicalmente e che sarebbe stato peraltro l’ultimo in cui il jazz avrebbe avuto davvero rilevanza. I generi e le tendenze musicali che lo soppiantarono, a partire dal rock, si ispirarono direttamente a Coleman e agli altri musicisti free jazz, principalmente per quanto riguarda lo spirito rivoluzionario e privo di preconcetti con il quale si erano approcciati alla musica fatta fino a quel momento.
Tra i musicisti che seguirono Coleman nel free jazz ci furono tra gli altri Cecil Tylor e Archie Shepp, e soprattutto Coltrane, considerato il più grande sassofonista di sempre insieme a Parker. Nel 1961, Coltrane disse che i dodici minuti in cui condivise una volta il palco con Coleman erano stati «il momento più intenso della mia vita».
L’anno dopo The Shape of Jazz to Come e i concerti al Five Spot, Coleman fece una cosa mai vista: registrò un disco stereo facendo suonare contemporaneamente due quartetti diversi, uno per canale audio. Fu un disco sperimentale più per la forma che per il contenuto, in realtà più tradizionale delle altre cose che fece in quel periodo, ma fu comunque fondamentale per molte sperimentazioni degli anni successivi, che pure in molti casi riuscirono meglio.
All’inizio degli anni Sessanta il quartetto di Coleman si sciolse: lui si allontanò per qualche tempo dalla scena free jazz tornando poi con un repertorio più avanguardistico e legato alla musica contemporanea europea di quegli anni. Dopo alcuni dischi scelse poi di formare una band elettrica, e tra gli anni Settanta e Ottanta si dedicò al funk e alla fusion, registrando anche diverse colonne sonore tra cui quella del Pasto nudo di David Cronenberg. Nel 2007 il suo Sound Grammar vinse il premio Pulitzer per la musica, secondo disco jazz nella storia a riuscirci dopo Blood on the Fields di Wynton Marsalis. Coleman morì di infarto a New York l’11 giugno del 2015, a 85 anni.